Dall'infanzia di Paolo Borsellino Di
Cosa Nostra, nella famiglia Borsellino, così come in quella di Giovanni
Falcone, si parlava molto poco. Certo, si sapeva che nel quartiere
diversi pescatori si dedicavano al piccolo contrabbando di
sigarette. Ma, come poi dirà Rita, si trattava di un’attività che,
seppur illegale, in molti casi non faceva arricchire e anzi bastava
appena ad arrotondare gli scarsi guadagni della pesca.
Per
uno di quei strani giochi del destino, però, assai prima che la mafia
penetrasse profondamente nella Kalsa, sostituendo al traffico di
sigarette quello della droga, Paolo venne a conoscenza di un episodio
che lo turbò profondamente. L’occasione la crearono, quando aveva dodici anni, l’interesse per la storia del passato, questa volta in un ambito più familiare, e la vivacità del suo carattere. Paolo
un giorno, senza avvisare i suoi genitori, sale su un autobus di linea
mezzo scassato e raggiunge Belmonte Mezzagno, un paesino arroccato
sulle colline che circondano Palermo. Qui è nata sua madre. E qui suo
nonno Salvatore, prima di trasferirsi nel capoluogo, ha lavorato per
lunghi anni come direttore della Società dei Telefoni. Presentatosi
negli uffici del Comune, Paolo chiede che gli vengano mostrati tutti i
documenti anagrafici della famiglia Lepanto, perché intende ricostruire
l’albero genealogico della sua ascendenza materna. Solo dopo aver
ottenuto dagli stupefatti impiegati tutte le notizie che sta cercando
fa poi ritorno a Palermo, a pomeriggio inoltrato, trovando i suoi
genitori terribilmente preoccupati. A
essere più turbato di Maria e Diego, è però lui, Paolo. Perché a
Belmonte Mezzagno non ha scoperto solo che un ramo della sua famiglia
materna discende dai marchesi del feudo di Giardinello, o Jardinelli, un borgo settecentesco situato ai piedi dei Monti di San Martino. Qualcuno
gli ha anche raccontato una storia che riguarda suo nonno, avvenuta nei
primi anni Trenta del secolo scorso. Era una domenica mattina e
Salvatore Lepanto passeggiava nella piazza del paese, dove altri
compaesani erano intenti a ossequiare il padrino, il capo mafia del posto, un uomo rozzo e violento che pretendeva che al suo cospetto tutti si levassero il cappello.
"Voscenza binirica", dicevano ossequiosi, in fila uno dopo l’altro, chinando il capo e sfiorando con le labbra la mano del padrino. Vossignoria benedica. Ma
Salvatore Lepanto no. Come aveva sempre fatto in passato, anche in
quell’occasione aveva tirato dritto, sino a quando il capo mafia non
l’aveva chiamato e, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto, lo aveva
schiaffeggiato davanti a tutti. A
quello schiaffo Salvatore Lepanto non aveva reagito. Aveva tenuto la
testa alta e prima di allontanarsi aveva detto ancora "no", con voce
ferma è decisa. Nessuno
oggi può sapere cosa veramente destò questo episodio nell’animo di
Paolo. Neppure sua sorella Rita, che seppe cosa era successo solo
quand’era più grande. Di
certo, però, Paolo Borsellino non dimenticò mai cosa era accaduto a
Salvatore Lepanto. E forse gli capitò, da adulto, di domandarsi se fu
anche a causa di quello schiaffo, che poi imboccò la strada che lo
avrebbe portato a opporsi con tutte le sue forze alla prepotenza della
mafia. |
Dall'infanzia di Giovanni Falcone
“Giovanni,
a casa, non chiedeva mai aiuto per i compiti” racconta ancora Maria. “E
a dire la verità non passava neppure troppo tempo sui quaderni e sui
libri. Se la cavava benissimo grazie alla sua spettacolare memoria, e i
voti altissimi nelle pagelle stanno lì a testimoniarlo”. La
vivacità di Giovanni in quegli anni, a volte, aveva modo di sfogarsi,
più che all’interno, all’esterno della scuola, come una volta ebbe a
raccontare Anna, che andava a prenderlo alla fine delle lezioni. “Spesso
litigava con gli altri ragazzi, aveva la tendenza a gettarsi nella
mischia, soprattutto se si trattava di difendere qualcuno. Si metteva
alla prova, s’imponeva il coraggio. E non si lasciava intimidire
neppure dai ragazzi più grandi e più grossi di lui”. Sembra
quasi d’immaginarlo, Giovanni, una scheggia di bambino con il berretto
grigio in testa, lungo la strada che da piazza Sett’Angeli conduceva a
casa. A
volte se la doveva vedere con i ragazzi che infastidivano Anna. Li
affrontava e gridava loro di andarsene. Poi la rassicurava: “Non ti
preoccupare, ti difendo io!” In altre occasioni, invece,
come ha ricordato ancora la sorella maggiore, prendeva fuoco per un
nonnulla: “Non sopportava di essere preso in giro. Ricordo che portava
un cappellino con la sigla dell’istituto: C.N., l’abbreviazione di
Convitto Nazionale. Questo cappello era la causa di continue liti
perché gli altri ragazzini, specialmente quelli che lui considerava i
miei scocciatori, gli chiedevano: <<Cosa vuol dire C.N.? Di
sicuro cretino nazionale>>. E Giovanni andava in bestia”. “Un’altra
volta” racconta invece Maria “il suo argento vivo lo portò a combinarne
una grossa. Forse aveva visto un film di Zorro, o forse aveva già letto
un libro o un fumetto con lo stesso personaggio. Fatto sta che un
giorno in cui ci trovavamo a casa di nostra nonna, per imitare le gesta
del cavaliere mascherato sfregiò con uno spadino improvvisato la
tappezzeria di raso su una parete”. Il segno di Zorro, per l’appunto. Giovanni, con tutti i suoi slanci e sulle ali della fantasia, stava crescendo. E
un ruolo sempre più importante negli anni che vennero lo ebbero di
certo i giochi e le letture, ma anche l’amore per la cultura
trasmessogli dai suoi genitori.
