Claudia, di fronte alla barakina di nonno
Zarif, ha gli occhi lucidi e le gambe di pietra. “Devi andare” le dice il nonno. “Ti stanno
aspettando, non vedi?” La ragazzina sbircia il camioncino sul
quale sono già saliti sua madre Samira e i suoi due fratellini. Suo padre Marko è al volante. “Claudia! Vieni!” la richiama ancora una
volta. La ragazzina, però, non si muove. “Vieni anche tu con noi, nonno, ti prego”
mormora. E dette queste parole non riesce più a trattenere le lacrime. Così che
spetta all’anziano Zarif accompagnarla sino al camioncino. “Coraggio, piccola” le sussurra il nonno
all’orecchio. Mentre il mezzo si allontana sulla strada
sterrata, Claudia si asciuga le lacrime ed evita di voltare lo sguardo indietro.
Si accorge che sua madre e i suoi fratellini fanno lo stesso. E che suo padre
ha il volto pallido e la fronte aggrottata, come se anche lui provasse un
pizzico di quella incontenibile paura che le stringe il cuore. Qualche mese prima, nel grande campo rom
dove Claudia era nata e aveva sempre vissuto, qualche decina di barakine di
legno pesto alla periferia di Cagliari, era arrivata la notizia che
l’insediamento sarebbe stato chiuso. E che ogni famiglia avrebbe dovuto cercare
un’altra sistemazione. O andando via per sempre dalla città. O accettando
l’aiuto del Comune per prendere una casa in affitto. Nelle settimane che erano seguite, c’erano
state accese discussioni. Certo, nelle barakine la vita era quasi
impossibile. Erano anguste, fredde, prive di acqua corrente e a volte infestate
dalle blatte e dai topi. Ma la sola idea di abbandonare il Campo terrorizzava
tutti. - Ricordate che la gente ci disprezza, e a
volte ci odia apertamente – avevano affermato gli uomini più anziani. – Che ne
sarà di noi se accettassimo di dividerci? Se le famiglie andranno a vivere da
sole in case lontane l’una dall’altra? Claudia aveva ascoltato tutte le
discussioni col cuore in gola. Perché nonno Zarif aveva detto che si sarebbe
trasferito in un altro campo di un’altra città, dove vivevano alcuni lontani
parenti. E perché invece i suoi genitori sembravano più propensi ad accettare
l’offerta del Comune. Claudia non sopportava l’idea di separarsi
dal nonno. Ma soprattutto le sembrava impossibile vivere in qualunque altro
posto che non fosse il Campo. Ogni mattina Claudia andava a scuola con
lo Scuolabus del Comune. Frequentava la quinta classe della scuola primaria e
andava d’accordo con i suoi compagni e con le sue compagne. Ma non aveva mai
stretto veramente amicizia con nessuno di loro. E nessuno di loro era mai
venuto a trovarla nella sua barakina. “I gagé[1]
con i gagé e i rom con i rom” era solito brontolare nonno Zarif. Non credeva possibile che i rom potessero
vivere fuori dal Campo, persino i suoi figli e i suoi nipoti, che pure erano
nati e cresciuti a Cagliari ed erano italiani a tutti gli effetti. E Claudia l’aveva
sempre pensata come il nonno. Una volta, quando era più piccola, le era
capitato di entrare con sua madre in un negozio di abbigliamento nella centrale
via Paoli. Ma la proprietaria del negozio, non appena le aveva viste, aveva
esclamato: “Via! Via! Non c’è niente da rubare! Non
vogliamo zingare qua!”. Claudia si era sentita avvampare in viso.
E non avrebbe saputo dire se aveva provato più rabbia verso quella donna
sgradevole o verso sua madre, che invece di reagire era fuggita come se davvero
fosse una ladra. Perché Samira non aveva urlato in faccia a
quella donna che nessuno di loro aveva mai rubato uno spillo? E che suo marito
lavorava sodo per guadagnare quanto bastava alla famiglia, raccogliendo ogni
tipo di materiale ferroso col suo camioncino dotato di un braccio metallico? Solo più tardi Claudia aveva capito che
sua madre era stata sopraffatta dalla vergogna e dalla paura. Le stesse che da
quel giorno accompagnavano anche lei, ogni qualvolta metteva il naso fuori dal
Campo. “I gagè coi gagè e gli zingari con gli zingari”. Nonno Zarif aveva proprio ragione. Ed ecco che ora, a bordo del camioncino
del papà, Claudia si allontana per sempre dal Campo, per trasferirsi in una
piccola casa con un ampio cortile nel quartiere di San Michele. Arrivati sul posto tutti scendono dal
camion e Marko infila la chiave nella serratura del cancelletto del cortile. E
in quel momento Claudia si accorge che a pochi passi una buffa ragazzina
osserva ogni loro movimento. Ha pressappoco la sua stessa età, un
capellino messo in testa di traverso, è esile come uno stecco e stringe tra le
mani un pallone da basket. Mentre gli altri entrano in casa Claudia
si attarda e la sfida con lo sguardo. E in quel momento la ragazzina la
travolge con un disordinato fiume di parole. “Come ti chiami? Siete stranieri, vero?
Capisci la mia lingua? Da che Paese venite?” Claudia per un po’ tentenna. Ma poi il
sorriso della ragazzina la spinge a rispondere. “Mi chiamo Claudia. Certo che
capisco la tua lingua. E’ anche la mia. Io vengo da un Paese vicino e lontano.
Anzi lontanissimo…”. La ragazzina però sembra non badare affatto
alle sue parole. Si dondola sui piedi e si raschia la gola. Poi solleva un
braccio verso il cortile. “Potrò entrare qualche volta? I vecchi
inquilini mi permettevano di farlo”. Claudia si volta e solo allora capisce a
cosa si riferisce la ragazzina. Su un muro del cortile c’è un canestro da
basket. Vecchio, storto e piuttosto arrugginito. “Io mi chiamo Manuela. Se vuoi possiamo
giocare insieme”. Claudia esita. Trattiene il respiro. Quindi… “Noi… Noi siamo rom” sussurra con un filo di
voce. Ma la ragazzina non le lascia il tempo di
capire se ha udito o no le sue parole. In un attimo è già dentro il cortile,
sotto il canestro. “Dai, cosa aspetti? Giochiamo!” esclama. Per un attimo a Claudia sembra che il tum
tum del pallone si sovrapponga al battito del suo cuore, che ora spinge e
spinge forte nel petto, come succede quando ci si accorge che qualcosa di
meraviglioso è successo. Come l’improvviso alleggerirsi di un peso
sul cuore. O il fiorire inatteso di una speranza e di
una amicizia. |