Per Anna Ruggiu e
Giuseppe Pontremoli «Ma poi, una notte, ho
fatto un sogno. Ho sognato che il vento non l’aveva dispersa e l’aveva lasciata tutta intera da qualche parte, in un posto che non so, e la canzone era stata
raccolta da qualcuno che a quel punto l’aveva fatta sua...» da Il mistero
della collina di G. P. Prefazione alla seconda
edizione Accogliendo la proposta
dell’editore di lavorare a questa seconda edizione di Fiabe Zingare, ho
ritenuto opportuno non variare la struttura del primo volume, già beneficiato
da una discreta fortuna, e di concentrare invece i miei sforzi
sull’arricchimento della raccolta. Da qui la decisione di
inserire altre quattordici fiabe appartenenti alla tradizione romané di
diversi paesi e, soprattutto, di dotare l’opera di una postfazione critica
curata da Angela Tropea, finissima studiosa di storia e letteratura romané e
già collaboratrice della prestigiosa rivista Lacio Drom. Oltre alle “nuove”
fiabe (Come il vecchio Del creò i primi Zingari, Storia di uno Zanzarino,
San Pietro e il violino, L’uccellino magico, Il rom, La scatolina incantata,
Trovato, Le cento mucche del parroco, Come morì l’alfabeto degli Zingari, La
povera zingara e il cappello del nano, Storiellina del mercante che si vendette
la barba, Mile e Angulimala, La sposa gallina, Tzigo e il fiore della fortuna e
della felicità), questa nuova edizione è ulteriormente arricchita da una paramiča zingara
russa ancora inedita in Italia. Saporo (Serpentaccio), registrata
dall’antropologo e ziganologo Vadim Toropov presso la comunità dei Rom di
Crimea, stanziati nella regione di Krasnodar, viene qui presentata sia nella
sua versione italiana sia nella sua versione originale in lingua romanes,
entrambe curate ancora da Angela Tropea. Le persone che in un
modo o nell’altro hanno reso possibile la pubblicazione di queste fiabe e che
sento di dover ringraziare sono numerose. Innanzitutto i Romà che mi
hanno accolto nelle loro baracche di cartone e legno pesto: molto tempo è
passato dalla mia prima Festa di Primavera e in tutto questo tempo molto ho
imparato da loro. Un ringraziamento va anche a Mirella Karpati e a don Bruno
Nicolini del Centro Studi Zingari di Roma (alle cui pubblicazioni si deve la
primogenitura su carta di alcune fiabe che ripropongo a modo mio in questo
volume); a Vadim Toropov per la squisita disponibilità mostrata nel permettermi
di utilizzare la fiaba da lui raccolta e a Pia Valentinis per la cura con cui
ha illustrato questo volume. Un pensiero speciale va infine ad Angela Tropea.
Non solo per l’impegno e la professionalità con le quali ha collaborato alla
stesura di questa raccolta, ma soprattutto per l’amicizia ancora una volta
datami in dono. Infine una doverosa
precisazione. La prima edizione di questo volume di fiabe era dedicata ad Anna
Ruggiu. Una amica e una donna straordinaria, scomparsa precocemente, con la
quale ho avuto la fortuna di condividere un pezzo di quella strada che portò
entrambi a conoscere dall’interno l’universo dei Rom residenti in Sardegna. Per
ricordare nel modo più degno Anna, decisi allora di utilizzare un breve brano
tratto dal romanzo Il mistero della collina di Giuseppe Pontremoli,
grandissimo scrittore innamorato della storia e della cultura degli Zingari, a
cui sono stato legato da un forte e indimenticabile sentimento di fraternité. Il motivo per cui in
questo volume al nome di Anna si è aggiunto quello di Giuseppe, sta nel fatto
che anche lui è andato via: che anche lui oggi non c’è più. In ricordo di
entrambi risuoni allora la stessa canzone portata dal vento, perché il vento
continui a soffiare e perché altri raccolgano le sue parole. Alberto Melis Storia di uno Zanzarino Questa fiaba di
narratore ignoto che racconta le vicende di un’irresistibile quanto spaccone
Zanzarino appartiene alla tradizione dei Rom lovara e venne pubblicata per la
prima volta sul giornale della Gypsy Lore Society.[1] Si tratta senza dubbio di una delle
più belle fiabe della tradizione romané. In un paese che
forse c’era e forse non c’era, viveva tanto tempo fa un giovane Zanzarino. E
che il buon Del mi faccia cadere la lingua se non era lo Zanzarino più
presuntuoso e insolente mai apparso a importunare la gente per bene sulla
faccia della terra! “So tutto io!” diceva.
