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Lunario dei giorni di scuola


Appendice decimo

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Il compito di latino

Montague Rhodes James

(…)

Il collegio era grande; di regola ospitava dai 120 ai 130 allievi, perciò richiedeva un notevole corpo d'insegnanti, che venivano cambiati abbastanza spesso. Ero lì forse da sette od otto mesi, quando arrivò un nuovo professore. Si chiamava Sampson: un tipo robusto, con la barba nera, un bell'uomo. Devo dire che a noi ragazzi piaceva; aveva viaggiato molto e conosceva delle storie che ci divertivano durante le passeggiate, tanto che facevamo a gara per stargli vicino ad ascoltare i suoi racconti. Ricordo anche - santo cielo, credo di non averci mai più pensato da quei tempi - di avergli visto un portafortuna appeso alla catena dell'orologio. Un ciondolo che un giorno attrasse la mia attenzione, e che lui mi lasciò osservare da vicino. Ora, a ripensarci, doveva essere una moneta bizantina. d'oro; su una faccia c'era l'effigie di un imperatore credo, l'altra invece era consunta, tanto che lui vi aveva fatto incidere, idea alquanto barbara, le sue iniziali, G.W.S. e una data, 24 luglio 1865. Sì, adesso ricordo; mi aveva detto di averla presa a Costantinopoli, ed era della grandezza di un fiorino, forse un poco più piccola.
Ebbene, la prima cosa strana che accadde fu questa. Sampson ci insegnava latino. Uno dei suoi metodi preferiti, e mi pare fosse buono, era quello di farci comporre delle frasi di nostra invenzione per illustrare di volta in volta le regole che cercava di farci entrare in testa. Naturalmente, per un ragazzo sciocco era una buona occasione per scrivere frasi impertinenti; ma Sampson sapeva imporre la disciplina, e a nessuno di noi sarebbe venuto in mente di provarsi a fare dello spirito. Dunque, quella volta ci stava spiegando come coniugare il verbo "ricordare" in latino e ordinò a ognuno di noi di comporre una frase con la voce "memini". La maggior parte, si sa, buttò giù qualche frase banale come "Ricordo mio padre" o "Egli ricorda il suo libro", o cose altrettanto sciocche; e direi che parecchi combinarono un "memino librum meum", e così via; ma il mio amico Mc Leod evidentemente stava pensando a qualcosa di più elaborato. Tutti noi avevamo già finito, e volevamo presentare i nostri fogli per essere poi liberi, perciò qualcuno lo urtò col piede di sotto al banco, e io, che gli sedevo accanto, gli diedi una gomitata dicendogli di sbrigarsi. Ma pareva che non mi sentisse.
Diedi un'occhiata sul suo foglio e vidi che era ancora bianco. Allora lo urtai ancora più forte rimproverandolo perché ci faceva aspettare tutti. La mia sgridata fece effetto; lo vidi sussultare e parve svegliarsi; poi in gran fretta scarabocchiò un paio di righe e mise il suo foglio insieme agli altri. Era stato l'ultimo o quasi, e poiché Sampson era occupato a dire il fatto loro ai ragazzi che avevano scritto "meminiscimus patri meo" e così via, l'orologio batté le dodici e Mc Leod non era ancora passato; dovette perciò rimanere in classe per far correggere la sua frase. Fuori non c'era gran che da fare, perciò io rimasi in corridoio ad aspettarlo. Quando finalmente arrivò, camminava adagio, e capii subito che c'era per aria qualche guaio.
"Allora" gli dissi "quanto ti ha dato?". "Oh, non lo so" mi rispose. "Non molto. Ma credo che Sampson ce l'abbia con me". "Come mai, gli hai messo giù qualche strafalcione?". "No, no, la frase era giustissima, da quanto ho capito. Era così: "memento", questo è facile da ricordare, e prende il genitivo, "memento putei inter quatuor taxos". "Che pasticcio!" dissi io. "Ma che cosa ti è saltato in mente? Che cosa vuol dire ?". "E proprio questa la cosa più buffa" disse Mc Leod. "Non sono nemmeno sicuro di che cosa voglia dire. So soltanto che mi è venuta in mente così e l'ho buttata giù. Mi pare di sapere che cosa significhi, perché prima di scrivere mi son visto come una immagine davanti agli occhi. Credo che la frase sia: ricorda il pozzo fra i