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Da che parte stare




BAFRICA


I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino morirono nel 1992. Giovanni il 23 maggio, in un attentato che squassò l’auto su cui viaggiava insieme alla moglie e a  un autista giudiziario;  Paolo cinquantasette  giorni dopo, in un secondo attentato avvenuto nel cuore di Palermo, la città dove erano nati. Venticinque anni non sono tanti. Ma neppure pochi, se a guardare indietro nel tempo non sono gli adulti che seguirono in diretta i tragici avvenimenti di allora, ma ragazzi nati successivamente. È perciò soprattutto a voi ragazzi, al vostro bisogno di conoscenza e di comprensione di ciò che avvenne, della storia semplice e insieme straordinaria di due uomini a cui tutti dobbiamo qualcosa, che è rivolto questo libro.

                          a.m.


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Dall'infanzia di Paolo Borsellino

 Di Cosa Nostra, nella famiglia Borsellino, così come in quella di Giovanni Falcone, si parlava molto poco. Certo, si sapeva che nel quartiere diversi pescatori si dedicavano al piccolo   contrabbando di sigarette. Ma, come poi dirà Rita, si trattava di un’attività che, seppur illegale, in molti casi non faceva arricchire e anzi bastava appena ad arrotondare gli scarsi guadagni della pesca.


Per uno di quei strani giochi del destino, però, assai prima che la mafia penetrasse profondamente nella Kalsa, sostituendo al traffico di sigarette quello della droga, Paolo venne a conoscenza di un episodio che lo turbò profondamente.

L’occasione la crearono, quando aveva dodici anni, l’interesse per la storia del passato, questa volta in un ambito più familiare, e la vivacità del suo carattere.

Paolo un giorno, senza avvisare i suoi genitori, sale su un autobus di linea mezzo scassato e raggiunge Belmonte Mezzagno, un paesino arroccato sulle colline che circondano Palermo. Qui è nata sua madre. E qui suo nonno Salvatore, prima di trasferirsi nel capoluogo, ha lavorato per lunghi anni come direttore della Società dei Telefoni.

Presentatosi negli uffici del Comune, Paolo chiede che gli vengano mostrati tutti i documenti anagrafici della famiglia Lepanto, perché intende ricostruire l’albero genealogico della sua ascendenza materna. Solo dopo aver ottenuto dagli stupefatti impiegati tutte le notizie che sta cercando fa poi ritorno a Palermo, a pomeriggio inoltrato, trovando i suoi genitori terribilmente preoccupati.


A essere più turbato di Maria e Diego, è però lui, Paolo. Perché a Belmonte Mezzagno non ha scoperto solo che un ramo della sua famiglia materna discende dai marchesi del feudo di Giardinello, o Jardinelli, un borgo settecentesco situato ai piedi dei Monti di San Martino. Qualcuno gli ha anche raccontato una storia che riguarda suo nonno, avvenuta nei primi anni Trenta del secolo scorso. Era una domenica mattina e Salvatore Lepanto passeggiava nella piazza del paese, dove altri compaesani erano intenti a ossequiare il padrino, il capo mafia del posto, un uomo rozzo e violento che pretendeva che al suo cospetto tutti si levassero il cappello.

"Voscenza binirica", dicevano ossequiosi, in fila uno dopo l’altro, chinando il capo e sfiorando con le labbra la mano del padrino.

Vossignoria benedica.

Ma Salvatore Lepanto no. Come aveva sempre fatto in passato, anche in quell’occasione aveva tirato dritto, sino a quando il capo mafia non l’aveva chiamato e, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto, lo aveva schiaffeggiato davanti a tutti. A quello schiaffo Salvatore Lepanto non aveva reagito. Aveva tenuto la testa alta e prima di allontanarsi aveva detto ancora "no", con voce ferma è decisa.
Nessuno oggi può sapere cosa veramente destò questo episodio nell’animo di Paolo. Neppure sua sorella Rita, che seppe cosa era successo solo quand’era più grande. Di certo, però, Paolo Borsellino non dimenticò mai cosa era accaduto a Salvatore Lepanto. E forse gli capitò, da adulto, di domandarsi se fu anche a causa di quello schiaffo, che poi imboccò la strada che lo avrebbe portato a opporsi con tutte le sue forze alla prepotenza della mafia.

 

Dall'infanzia di Giovanni Falcone

“Giovanni, a casa, non chiedeva mai aiuto per i compiti” racconta ancora Maria. “E a dire la verità non passava neppure troppo tempo sui quaderni e sui libri. Se la cavava benissimo grazie alla sua spettacolare memoria, e i voti altissimi nelle pagelle stanno lì a testimoniarlo”.

La vivacità di Giovanni in quegli anni, a volte, aveva modo di sfogarsi, più che all’interno, all’esterno della scuola, come una volta ebbe a raccontare Anna, che andava a prenderlo alla fine delle lezioni.  “Spesso litigava con gli altri ragazzi, aveva la tendenza a gettarsi nella mischia, soprattutto se si trattava di difendere qualcuno. Si metteva alla prova, s’imponeva il coraggio. E non si lasciava intimidire neppure dai ragazzi più grandi e più grossi di lui”.

Sembra quasi d’immaginarlo, Giovanni, una scheggia di bambino con il berretto grigio in testa, lungo la strada che da piazza Sett’Angeli conduceva a casa.