E quello che non sapeva se l’inventava. In quanto alla bellezza poi, bellissimo
davvero non era. Eppure, a sentirlo vantarsi, sembrava che tutte le zingare -
dagli otto agli ottant’anni o giù di lì – si innamorassero di lui come il sole
d’inverno della luna d’estate e come la luna d’estate della dolce Venere! Ora dovete sapere che
tutto ciò di cui abbondava davvero il nostro Zanzarino (a sacchi, a ceste e a
sporte, o così almeno diceva lui), era un coraggio da Cavaliere, da Re e da Cuor
di Leone. Così, quando venne a sapere che in un certo castello diroccato di una
certa lontana contrada viveva una famosa candela che ardeva eternamente, decise
sui due piedi che l’avrebbe sfidata a duello. A dire il vero già
molti altri uomini valorosi giunti dai quattro orizzonti, avevano sfidato
quella candela. Nessuno di loro però era riuscito ad averla vinta in duello con
la sua fiamma. - Ma io non sono
Nessuno e Nessuno non sono io! – esclamò il nostro giovane spaccone gonfiando
il petto (che il buon Del perdoni la sua impudenza!). - Io ci riuscirò. Potete
scommetterci il pranzo con la cena! E senza porre tempo al
tempo corse in cucina, afferrò un coltellaccio e tagliò due fette di pane per
il viaggio. Tra l’una e l’altra mise un pezzo di burro, un pizzico di sale, due
fette di carne e tre peperoncini grossi e saporiti. Poi fece un fagottello con
il fazzolettone d’oro della madre, infilò il coltellaccio nella cintola e si
mise per strada. Camminò e camminò, il
giovane Zanzarino all’avventura. E quando giunse a destinazione si intrufolò
nel castello e bussò alla stanza dove viveva la candela. Ah se foste stati lì a
vedere! La candela ardeva
silenziosa al centro della stanza e quando lo Zanzarino entrò e disse: -
Ti sfido a duello! -, neppure si mosse. Arricciò appena la fiamma, con garbo e
sufficienza, né più né meno di come si arriccia la punta di un baffo. E allora
che fece lo Zanzarino? Si portò avanti con le
mani sui fianchi, il temerario! E con ambedue gli occhi che lanciavano
scintille. Ma la candela niente,
non fece neppure una piega. Allora lo Zanzarino
tirò fuori il suo coltellaccio. E con quello la minacciò e gliene disse di così
tante e di così brutte, insultando lei, suo padre, sua madre e intere
generazioni di candele che avevano vissuto prima di lei in quel castello, che
di certo qualsiasi altra candela al suo posto sarebbe andata su tutte le furie. Ma quella candela, che
era una candela benedetta che da giovane aveva visitato un posto sacro a Del e
a tutti i Santi, ancora una volta non reagì. - Ah, è così? Non vuoi
combattere con me da uomo a uomo? – esclamò paonazzo in volto lo Zanzarino. E
fatto un altro passo, quello decisivo, le assestò un formidabile pugno dal
basso verso l’alto in perfetto stile zingaresco. Mai l’avesse fatto, il
giovane spaccone! - Ohi! Ahi! Mi sono
bruciato! Ohi! Ahi! Candela traditrice! Perché hai divorato la mia povera mano?
Non avevi capito che stavo scherzando? E pensare che già mi stavo affezionando
a te come a una sorella! E piangendo e
lamentandosi il giovane Zanzarino corse verso casa con la coda tra le gambe e
con una mano in meno. - Presto, presto!
Chiamate un dottore! – gridò la vecchia madre, quando lo vide in quello stato.
– Presto, presto! Qui ci vuole una mano nuova di zecca! Ma di mani nuove di
zecca il dottore, quel giorno, nella sua borsa non ne aveva neppure una. Aveva
solo una zampa di gallina vecchia che aveva comprato al mercato per cuocerla
nel brodo. E quella attaccò sul braccio monco del giovane Zanzarino. Ora, perché sicuramente
voi siete persone assennate e per bene, penserete che da quel giorno il giovane
Zanzarino imparò che non si deve giocare né con le candele né col fuoco. Ebbene vi sbagliate! Perché il nostro
Zanzarino (che il buon Del perdoni il suo orgoglio impenitente!), appena si
ritrovò in piedi corse di nuovo in cucina. Afferrò un coltellaccio, tagliò due
fette di pane, tra l’una e l’altra ci mise un pezzo di burro, un pizzico di
sale, due fette di carne, tre peperoncini grossi e saporiti e corse a sfidare
un’altra volta la candela! Mai l’avesse fatto, il
giovane sbruffone! Dopo la prima mano, perse anche la seconda. Poi un piede,
una gamba, l’altra gamba, un orecchio, un braccio, il sedere, un’anca e infine
anche la testa. Quel povero dottore,
che nella sua borsa non aveva mai niente di ciò che serviva alla bisogna,
dovette inventarne una ogni volta e una ogni volta non bastava. Così che alla
fine nessuno riuscì più a capire che razza di strano animale fosse quello che
se ne andava in giro per il villaggio, più presuntuoso e insolente che mai: con
due zampe di gallina, quattro ali di pollo, la testa di un gallo, il petto e
l’anca di un tacchino e persino il sedere di una pavoncella (che se posso dirlo
era pure grinzoso e arrossato, che il buon Del perdoni le mie parole!). - Dite la verità, avete
mai visto qualcosa di più straordinario? - diceva ora lo Zanzarino, andando in
giro per il paese a fare la corte a tutte le zingare dagli otto agli
ottant’anni o giù di lì. – E tutto questo perché? Perché ho il coraggio di un
Cavaliere, di un Re e di un Cuor di Leone! Bene. Il nostro giovane
Zanzarino (se possiamo ancora chiamarlo così, perché Zanzarino più non era, e
neppure carne né pesce) se ne andò un giorno a bighellonare sulla riva del
fiume. E lì cosa vide? Vide il sindaco di un
villaggio vicino, un villaggio di poveri contadini, che si nascondeva dietro a
un cespuglio di canne, perché mentre stava facendo il bagno un ladro vagabondo
gli aveva rubato i vestiti, calze, mutandoni e cappello compresi. - Ti prego, aiutami a
trovare qualcosa con cui coprirmi – lo implorò il sindaco. – Non posso certo
tornare al villaggio così! - Io ti aiuterò e ti
darò i miei vestiti. Ma prima dobbiamo fare un patto… - gli rispose lo
Zanzarino. E in men che non si dica, con quella lingua lesta e furba che si
ritrovava, lo convinse a fare un baratto. Prima si scambiarono la
testa. Poi il piede, una gamba, l’altra gamba, una mano, l’altra mano,
un’orecchio, un braccio, il petto, un’anca e persino il sedere. - Quando mi restituirai
i vestiti – disse lo Zanzarino al povero sindaco. – Io ti restituirò tutto ciò
che è tuo. Detto questo lo
Zanzarino gli voltò le spalle e corse veloce come la regina delle lepri al
villaggio dei contadini, dove tutti lo salutarono col cappello in mano
scambiandolo per il sindaco e dove si impossessò dei suoi beni, della sua casa
e persino della sua poltrona preferita. E quando un giorno il
vero sindaco venne a reclamare ciò che era suo, sapete che fece quel diavolo di
uno Zanzarino? Lo cacciò via, dette
una gran festa, fu gentile con tutti e si innamorò della ragazza più bella del
villaggio, che non aveva né otto né ottant’anni ma l’età giusta per sposarsi
sì. E, credete a me, quella
fanciulla fu davvero felice di sposarlo! Perché tutti i contadini del villaggio
a quel punto dicevano che un sindaco così modesto e così saggio (che il buon
Del abbia pietà delle loro zucche tonde e vuote!), non si era mai visto sulla
faccia della terra.
