RICORDOCHENON

Ali Nere




l2



«Ditemi dunque il segreto, così lo porterò sulla

Terra e saremo tutti salvi: come può un pianeta

vivere in pace?»

Kurt Vonnegut

Mattatoio n.5 o La crociata dei bambini

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1936

In Spagna, una parte dell’esercito guidata dal “generalissimo”

Francisco Franco si ribella al governo

della Repubblica e scatena un terribile conflitto che

viene chiamato Guerra Civil, guerra civile.

Francisco Franco intende sopprimere la democrazia

nel suo paese e instaurare un regime fascista simile

a quelli di Benito Mussolini e Adolf Hitler, già al

potere in Italia e in Germania. Per questo riceve dal

dittatore italiano e da quello tedesco molti aiuti in

armi e soldati.

In difesa della Repubblica spagnola e della libertà

accorrono invece decine di migliaia di volontari,

uomini e donne comuni, provenienti da ben cinquantatré

diverse nazioni, tra le quali gli Stati Uniti

d’America, la Francia, l’Inghilterra, la Grecia, la

Polonia e l’Italia.

Non chiedetemi se la storia di Tommaso e Susa che

leggerete in queste pagine sia vera.

Io l’ho solo scritta, così come mi è stata raccontata.

A.M.

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1

Anche se avessi avuto uno specchio non avrei avuto bisogno di usarlo. Ero sicuro che il colorito del mio viso fosse verde smunto, come l’erba polverosa sul ciglio della strada.

«Devi guardare oltre il muro. Se non lo fai sei un vigliacco».

«Una carogna».

«Uno sputo di serpe».

«E non farai mai parte della nostra Brigata».

Continuai a fissare i quattro ragazzi addossati al muro del cimitero. Non la smettevano di incitarmi. Dall’altra parte del muro si sentirono voci che somigliavano a squittii di topi presi in trappola. Erano uomini che piangevano. Una voce più alta e secca schioccò nell’aria: «Disponete questi traditori contro la parete della cappella!»

Mi mancò il respiro.

«Coraggio! Guarda oltre il muro!» disse Gotzon, che era il capo del gruppetto.

«Non lo farà» ridacchiò uno dei compagni, un mingherlino di cui non conoscevo il nome. «Ha il cuore di una femmina».

Gotzon mi aveva detto che per entrare a far parte della loro banda, o Brigata di via Kurutziaga, come la chiamavano, avrei dovuto superare una prova di coraggio. Ma mi infastidiva che solo io avrei dovuto guardare oltre il muro del cimitero, dopo essermi arrampicato su uno spuntone di roccia, mentre i quattro ragazzi se ne stavano in basso, piegati sui talloni. Feci però quello che mi chiedevano. Sollevai il capo quanto bastava per vedere cosa stava succedendo. Tra le tombe c’era un mucchio di gente. Soldati dell’esercito repubblicano col fucile in spalla, soprattutto. Ma anche miliziani delle Brigate Internazionali che tenevano i loro fucili puntati su sette persone allineate contro la parete della cappella.

Queste ultime avevano le mani legate dietro la schiena e il capo scoperto. Dalla posizione in cui mi trovavo potei vedere bene il viso di uno solo di loro: era molto giovane, con un velo di barba bionda sulle guance bianche come il latte. Dovette accorgersi che lo stavo osservando, perché all’improvviso voltò il capo e mi rivolse uno sguardo umido e disperato. Mosse le labbra senza emettere un suono. Mi parve che dicesse: «Mi chiamo Matìas».

« Caricate!» gridò il comandante del plotone di esecuzione.

Mi abbassai di nuovo dietro al muro.

«Che vi avevo detto? È un vigliacco» ghignò il mingherlino.

«Non avere paura, italiano!» ruggì Gotzon. «Mira! Mira la muerte de los fascistas!».

In quel momento vicino a noi risuonò un’altra voce. «Non guardare invece. E voi andate via. Subito». A pochi passi dalla roccia sulla quale mi ero arrampicato era apparsa una ragazzina, proveniente dalle sterpaglie che circondavano il cimitero. Al suo fianco un cane dal pelo bianco e ispido, di dimensioni enormi. Si rivolse ancora a Gotzon e ai suoi compagni,
 che erano schizzati in piedi come se davanti a loro fosse comparso il diavolo.

«Ho detto sparite» ripeté. «O volete che ordini ad Argo di sbranarvi?».

Come se avesse compreso le sue parole il cane ringhiò, mostrando le zanne.

«Via… Presto…!»

Gotzon e i suoi amici si lanciarono tra le sterpaglie.

«Puntate!» gridò il comandante del plotone.

Mi inginocchiai sulla roccia e coprii le orecchie con le mani.

«Fuoco!»