quattro..., che cosa sono quegli alberi scuri, con le bacche rosse?". "Credo che tu voglia dire il sorbo selvatico". "Mai sentito nominare" disse Mc Leod. "No, te lo dico io: è il tasso." "E che cosa ti ha detto Sampson ?". "Be', è stata una cosa curiosa. Appena ha letto, si è alzato, è andato verso il camino ed è rimasto là un bel po', voltandomi la schiena, senza dire niente. E poi, senza girarsi, mi ha chiesto molto tranquillo: "Che cosa credi che voglia dire?" Io gli ho detto ciò che pensavo, solo non potevo ricordare il nome di quello stupido albero; e poi lui ha voluto sapere perché avevo scritto così, e io lì a inventare una cosa qualunque. Allora lui ha cambiato discorso e mi ha chiesto dove abitavano i miei, e cose del genere, poi io sono venuto via, ma lui aveva l'aria di stare poco bene".
Non ricordo che altro dicemmo tra noi due in proposito. Il giorno dopo Mc Leod rimase a letto col raffreddore o qualcosa del genere, e per una settimana non venne in classe. Poi, passò circa un mese senza che accadesse niente di notevole. Se anche il signor Sampson era stato turbato, come pensava Mc Leod, non lo dava a vedere. Certo oggi io sono persuaso che nel suo passato doveva esserci stato qualcosa di molto strano, ma certo non si pretende che dei ragazzi siano tanto acuti da indovinare problemi del genere.
E poi si verificò un altro incidente simile al primo. Ci era accaduto altre volte d'illustrare in classe varie regole che avevamo imparato, ma non c'era mai stato niente di eccezionale da dire, se non quando si facevano degli errori marchiani. Venne il giorno in cui ci toccò passare sotto le forche caudine di quelle cose orrende che si chiamano frasi condizionali. Ognuno di noi doveva scrivere una frase che esprimesse conseguenze future. Bene o male, tutti scrissero qualcosa e presentarono i loro pezzi di carta a Sampson, il quale cominciò a esaminarli. Improvvisamente, si alzò in piedi facendo uno strano rumore con la gola, e si precipitò fuori da una porta che era proprio accanto alla predella della cattedra. Noi tutti restammo fermi per un paio di minuti, poi, credo che non sia stato molto corretto, io e un paio d'altri ci avvicinammo alla cattedra per guardare i fogli. Immaginavo che qualcuno avesse scritto delle impertinenze,
e che Sampson fosse uscito per andare a far rapporto al preside. Comunque, avevo notato che non aveva preso nemmeno uno dei fogli andandosene via.
Bene, la prima pagina che copriva le altre, sulla cattedra, era scritta in inchiostro rosso, che nessuno usava, e la calligrafia non era quella di nessuno di noi. Tutti vennero a guardare, Mc Leod e gli altri, e tutti giurarono e spergiurarono che non era la loro scrittura. Poi, a me venne in mente di contare i fogli: sulla cattedra c'erano diciassette fogli, e in classe eravamo sedici ragazzi. Mi presi il foglio scritto in inchiostro rosso, e credo di averlo ancora. Adesso vorrete sapete qual era la frase. Abbastanza semplice e innocua, mi pare, eccola: "Si tu non veneris ad me, ego veniam ad te", il che significa, credo: "Se tu non verrai da me, verrò io da te"".
(...) ma c'è un'altra cosa strana. Quello stesso pomeriggio tirai fuori quel foglio dal mio armadietto, ero certo che si trattava dello stesso foglio perché lo avevo segnato con un'impronta del dito, ma sopra non c'era più la minima traccia di scrittura o d'inchiostro. L'ho conservato, come ho già detto, e da allora ho fatto molte prove per vedere se era stato usato dell'inchiostro simpatico, ma senza il minimo risultato.
E passiamo ad altro. Dopo circa mezz'ora, Sampson riapparve, ci disse che non si sentiva bene, e che potevamo uscire. Si avvicinò alla cattedra, quasi guardingo, e diede un'occhiata al foglio che copriva gli altri: io penso che credesse di aver sognato. In ogni caso, non fece domande. Il pomeriggio era mezza festa, e il giorno dopo, Sampson era di nuovo in classe come al solito. Quella notte si verificò il terzo e ultimo incidente della mia storia.