[1] Jan
Yoors, A Lowari Tale: Collected and Translated with Notes and Introducion,
in Journal of the Gypsy Lore Society n. 25, 1946. __________________________________________________________________________________________________________________________________________ La creazione del mondo Questa storia degli
Zingari d’Ungheria venne raccontata al ricercatore Vladislav Kornel e pubblicata
per la prima volta, nella sua forma originale, sul Journal of the Gypsy Lore
Society di Londra nel 1890. Nello stesso anno e in una versione quasi identica
(raccolta presso altri gruppi zingari dei Balcani), venne pubblicata anche da
Heinrich von Wlislocki ad Amburgo[1]. All’inizio di ogni cosa,
prima che il mondo venisse creato – e con lui gli uomini, il buio, la luce e
il passare del Tempo – c’era una grande distesa d’acqua cristallina che si
estendeva di sotto, di sopra e in ogni dove. Da qualche parte, dove
di preciso non sappiamo, viveva il vecchio Del.[2] Solo soletto e piuttosto annoiato.
Perché il poveretto non aveva né figli, né fratelli, né nipoti, né amici. E
anche perché aveva deciso di creare un gran mondo, ma proprio non sapeva che
gran mondo avrebbe fatto bene a creare. Fu così che un giorno –
se possiamo dire un giorno, perché i giorni non erano stati ancora creati – per
l’irritazione scagliò il suo bastone nella grande distesa d’acqua cristallina.
E vide che il suo bastone, nell’acqua cristallina, si allungava, si ingrossava,
metteva radici, rami e foglie, e cresceva sino a diventare un grande albero. Sotto di esso, più
tranquillo e beato di un passero a primavera – se possiamo dire un passero a
primavera, dato che i passeri a primavera non erano ancora stati creati – stava
seduto il giovane Bengh.[3] – Buongiorno! – disse
Bengh al vecchio Del, ridendo e sorridendo un po’ di sbieco, come solo lui
sapeva fare. – Io so che tu non hai né amici né fratelli: ebbene, se vorrai, io
sarò per te tuo amico e tuo fratello. Il vecchio Del
all’inizio si rallegrò. Ma poi pensò che quel giovanotto dalla fronte spaziosa
e dal sorriso accattivante si era allargato un po’ troppo. D’altronde si sa
come vanno le cose con i diavoli. C’è sempre il rischio che se gli date un dito
si prendano l’intera mano. E che se gli date una mano si prendano il braccio,
la spalla e tutto quello che c’è attaccato di sopra e di sotto. – Tu non potrai essere
mio fratello – rispose così un po’ piccato, – perché io non posso avere
fratelli. In quanto all’amicizia vedremo… Ma intanto, se vorrai, potrai farmi
compagnia nel mio viaggio. Viaggiarono insieme per
nove giorni e nove notti – se possiamo dire notti, perché le notti non
erano state create, – ma ben presto il vecchio Del si accorse che il suo era un
pessimo compagno di viaggio. Petulante, noioso e anche un po’ invidioso. – Sono stanco. Mi fanno
male i piedi. Ho fame e ho sete. E non ne posso più di questa distesa d’acqua
cristallina – brontolava infatti Bengh, un passo sì e un passo no. – Cosa non va in questa
distesa d’acqua? – gli chiese il vecchio Del. – È troppo
grande! Io l’avrei fatta più piccola… – A me sembra grande il
tanto giusto, per essere una grande distesa d’acqua cristallina… – replicò
pazientemente il vecchio Del. – E cosa ancora? – È troppo
profonda! – A me sembra profonda
al punto giusto… Cos’altro ancora? – È troppo
salata! E poi questa umidità finirà per farmi venire i reumatismi, ecco… Certo
però, se avessi io i tuoi poteri… – Cosa faresti? – gli
chiese il vecchio Del. – Farei un gran mondo,
ecco che farei! Con tanta terra asciutta e con tanta gente allegra. E anche
con un giardino fiorito, una comoda casetta e un focherello caldo caldo che
riscaldi le mie povere ossa! Il vecchio Del ci
pensò un po’ su e concluse che dopo tutto quell’idea non era niente male. – Tuffati nelle grandi
acque – disse perciò al suo giovane compagno – e portami un pugno di sabbia.