Il crepitare degli spari fu come il rullio delle bacchette su un tamburo. Guardai di nuovo dentro il cimitero. I sette uomini erano stesi a terra. Al più giovane, un po’ distante dagli altri, come se all’ultimo momento avesse tentato di fuggire, erano sbocciati sulla schiena tre fiori rossi di sangue.

Mi chiesi se davvero si chiamasse Matìas.

Scesi dalla roccia, mi inginocchiai a terra e vomitai. Quando riuscii a smettere e mi sollevai per riprendere fiato, mi accorsi che la ragazzina e il suo cane erano ancora lì. Aveva i capelli neri corti e la gonna annodata tra le gambe magre, in alto, sin quasi all’inguine, così che
sembrava indossasse un paio di pantaloni. Ai piedi un paio di malconci scarponi da montagna.
«Te l’avevo detto di non guardare » mi rimproverò.

«Io mi chiamo Susa».

«Io Tommaso… Tomi».

«Immagino che avrai già sentito parlare di me, vero?»

Annuii senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi, che erano di due colori diversi. Uno verde muschio, vivido e scuro; l’altro di un azzurro tenue, come a volte è il cielo dopo una pioggia intensa. «Ti ho vista al mercato, la settimana scorsa» mormorai.

«Ti sei sporcato la giacca e la camicia» disse ancora lei. «Seguimi, ti aiuterò a ripulirti. Se non hai paura di me».

Sollevai le spalle. Non avevo paura di lei, a differenza di quel vigliacco di Gotzon.

Continuavo invece a tremare per ciò che stava succedendo dentro il cimitero.

«Caricate!» tuonò di nuovo la voce oltre il muro.

«Andiamo via, ti prego» sussurrai.

Seguii la ragazzina e il suo cane, domandandomi cosa avrebbero detto al mio ritorno Antton ed Elaia, i due anziani contadini che avevano accolto me e mio padre Arturo nella loro casa di Durango, pochi mesi dopo l’inizio della Guerra Civil. Entrambi si sarebbero preoccupati moltissimo, se avessero saputo cosa ero andato a fare al cimitero, in compagnia di Gotzon e dei suoi amici. Ma forse si sarebbero preoccupati ancora di più sapendo che avevo deciso di seguire chissà dove Susa, di cui molti a Durango parlavano a mezza voce, perché credevano che fosse una sorguin, una ragazzina mezzo strega e mezzo fata.

Man mano che ci allontanavamo, avvertii altre scariche di moschetti. Dopo i terribili avvenimenti accaduti il giorno prima nel centro abitato, la ritorsione sui fascistas non aveva fine. Era stato il vecchio Antton a raccontare a me e a sua moglie Elaja ciò che era accaduto il giorno prima nello slargo di viale Ezkurdi. Antton era tornato a casa trafelato, stringendo in
mano un pacchetto. Era evidente che non vedeva l’ora di raccontarci cosa aveva visto, ma prima aveva consegnato il pacchetto ad Elaja.

«Sono le medicine per il valoroso capitano Serra».

Quando Antton parlava di mio padre, diceva sempre così: “il valoroso capitano Serra”. Quindi mi aveva rivolto lo stesso sguardo tenero che avrebbe potuto rivolgermi uno dei miei nonni che vivevano in Italia, se solo avessi avuto la fortuna di conoscerli, e mi aveva chiesto: «Come sta tuo padre oggi?»

«Come ieri» avevo risposto. «Dorme. Dorme sempre. Ma non si lamenta».

«Speriamo che queste nuove medicine possano aiutarlo » era intervenuta Elaja, anche se con un tono di voce poco convinto.

Nessuno dei medici che avevano visitato mio padre dopo il suo arrivo a Durango era riuscito a darsi una spiegazione del suo stato di salute. Aveva una ferita al fianco e una alla tempia destra, che si era procurate nella battaglia di Monte Pelato. Ma visto che non si trattava di ferite particolarmente gravi, il comando della sua formazione militare, invece di inviarlo in un ospedale di Barcellona, aveva dato disposizioni perché venisse trasportato a Durango, un popoloso villaggio della Biscaglia dove avrebbe potuto ricevere le cure necessarie e trascorrere la convalescenza. Quando, però, io e mia madre Annita l’avevamo finalmente raggiunto dopo aver lasciato la nostra casa a Madrid, l’avevamo trovato in uno stato d’incoscienza di cui nessuno sapeva spiegarsi le ragioni. Mio padre Arturo, il valoroso capitano Serra, non aveva brividi di freddo, né convulsioni, né febbre alta provocata da qualche misteriosa infezione. Semplicemente dormiva, immobile, lontano da tutto, senza mai un lamento.

«Dobbiamo portarlo via da qui» aveva detto mia madre. «Via anche dalla Spagna. In Francia. A Parigi ci sono ottimi ospedali e medici eccellenti che forse potranno farlo guarire. Ma non sarà facile organizzare il trasporto».