Noi due, Mc Leod ed io, dormivamo nell'ala che formava angolo retto con l'edificio centrale dove era la camera di Sampson, al primo piano. Quella sera la luna era piena, e molto luminosa. Fui svegliato a un'ora che non saprei precisare, ma doveva essere fra l'una e le due. Qualcuno mi scrollava forte. Era Mc Leod, e mi parve sconvolto. "Vieni! Su, vieni!" mi disse. "C'è un ladro che vuole entrare dalla finestra di Sampson". Appena mi fu possibile parlare, gli domandai: "Ma perché non ci mettiamo a gridare e svegliamo tutti gli altri?". "No, no - disse lui - "non so bene chi sia. Vieni a vedere e non far chiasso". Naturalmente andai a vedere e naturalmente non c'era nessuno. Ero alquanto seccato, e avrei trattato volentieri Mc Leod come si meritava, soltanto, non saprei dire perché, mi pareva che veramente nell'aria ci fosse qualcosa d'insolito, qualcosa che mi faceva ringraziare il cielo di non essere solo in quel frangente. Eravamo ancora lì alla finestra e stavamo guardando: io gli chiesi che cosa avesse visto o sentito. "Non ho sentito proprio niente" mi disse. "Ma appena cinque minuti prima che ti svegliassi, ero qui alla finestra e vedevo un uomo, seduto o inginocchiato, sul davanzale di Sampson. Guardava dentro e mi pareva che facesse dei cenni". "Che tipo era ?". Mc Leod si strinse nelle spalle. "Non lo so. Ma posso dirti una cosa: era maledettamente magro e pareva che fosse tutto bagnato, e poi..." si guardò intorno e abbassò la voce, come se non gli piacesse sentire le proprie parole "non sono affatto sicuro che fosse vivo" concluse.
"Continuammo a bisbigliare ancora per un poco, poi finalmente ognuno s'infilò nel proprio letto. Nessun altro si svegliò o si mosse, nel dormitorio. Dopo, forse, riuscimmo a dormire ancora un poco, ma il mattino seguente eravamo alquanto malandati.
E il giorno dopo, il signor Sampson se n'era andato, nessuno seppe dove, e credo che da allora non si sia più trovata traccia di lui. Ripensandoci, una delle cose più strane mi parve il fatto che né Mc Leod né io aprimmo mai bocca con chicchessia su questo fatto. Si capisce, nessuno mai ci fece domande in proposito, ma se anche avessimo dovuto rispondere, sono propenso a credere che non avremmo potuto aprir bocca: pareva che non riuscissimo a parlarne.
(...) Il seguito della storia potrà essere giudicato molto banale; ma un seguito c'è bisogna pur farlo conoscere. Il racconto aveva avuto più di un ascoltatore, e alla fine dello stesso anno, o dell'anno seguente, uno di essi si trovava in una casa di campagna in Irlanda. Una sera, in salotto, il padrone di casa vuotò un cassetto pieno di oggetti vari. "Dunque - disse all'ospite - voi che ve ne intendete di antichità, ditemi un po' che cos'è questo". Il mio amico aprì l'astuccio e vi trovò una catenina d'oro con appeso un ciondolo. Diede un'occhiata all'oggetto e poi si tolse gli occhiali per esaminarlo più da vicino.
" Qual è la storia di questo ciondolo?" domandò. "Oh, alquanto curiosa. Avete visto il boschetto di tassi, nel giardino? Bene, un paio d'anni fa, ho fatto pulire il pozzo che si trova nella radura, lì in mezzo, e indovinate che cosa abbiamo trovato?" "Non mi direte che ci avete trovato un cadavere?" disse l'ospite con una strana sensazione di nervosismo.
"Proprio così, invece. Anzi, vi dirò di più: ne abbiamo trovati due".
"Santo Iddio! Proprio due? E c'era qualche indizio di come hanno potuto finire là dentro? Avete trovato questo ciondolo vicino ai corpi?"
"Certo. Fra gli indumenti ridotti a brandelli di uno dei due cadaveri. Vi assicuro che la scena era agghiacciante: uno dei cadaveri teneva l'altro avvinghiato con le braccia. Dovevano essere là sotto da trent'anni o più,
comunque da molto, molto tempo prima che noi venissimo ad abitare qui. Potete immaginare se non ci siamo affrettati a riempire di nuovo il pozzo! Ma riuscite a capire che cosa c'è inciso su quella moneta d'oro?" "Credo di riuscirci" disse il mio amico, alzando la moneta verso la luce, ma già aveva letto senza troppa difficoltà. "Mi pare che sia: G.W.S., 24 luglio 1865".

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