Con quella sabbia costruirò un gran mondo. – Davvero? Ma come
farai? – gli chiese Bengh. – Pronuncerò il mio
nome e la sabbia diventerà Terra! Ma ora va’, e portami quello che ti ho
chiesto. Bengh prese la rincorsa
e si tuffò pensando che avrebbe potuto costruire lui stesso, il gran mondo che
desiderava, se avesse preso la sabbia e poi avesse pronunciato ad alta voce il
proprio nome. Ma quando arrivò là
dove le acque cristalline si facevano più profonde, e vide la sabbia, e la
prese stringendola forte tra le dita, e infine pronunciò ad alta voce il
proprio nome, la sabbia lo ustionò e lui la lasciò cadere. Tornando dal vecchio Del
con le mani vuote, gli gridò: – Non trovo sabbia! E Del: – Va’, e
portamene! Bengh si rituffò. E per
nove giorni, il giovane furfante, sino al calare del sole – se possiamo dire
sole, perché neanche il sole era stato creato – provò e riprovò a fare di nascosto
ciò che aveva in mente. Ma ogni volta che afferrava la sabbia e pronunciava ad
alta voce il proprio nome, le sue dita si ustionavano e la sabbia gli fuggiva
dalle mani. Era diventata tanto
calda, la sabbia, che al nono giorno Bengh era diventato tutto nero. Tornò allora dal
vecchio Del, che gli disse: – Sei diventato tutto nero. Sei veramente un
cattivo compagno di viaggio! Ora va’ e portami finalmente la sabbia. E bada che
se pronuncerai ancora il tuo nome, sarai bruciato completamente! Bengh andò di nuovo e
mise la sabbia nelle mani del vecchio Del, che ne fece una grande Terra. La
tirò un po’ di qua e un po’ di là, la sollevò e la abbassò, fece montagne,
pianure e valli. E mentre il vecchio Del
si divertiva un mondo, a creare il suo gran mondo, tirando di qua e di là,
sollevando e abbassando, e facendo montagne, pianure e valli – e possiamo dire
montagne, pianure e valli perché finalmente erano state create, – Bengh
sogghignò e disse: – Io abiterò laggiù, sotto il grande albero, e tu, caro
amico, cercati un’altra casa! Nel sentire quelle
parole, al vecchio Del, con rispetto parlando, venne quasi un diavolo per capello. – Il mio mondo non ha
bisogno di te! – sbottò. A quelle parole, dalla
terra appena creata sorse un enorme toro, con enormi occhi ed enormi orecchie,
enormi zampe e lunghissime corna. Scalpitò, sbuffò, infilzò Bengh e poi fuggì
lontano, dove di preciso non sappiamo, portando via con sé il cattivo compagno
di Del. Batté gli zoccoli talmente forte, il toro, nella sua corsa, da far
tremare il mondo, la distesa d’acqua cristallina che lo circondava e anche
i rami del grande albero. Fu così che sulla terra
caddero tutte le sue foglie: le quali presero nuove forme e nuova vita, e si
risollevarono, con le sembianze dei primi uomini e delle prime donne. Il vecchio Del
finalmente fu contento di sé. Perché era davvero un
gran bel mondo, quello che aveva creato. Con le sue montagne, le sue pianure e
le sue valli, e con tanti uomini e tante donne che gli avrebbero fatto
compagnia. [1] Vom
wandernden Zigeunerwölke. Bilder aus dem Leben der Siebenbürger Zigeuner, 1890 [2] Dio [3] Il
diavolo _______________________________________________________________________________________________________________________________ Storia del rom avvocato Tratto dal
racconto originale L’avvocato zingaro, di Zlato e Semzejana.[1] È una delle fiabe
kalderaš più scanzonate e divertenti di questa raccolta, tesa a enfatizzare la
furbizia dello zingaro in un mondo dominato dalle leggi dei Gagé[2]. Tanto tanto tempo fa,
quanto non so e nessuno lo sa, in una piccola cittadina di campagna viveva un rašaj,
un prete molto molto povero. Così povero che non aveva né carrozza, né cavalli,
e doveva sempre andare a piedi. Un giorno, poveraccio,
mentre tornava a casa, si sentì stanco stanchissimo e molto affamato. Ma non
aveva neanche un soldo, neanche uno piccolino, neanche a cercarlo nell’ultima
delle sue tasche, che manco a dirlo era anche bucata. Entrò ugualmente in
un’osteria e senza pensarci due volte, si sa che brutti scherzi fa la fame,
ordinò quattro uova bollite. Si fece portare tre pagnotte e un litro di vino,
si sfamò, si dissetò e non pagò quanto doveva. – Ti prego, metti tutto
sul mio conto – disse all’oste. – Ti pagherò quando avrò un po’ di soldi in
tasca. – Va bene – rispose
l’oste, che era una persona di buon cuore. – Quando passerai un’altra volta da
queste parti mi darai i soldi che mi devi. Passarono dieci anni e
il rašaj, perché la ruota del mondo gira gira e oggi butta male ma domani
chissà, diventò ricco sfondato. Prese una moglie (da quelle parti anche i preti
potevano prendere moglie), e visto che c’era la prese ricca sfondata. Decise
perciò di comprarsi una carrozza. Vi fece attaccare sette cavalli bianchi e
sette cavalli neri e giurò che in vita sua non sarebbe mai più andato a piedi. Fu così che un giorno,
seduto sulla sua carrozza trainata dai sette cavalli bianchi e dai sette
cavalli neri, passò di fronte all’osteria. – Adesso mi ricordo –
disse. – Qui ho mangiato quattro uova bollite e tre pagnotte. E ho anche bevuto
un litro di vino. Ora che, grazie a Dio, ho tutto quello che mi serve, potrò
saldare il mio debito. Entrò nell’osteria e
con suo grande dispiacere scoprì che il buon oste che l’aveva sfamato era morto
qualche anno prima. E che il suo posto era stato preso dalla sua vedova.