Quando avevo capito che mia madre intendeva partire per trovare l’aiuto che le occorreva, l’avevo supplicata di portarmi con sé, ma lei era stata irremovibile. «Tornerò a prendere te e tuo padre il prima possibile» aveva detto. Mi aveva stretto in un abbraccio forte e deciso. «Ricorda… Non piangere! Noi non piangiamo» mi aveva soffiato all’orecchio.

Dopo che lei era andata via, avevo lasciato che Elaja mi facesse sedere sulle sue ginocchia. La donna mi aveva tenuto stretto a sé e io non avevo pianto, anche se avevo una gran voglia di farlo. «Vedrai, tua madre tornerà entro pochi giorni» aveva detto Antton. Ma di giorni ne erano già passati parecchi, e di mia madre Annita non avevamo avuto più nessuna notizia.

«Allora, cosa è successo nello slargo di viale Ezkurdi? » aveva chiesto Elaja a suo marito, dopo aver preso le medicine per mio padre.

«Avete sentito le esplosioni?»

«Sì. Due».

«No, almeno tre» l’avevo corretta io.

«Giuro che non capisco» aveva sussurrato allora Antton. Ci aveva fatto sedere vicino a lui e aveva tracciato col dito un cerchio immaginario sul tavolo. «Oggi nello slargo del viale Ezkurdi un gruppo di ragazzi giocava alla pelota. Alle undici in punto si è sentito il rombo di un aereo. Tutti hanno smesso di giocare». Antton aveva continuato a parlare con voce incredula. Sopra Durango erano apparsi due velivoli. Si rano abbassati sin quasi a sfiorare i tetti delle case e poi avevano lasciato cadere alcune bombe. Una era caduta sulla stazione. Una era finita nel giardino del dottor Unamunzaga. La terza, infine, era precipitata sui ragazzi che sino a un istante prima giocavano alla pelota. Tra di loro c’erano stati dodici morti.

«Cosa non capisci?» aveva chiesto Elaja ad Anton.

«Non capisco perché quell’aereo dei fascistas ha sganciato le bombe sul nostro centro abitato». Era indignato. «Forse è stato uno sbaglio. Perché in guerra un esercito colpisce l’esercito nemico. In campo aperto. È sempre andata così! Non dei ragazzi disarmati che giocano alla pelota!»

Avevo avvertito una stretta alla bocca dello stomaco.

«Che c’è ancora?»

Elaja si era accorta che Antton aveva altro da dirci. «Domani farete meglio a non uscire di casa».

«Perché?»

«Pare che gli amici e i parenti dei ragazzi uccisi, insieme ai miliziani del Battaglione della Gioventù, vogliano pareggiare i conti per ciò che è successo oggi. La gente dice che domani andranno al Carcere Municipale, dove sono stati rinchiusi i prigionieri fascisti. Li tireranno fuori e poi li porteranno al cimitero, dove li fucileranno».

Elaja aveva sgranato gli occhi. «Ma non sono stati loro a sganciare quelle bombe! Sarebbe una vendetta!»

«Ho paura che niente potrà impedirlo» ribatté Antton mestamente. «Il pilota che ha sganciato quelle bombe è un loro complice».

Quella notte non avevo chiuso occhio. In parte perché ero rimasto a lungo nella camera di mio padre, con la sua mano stretta tra le mie, e in parte perché quando mi ero infilato sotto le coperte non avevo fatto altro che pensare a quello che avevo sentito.

L’indomani mattina, invece di seguire il suo consiglio, ero sgattaiolato fuori di casa e avevo incontrato Gotzon e i suoi amici, che mi avevano chiesto se volevo entrare a far parte della loro Brigata. Mi avevano assicurato di aver messo da parte, in un nascondiglio segreto, fucili, pistole e bombe a mano di legno del tutto simili a quelle vere che usavano  i soldati. Insieme a diverse fionde e una maschera antigas a cui mancava solo il filtro per funzionare.

Non era stato, però, per poter ammirare ciò che per Gotzon e i suoi amici era un vero tesoro, che avevo deciso di affrontare la prova di coraggio che mi avevano chiesto.

La verità era che intendevo guardare in faccia i prigionieri che sarebbero stati portati al cimitero. Mi illudevo che tra loro potesse esserci anche il soldato fascista che a Monte Pelato aveva ferito mio padre. E che, forse, per istinto, sarei riuscito a individuare il suo sguardo torvo, carico di ogni inumana ferocia.

Non potevo certo immaginare che l’unico nemico che sarei riuscito a guardare in viso, invece, sarebbe stato un ragazzo che forse si chiamava Matìas, conappena un velo di barba bionda sul viso pallido e due occhioni pieni di paura.




















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