Gim Toro, D’Artagnan e i Beati Paoli Giovanni,
come quasi tutti i bambini dell’epoca, non possedeva molti giochi.
Sappiamo che amava in particolare i soldatini di piombo, di cui aveva
una piccola collezione (“Glieli regalava nostro padre, forse stufo di
acquistare bambolotti per noi femmine”, ricorda oggi scherzosamente
Maria). E sappiamo anche che amava le spade di legno. A tal punto che
ogni tanto, come poi lui stesso raccontò da grande, gli capitava di
correre a perdifiato e di nascosto verso il mare, per improvvisare
sugli scogli interminabili duelli con qualche amico. Altre volte, invece, la fantasia di Giovanni scorrazzava libera sulle pagine dei fumetti. Pressappoco alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso aveva esordito in Italia un albo chiamato Gim Toro,
che aveva la copertina a colori, una decina di pagine in bianco e nero
e costava cinque lire a fascicolo. Aveva per protagonista un italo
americano di San Francisco, tutto cuore, simpatia e muscoli, che amava
ricambiato la bellissimaLilyth Howard (la Vipera Bionda) e combatteva contro la misteriosa organizzazione criminale asiatica denominata Hong del Dragone e comandata dal malefico Colui-che-sa. Gim Toro,
che ogni settimana metteva in palio tra i suoi giovani lettori un
pallone di plastica, era uno dei fumetti preferiti da Giovanni. Insieme
a quelli pubblicati sulCorriere dei Piccoli che arrivava ogni domenica in casa Falcone. E a Pecos Bill,
un cowboy che negli Stati Uniti fu il protagonista di numerosi romanzi
sull’epopea dei pionieri del Far West e che nel fumetto italiano si
trasformò in un personaggio molto particolare. In tutta la sua lunga
serie, infatti, il biondo cowboy, che era stato allevato da un branco
di coyotes nella prateria e aveva come amici Davy Crockett e Calamity
Jane, non sparò mai un colpo di pistola. Per difendere i più deboli,
sanare un’ingiustizia o dare una severa lezione ai prepotenti, gli
bastavano il suo lazo e i suoi pugni esplosivi o, come si diceva allora, al fulmicotone. Non
erano solo i fumetti, però, ad attirare sempre più spesso Giovanni
nella “camera del presepe”, come tutti chiamavano ancora la sua stanza,
e a isolarsi dal resto del mondo. Erano anche i libri. Se è vero che
l’amore per la lettura nasce quasi sempre per contagio, a contagiare
Giovanni non furono solo le sorelle Anna e Maria, insaziabili lettrici,
ma soprattutto i suoi genitori, e in particolar modo suo padre. Arturo
Falcone passava a casa quasi tutto il tempo libero dal lavoro e aveva
una biblioteca ben fornita. Amava Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio
e Pitigrilli. E ogni tanto permetteva a suo figlio, che continuava a
chiamare affettuosamente biddicchiu, di prendere uno dei suoi libri dagli scaffali. Libri d’avventura soprattutto, che Giovanni letteralmente divorava. Come I tre moschettieri e Il conte di Montecristo di
Alexandre Dumas padre. O come un altro romanzo che il suo autore,
l’ungherese Ferenc Molnàr, scrisse per adulti, ma che finì per essere
amato dai giovani lettori in tutto il mondo, I ragazzi della via Paal. Certo, oggi è difficile dire quanto e in che modo l’appassionante e struggente storia del piccolo Nemecsek,
un’altra scheggia di bambino con un cuore grande così e uno
straordinario coraggio, abbia poi influito su ciò che Giovanni sarebbe
stato da grande. Ma colpisce come una lama al cuore il
pensiero che anche il protagonista del libro, per non arrendersi alla
prepotenza e all’ingiustizia e per restare fedele al patto di amicizia
stretto coi suoi compagni, alla fine del racconto perde la vita. |