Un’ostessa che non sembrava neanche un’ostessa, magra e secca com’era. Con le
labbra magre e secche come quelle di un’acciuga in digiuno quaresimale, e con
gli occhi magri e cupi come quelli di una faina con il malumore, con il mal di
denti e senza neanche un cerusico-dentista a portata di mano. – Tanto tempo fa,
quando ero povero – cominciò il rašaj, un po’ intimorito – ho mangiato qui
quattro uova bollite, con tre pagnotte e un litro di vino. Ora vorrei pagare il
conto. – Bene – disse
l’ostessa sfregandosi le mani. E fece il conto. E contò, e conteggiò, e
ricontò e riconteggiò, che non bastò il muro per quel conto! Perché l’ostessa
calcolò prima quante galline sarebbero nate dalle quattro uova che aveva
dato al prete. E poi quante uova avrebbero fatto queste galline in dieci anni:
e quante altre galline sarebbero nate da queste uova strada facendo, e quanto
qui, e quanto là, che insomma non sarebbe bastato l’intero capitale del rašaj ricco
sfondato e della sua moglie ricca sfondata, per pagare quel conto! Così quando uscì
dall’osteria il poveretto era senza un soldo. Dovette lasciare lì persino il
suo cappotto, i suoi bei guanti di pelle di vitella e la sua magnifica carrozza
trainata dai sette cavalli bianchi e dai sette cavalli neri. E non bastò ancora. – Prenderò un avvocato
– gli gridò dietro l’ostessa. – Ci vedremo in tribunale. Il rašaj tornò
a casa a piedi. E cammin facendo si lamentava e si disperava. Ma chi trovò per
strada? Un povero
rom vestito di stracci e con la bocca piena di cicca di tabacco, che
quando parlava strizzava gli occhi, e sputacchiava a destra e a sinistra e
sorrideva all’intero mondo come se fosse davvero lui, il padrone del mondo. Vedendo il rašaj così
triste il rom gli chiese: – Perché piangete, caro rašaj? – Eh, povero me! Sono
rovinato. – Rovinato? E perché
mai? – Perché sono stato uno
stupido. Sono passati dieci anni, da quando ho mangiato in quell’osteria
quattro uova bollite con un po’ di pane e un litro di vino. E adesso, conta di
qui e conta di là, e quante galline sarebbero nate da quelle uova, e quante uova
sarebbero nate da quelle galline in dieci anni, non basterebbe il mio intero
capitale, per pagare quell’ostessa! Tra una settimana dovrò presentarmi in
tribunale… – Non avere paura –
disse allora il rom, dopo aver strizzato gli occhi e sputacchiato un po’ a
destra e un po’ a sinistra. – Sarò io il tuo avvocato. Se vincerò la tua causa
in cambio mi darai quattro sacchetti di tabacco e una pipa. Venne il giorno della
causa. Ma del rom nemmeno l’ombra. E manco a dirlo, tutti i presenti in aula,
giudici, membri della giuria e avvocati, sembravano voler dar ragione
all’ostessa: non solo il prete avrebbe dovuto pagare, ma tutti dicevano che
sarebbe dovuto andare persino in prigione. Perché è questo che succede a chi
mangia a sbafo uova bollite con pane e vino e non paga i propri debiti. Il povero rašaj aveva
ricominciato a piangere e disperarsi, quand’ecco che la porta del tribunale
cigolò ed entrò il rom, coperto di stracci e con le cicche di tabacco in bocca. I giudici, gli avvocati
e i membri della giuria, vedendolo strizzare gli occhi e sputacchiare a destra
e a sinistra, si misero a ridere tenendosi la pancia. E l’ostessa, che non
vedeva l’ora di intascare il capitale del rašaj e di sua moglie,
sorrise anch’essa sotto i baffi (tutte le ostesse con le labbra di acciuga e
gli occhi cupi di faina hanno i baffi, di solito neri e setolosi) e chiese al
povero prete: – Sarebbe questo vagabondo il tuo avvocato? E poi al rom: – Ti
sembra che abbiamo tempo da perdere qui? Perché questo ritardo? – Perché questo
ritardo? Vuoi proprio sapere dove sono stato? – disse il rom grattandosi la
testa. – Eh, cara mia! Ero a casa. A bollire il granoturco, prima di seminarlo
nei campi... – Ma cosa dici? –
sbottò l’ostessa. – Come fa il granoturco bollito a crescere nei campi? Il rom si grattò di
nuovo la testa, sorrise al giudice e si avvicinò all’ostessa baffuta. – E allora dalle tue
uova bollite – le chiese – come fanno a venir fuori le galline? Fu in questo modo che
il rom si guadagnò la sua pipa e i suoi quattro sacchetti di tabacco. In quanto
all’ostessa e al rašaj, la prima dovette pagare tutte le spese del
processo e tornò alla sua taverna senza un soldo in tasca, mentre il secondo
riebbe il suo denaro, il suo cappotto, i suoi bei guanti e la sua carrozza
trainata dai sette cavalli bianchi e dai sette cavalli neri. E tornando felice dalla
moglie ricca sfondata pensò che non bisogna mai disperare: perché è proprio vero
che la ruota del mondo gira gira e oggi butta male ma domani chissà.