A volte se la doveva vedere con i ragazzi che infastidivano Anna. Li affrontava e gridava loro di andarsene. Poi la rassicurava: “Non ti preoccupare, ti difendo io!” In altre occasioni,  invece, come ha ricordato ancora la sorella maggiore, prendeva fuoco per un nonnulla: “Non sopportava di essere preso in giro. Ricordo che portava un cappellino con la sigla dell’istituto: C.N., l’abbreviazione di Convitto Nazionale. Questo cappello era la causa di continue liti perché gli altri ragazzini, specialmente quelli che lui considerava i miei scocciatori, gli chiedevano: <<Cosa vuol dire C.N.? Di sicuro cretino nazionale>>. E Giovanni andava in bestia”.[1]

“Un’altra volta” racconta invece Maria “il suo argento vivo lo portò a combinarne una grossa. Forse aveva visto un film di Zorro, o forse aveva già letto un libro o un fumetto con lo stesso personaggio. Fatto sta che un giorno in cui ci trovavamo a casa di nostra nonna, per imitare le gesta del cavaliere mascherato sfregiò con uno spadino improvvisato la tappezzeria di raso su una parete”.

 Il segno di Zorro, per l’appunto.

Giovanni, con tutti i suoi slanci e sulle ali della fantasia, stava crescendo.

E un ruolo sempre più importante negli anni che vennero lo ebbero di certo i giochi e le letture, ma anche l’amore per la cultura trasmessogli dai suoi genitori.

 
Gim Toro, D’Artagnan e i Beati Paoli

Giovanni, come quasi tutti i bambini dell’epoca, non possedeva molti giochi. Sappiamo che amava in particolare i soldatini di piombo, di cui aveva una piccola collezione (“Glieli regalava nostro padre, forse stufo di acquistare bambolotti per noi femmine”, ricorda oggi scherzosamente Maria). E sappiamo anche che amava le spade di legno. A tal punto che ogni tanto, come poi lui stesso raccontò da grande, gli capitava di correre a perdifiato e di nascosto verso il mare, per improvvisare sugli scogli interminabili duelli con qualche amico.

Altre volte, invece, la fantasia di Giovanni scorrazzava libera sulle pagine dei fumetti.

Pressappoco alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso aveva esordito in Italia un albo chiamato Gim Toro, che aveva la copertina a colori, una decina di pagine in bianco e nero e costava cinque lire a fascicolo. Aveva per protagonista un italo americano di San Francisco, tutto cuore, simpatia e muscoli, che amava ricambiato la bellissimaLilyth Howard (la Vipera Bionda) e combatteva contro la misteriosa organizzazione criminale asiatica denominata Hong del Dragone e comandata dal malefico Colui-che-sa.

Gim Toro, che ogni settimana metteva in palio tra i suoi giovani lettori un pallone di plastica, era uno dei fumetti preferiti da Giovanni. Insieme a quelli pubblicati sulCorriere dei Piccoli che arrivava ogni domenica in casa Falcone. E a Pecos Bill, un cowboy che negli Stati Uniti fu il protagonista di numerosi romanzi sull’epopea dei pionieri del Far West e che nel fumetto italiano si trasformò in un personaggio molto particolare. In tutta la sua lunga serie, infatti, il biondo cowboy, che era stato allevato da un branco di coyotes nella prateria e aveva come amici Davy Crockett e Calamity Jane, non sparò mai un colpo di pistola. Per difendere i più deboli, sanare un’ingiustizia o dare una severa lezione ai prepotenti, gli bastavano il suo lazo e i suoi pugni esplosivi o, come si diceva allora, al fulmicotone.

Non erano solo i fumetti, però, ad attirare sempre più spesso Giovanni nella “camera del presepe”, come tutti chiamavano ancora la sua stanza, e a isolarsi dal resto del mondo. Erano anche i libri. Se è vero che l’amore per la lettura nasce quasi sempre per contagio, a contagiare Giovanni non furono solo le sorelle Anna e Maria, insaziabili lettrici, ma soprattutto i suoi genitori, e in particolar modo suo padre.

Arturo Falcone passava a casa quasi tutto il tempo libero dal lavoro e aveva una biblioteca ben fornita. Amava Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio e Pitigrilli. E ogni tanto permetteva a suo figlio, che continuava a chiamare affettuosamente biddicchiu, di prendere uno dei suoi libri dagli scaffali.

Libri d’avventura soprattutto, che Giovanni letteralmente divorava. Come I tre moschettieri e Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas padre. O come un altro romanzo che il suo autore, l’ungherese Ferenc Molnàr, scrisse per adulti, ma che finì per essere amato dai giovani lettori in tutto il mondo, I ragazzi della via Paal.

Certo, oggi è difficile dire quanto e in che modo l’appassionante e struggente storia del piccolo Nemecsek, un’altra scheggia di bambino con un cuore grande così e uno straordinario coraggio, abbia poi influito su ciò che Giovanni sarebbe stato da grande. Ma colpisce come una lama al cuore il pensiero che anche il protagonista del libro, per non arrendersi alla prepotenza e all’ingiustizia e per restare fedele al patto di amicizia stretto coi suoi compagni, alla fine del racconto perde la vita.



[1] La testimonianza di Anna è tratta dal volume Storia di Giovanni Falcone, di Francesco La Licata (Feltrinelli).

 




















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