[1] Rom
Sim, op. cit. [2] Così
vengono appellati dagli Zingari tutti i Non Zingari. _______________________________________________________________________________________________________________ Postfazione di Angela Tropea Paramiča e
paramisaris In passato la
fiaba (paramiča in Romanes)[1] ha esercitato tra i Rom
soprattutto la funzione di rinsaldare i valori tradizionali ai quali fare
riferimento e nel contempo quella di trasmettere norme di comportamento che
fossero percepite come condivisibili e che fossero di fatto oggettivamente
condivise. E’ opinione comune che
ogni cultura popolare sia in possesso di un proprio modo peculiare di
introdurre la narrazione fiabesca[2], ed è grazie alle
prime parole magiche poste all’inizio di una storia – formule stereotipe
atte a delimitare la “soglia” oltre la quale si accede ad una dimensione
temporale diversa da quella reale – che si viene solitamente a creare
quella sorta di quarta dimensione avente il compito di
proiettarci verso un intrigante campo semantico, contraddittorio ed
estraneo, di indefinita e mitica suggestione. Il C’era una volta si
trova così ad esercitare le funzioni di transfer verso
ciò che Weinrich ha definito “la negazione del nostro tempo”, sia nel senso di Time (tempo
reale), sia nel senso di Tense (tempo verbale).[3] Le fiabe iniziano
generalmente col tempo imperfetto che delimita il segnale di confine tra il
momento presente ed il tempo narrativo, atto a condurci in un ambiente
“magico”, in cui gli eventi non hanno alcuna limitazione
spazio–temporale; si tratta di uno spazio che il fruitore della fiaba
plasma a proprio piacere, e che lo aiuta a estraniarsi dalla vita consueta,
ponendolo di fronte ad essa con un atteggiamento più critico e più maturo. Anche nelle fiabe
zingare è possibile imbattersi in questa quarta dimensione. Se la fiaba è
introdotta dalla formula cataforica[4] Sas thaj avel (C’era una volta),
è implicito che in essa sarà narrata una verità della cui attendibilità è certo
lo stesso narratore. Si tratta generalmente
di fiabe in cui si racconta di eventi che si ritengono realmente accaduti ed i
cui personaggi sono di fatto esistiti (storie di morti, spettri, vampiri). Se la paramiča inizia,
invece, con la formula Sas thaj nas (Era e non era), ci
troveremo di fronte ad un racconto dichiaratamente fantastico. Il narratore avverte l’ascoltatore
che ciò che sarà raccontato non possiede alcun fondamento di veridicità. Le
azioni ed i personaggi appartengono cioè ad un universo fantastico, posto al di
fuori della realtà quotidiana. In entrambi i casi si
viene ad instaurare una sorta di tacito patto verbale tra il narratore e
l’ascoltatore, i quali – seppur con ruoli diversi – si ritrovano in un
certo senso ad intraprendere un “viaggio” metaforico verso un tempo sospeso
e delimitato tra il prima e il dopo, un non luogo[5] in cui il narratore assolve le
funzioni (…di antica rituale memoria…) di “nocchiero”, trovandosi ad
esercitare al tempo stesso il duplice ruolo di autore e attore, custode del
privilegio di saper condurre l’ascoltatore – attraverso la parola –
verso ciò che Marc Augè[6]chiama il “tempo puro”, un tempo senza
storia – perché oltre la storia – di cui solo l’individuo può prendere
coscienza. Un tempo che attraverso
questa presa di “coscienza”, riesce a storicizzarsi dialetticamente
nel momento dell’ascolto, quando ciascun soggetto si ritrova magicamente
trasfigurato e ri–creato dalle parole del narratore, assumendo metaforicamente
le vesti di un viaggiatore incantato piacevolmente e volontariamente
abbandonato al fluire del racconto che come un fiume carsico scorre fino a
lambire la sensibilità dell’uditorio, per approdare alla meta finale, delicata
sintesi alchemica tra i due ”compagni di viaggio”. [7] Mirella Karpati nel suo
interessante studio sulle fiabe zingare[8], sostiene che in questo genere di
racconti i temi e gli intrecci seguono in linea di massima la struttura tipica
delle fiabe di magia[9], ma ovviamente a tale struttura sono
apportate da parte dei narratori rom delle varianti: di solito l’eroe è un čoro
rom, un povero zingaro che alla fine riesce sempre a superare una serie
di prove e difficoltà grazie anche al prezioso ausilio di provvidenziali
aiutanti magici. A livello semantico, si
può dire che questo eroe specifico incarna e trasmette
l’essenza assoluta del rom, diventando una figura archetipica familiare
dell’immaginario collettivo. Contrapposto al čoro
čavo rom , troviamo spesso il pope – il prete – personaggio
talvolta caricaturale (così come anche bengh, il diavolo, o il gağo,
l’uomo non zingaro), che vanta perfino poteri miracolosi, ma che infine
viene sempre raggirato e deriso dall’arguto rom. All’origine la
fiaba era orale… e del resto esiste di fatto una priorità cronologica
dell’oralità. Molti sono gli studiosi che si sono impegnati, nel corso
degli anni, a fornire una spiegazione razionale sulla genesi della fiaba. Arnold Aarne e
Stith Thompson, nel volume The Types of the Folktale del 1961, con il
loro vasto catalogo sulla suddivisione delle fiabe in “tipi” e “motivi”, hanno
offerto un supporto insostituibile in materia di studio della fiaba. I due
specialisti erano giunti alla conclusione che la distribuzione geografica delle
fiabe trovasse estensione non solo in Europa ed in Asia, ma in gran parte
del mondo, sostenendo la tesi che i temi e gli intrecci della maggior parte dei
racconti popolari[10] a noi conosciuti potessero essere
individuati nelle diverse tradizioni popolari, sebbene con contaminazioni e
varianti che riflettevano la collocazione spazio–temporale, nonché sociale, nel
cui contesto i suddetti racconti erano di volta in volta narrati. Si trattava di un
procedimento comune, diffusosi capillarmente, che ha condotto nel corso degli
anni all’interessante fusione di elementi eterogenei e in apparenza estranei
tra loro che hanno dato luogo ad una sintesi di racconti e di intrecci uguali e
nello stesso tempo diversi l’uno dall’altro. Ovviamente anche i Rom
hanno attinto a questo patrimonio comune, utilizzando nel modo ad essi
più consono gli elementi salienti della tradizione orale del folklore dei paesi
ospitanti. Si tratta di ciò che Jakobson ha definito “prestito selettivo”[11], che spiega non tanto la presenza
isomorfica dell’intreccio o dei contenuti in sé, quanto piuttosto l’utilizzazione che
di questi contenuti viene operata, attraverso la predilezione di certi temi
piuttosto che di altri, in una sintesi di ciò che Alberto Melis
nell’introduzione alla prima edizione di questa deliziosa raccolta ha
definito valore aggiunto. E’ così che fiabe note
al patrimonio orale mondiale le ritroviamo sviluppate nelle paramiča con
singolare originalità. Non sarà insolito, in
un simile contesto, scoprire che una fiaba che a prima vista potrebbe
apparire “mutilata” di una funzione (in termini proppiani), ne
abbia, invece, privilegiato un’altra, quella che nell’intreccio
originario giocava, magari, un ruolo marginale… A tutto ciò si aggiungono
ulteriori arricchimenti caratterizzati da improvvisazioni e varianti, da
impreziosimenti stilistici legati alle ripetizioni (utili per fissare i
punti salienti di un racconto), ai giochi di parole, all’allitterazione,
all’intonazione della voce, alla capacità di creare mistero e suspence, espedienti
così cari ed indispensabili ai narratori di professione. I temi che incontriamo
con più frequenza nella paramiča variano dall’amore per i viaggi al
rispetto per la libertà reciproca. In alcune fiabe
troviamo una spiccata sensibilità per la natura che spesso ricambia l’amore ad
essa profuso, in altre si racconta del disprezzo per l’ipocrisia e per i beni
materiali, prerogative, queste ultime, che i Rom attribuiscono ai Gagé. L’eroe, il rom, è
spesso coraggioso, ma anche “povero”. Un posto di privilegio
è riservato alla persona anziana, cui viene riconosciuto un indiscusso
prestigio all’interno della comunità. Si fa qui riferimento alla figura della phurì
daj, la donna anziana da sempre depositaria della saggezza antica e verso la
quale tutti gli appartenenti del gruppo osservano un ossequioso rispetto. Tra gli altri elementi
tipici della fiaba zingara, assume un ruolo di essenziale importanza la
famiglia e la solidarietà tra i membri della comunità. Tale solidarietà si
manifesta anche attraverso il tema della generosità del rom, in
contrapposizione al poco sincero gağò, il quale non sa cosa sia la čačipé (verità,
sincerità). Si è fatto cenno,
prima, alla figura del prete, personaggio verso cui i racconti assumono spesso
una connotazione ironica. I preti sono
considerati una categoria di individui furbi che badano principalmente al
proprio interesse materiale ed esercitano il loro potere al fine di sfruttare
gli sprovveduti, ma alla fine però vengono sempre imbrogliati e scoperti nelle
loro malefatte grazie all’intelligenza e all’astuzia del rom. In alcune fiabe che
definiamo eziologiche, vengono invece spiegati i caratteri distintivi del
comportamento zingaro, come ad esempio nella fiaba sulla creazione dell’uomo
perfetto, il rom (tema ripreso anche nello splendido film di Tony Gatlif, Les
Princes, 1982 ), o sul perché gli Zingari suonano il violino, o anche
nelle varie leggende sui chiodi utilizzati per la crocefissione di
Cristo. Una menzione a parte
merita la figura del Mulò, che da sempre suscita sentimenti di paura
nell’animo dei Rom. I Mulè sono i
morti che continuano a tormentare i vivi, rei di non aver assolto correttamente
gli onori funebri, oppure possono ritornare in terra perché devono espletare un
compito lasciato in sospeso. Le fiabe sui mulè
restano tuttora il tema preferito da tutti i gruppi zingari, che con tali
racconti rievocano e onorano il culto dei morti. Nel caso in cui il
defunto non è stato onorato come si deve, il suo fantasma può apparire per
ricordare ai vivi le loro mancanze. Nei racconti sul mulò,
la fiaba assume spesso tinte fosche e si arricchisce di particolari spaventosi,
in cui il fantasma può assumere l’aspetto di un essere umano, di un
animale, o perfino di un oggetto. A volte le sue sembianze sono simili a quelle
che aveva da vivo, anche se raramente fa vedere il suo viso, ha un’andatura
laterale, non parla, non mangia, non beve. Può assumere le
sembianze di un cane, di un gatto, di un maiale (in questi casi può capitare di
trovarne le impronte), o di una farfalla notturna[12]. Se il mulò è invisibile
manifesta la sua presenza attraverso rumori, lancio di oggetti, gemiti e tosse.
Solitamente la sua presenza è annunciata anche da un forte vento. A volte il mulò
deve espiare le sue colpe. Presso i Rom Lovara[13] c’è la credenza che le anime delle
persone che sono state uccise o si sono suicidate devono riapparire nel mondo
come mulè per tutto il tempo che essi sarebbero vissuti se non fossero morti di
morte violenta. Il mulò assume
spesso un carattere consolatorio per i parenti in difficoltà, viene a
salvarli
quando si trovano in pericolo, rammenta i doveri morali ai parenti vivi
che
stanno per commettere un
errore. Spesso è visto come la
personificazione della coscienza, protegge valori e norme etiche e dà un importante
contributo nella salvaguardia delle qualità necessarie per l’esistenza: da
questo punto di vista il suo ruolo è positivo. I luoghi della
narrazione Nell’ambiente primitivo
la collocazione spazio–temporale in cui veniva effettuato il racconto giocava
un ruolo di fondamentale importanza. Il luogo designato per
lo svolgimento del momento rituale della narrazione era considerato sacro, e la soglia[14] demarcava rigorosamente il limite
tra il mondo cosiddetto “sacro” ed il mondo “profano”. Oltrepassare la soglia
significava accedere ad un “altro mondo”, affascinante e temibile al tempo
stesso. Presso talune
popolazioni si trattava generalmente di uno spazio reale, in cui veniva
delimitato un campo destinato alle cerimonie sacre, luogo proibito a donne e
bambini. In questo spazio
circoscritto, originariamente avevano luogo in prevalenza i riti propiziatori e
iniziatici, atti a segnare il momento di passaggio dallo stato adolescenziale
allo stadio adulto. Era compito del narratore – di solito il più anziano
della comunità – , che rivestiva talvolta le funzioni di sacerdote, accompagnare
con l’ausilio di racconti mitici questi riti di passaggio. Tali racconti (ancora
legati al mito, e quindi con una valenza “sacra”) [15] fungevano da catalizzatore tra la
dimensione terrena e la dimensione religiosa, e attraverso essi avveniva
l’unione con le entità divine. In un momento
imprecisato si verificò il passaggio dal mito alla fiaba; gli eventi religiosi,
con il mutamento delle abitudini nella società, divennero racconti fantastici[16], in cui continuarono tuttavia a
sopravvivere tracce delle antiche credenze, ormai liberate dell’antico valore
religioso, sostituito da un carattere che può essere definito “magico”. Ovviamente non si
trattò di un brusco passaggio, ma tutto ciò si verificò in maniera graduale. Più volte abbiamo fatto
ricorso al termine magico, voce che si presta a molteplici
interpretazioni semantiche. Se da un lato sta ad indicare quel genere di
avvenimenti o personaggi che suscitano meraviglia – incantesimi, streghe, doni
fatati, oggetti dai poteri soprannaturali, draghi dalle innumerevoli teste,
dall’altro, si considera momento solennemente magico l’atto medesimo del
raccontare, quando si viene a creare quello scarto temporale che ci
conduce nella “quarta dimensione” cui si è accennato prima . La forza del raccontare
è stata da sempre prerogativa di narratori e narratrici di professione,
presenti in tutte le culture popolari. Il preludio alla
narrazione poteva essere un indovinello, per esempio. Nelle comunità zingare
capitava, talvolta, di udire il narratore attirare l’attenzione dell’uditorio
imponendo il silenzio, come faceva Taikon, capo di una tribù kalderaš della
Svezia che durante le veglie esordiva dicendo: “Compagni! Prendo la parola! (…)
Questo vi voglio raccontare per vostro diletto e per il nostro benessere! “[17] Rasim Sejdić,
indimenticabile narratore e poeta appartenente al gruppo dei Rom Xoraxané,
iniziava i suoi racconti così…: Me ka–priči jek paramiči kaj mange
pričisadà mo dad… (Racconterò una favola che mi ha raccontato mio
padre…).[18] Fino a qualche tempo
fa, era possibile udire il suono poetico di queste parole dalla viva voce del paramisaris,
nel corso delle veglie serali nella njamo (famiglia estesa), quando
attorno al fuoco ci si abbandonava piacevolmente all’ascolto di fantastici e –
a volte – spaventosi racconti che con fascino arcano ed eterno conducevano gli
ascoltatori nel magico mondo della fantasia, in situazioni imponderabili
tali da suscitare emozioni e partecipazione collettiva, nonché
immedesimazione. Il paramisaris doveva
possedere una grande abilità affabulatoria, requisito già efficacemente
tratteggiato da Puškin nel suo poemetto Gli Zingari, dove a proposito di
un narratore si legge: Aveva il meraviglioso dono dei canti / E voce pari
a rumor d’acque. / E tutti presero ad amarlo / E viveva egli sulle rive del
Danubio / Senza offendere nessuno / Incantando la gente coi racconti dei suoi
canti… Solitamente era il più
anziano della comunità a essere depositario dell’autorevolezza e del prestigio
necessari alla narrazione. Uomo o donna che fosse, era il detentore
o la detentrice della saggezza, capace di custodire nella propria memoria una
preziosa quantità di quelli che Dorsey ha definito amuleti verbali. [19] Nella nostra società
mediaticamente globalizzata, purtroppo, è diventato sempre più raro se
non addirittura impossibile trovarsi di fronte ad un narratore di
professione, figura soppiantata, ormai, dalla televisione e dall’uso sempre più
deleterio dei giochi elettronici…! Nel passato
la fiaba, in qualità di importante veicolo di trasmissione di conoscenze e di
tradizioni, diventava punto di coesione sociale la sera accanto al
fuoco e non solo negli accampamenti nomadi o nella capanna del paramisaris degli
insediamenti zingari dell’Europa dell’Est . Questi
racconti
venivano arricchiti e assumevano caratteristiche di volta
in volta
diverse, grazie al prezioso apporto dell’uditorio – sempre
attento e
partecipe – che interveniva nella discussione creando degli
interessanti
momenti di confronto all’interno del
gruppo.
Raccontando gli episodi legati alla propria esperienza vissuta, o
all’esperienza dei propri padri, si assolveva anche la finalità
pedagogica di
trasmettere un utile messaggio morale alla comunità. La narrazione diventava
allora un momento di scambio, pienamente integrato e perfino equiparato nella
sua natura essenzialmente verbale alle azioni propriamente intese e
privilegiate da una cultura fondamentalmente radicata nel suo essere e
percepita invece dai Gagé come “sradicata”. Anche il concetto
di proprietà del racconto, molto caro e sacro in epoca antica,
era in vigore presso talune comunità nomadi, e non solo. Poteva accadere che
durante la narrazione la phurì daj, l’anziana, pretendesse giustamente che
il racconto narrato non venisse liberamente propagato da altri. Per questo motivo si
dimostrava spesso una comprensibile riluttanza nel raccontare le paramiča a
gente estranea (figurarsi al gağo, munito perfino di registratore…!). Altro motivo di
riluttanza nella propagazione del racconto ad “ estranei” (i Gagé,) poteva
essere l’uso della lingua, il Romanes, che per certi aspetti risultava e
risulta tuttora essere un codice magico – segreto che deve rimanere
incomprensibile ai Gagé. Con il passare
degli anni, in taluni casi, le fiabe hanno subìto degli interessanti aggiornamenti temporali
e situazionali, per poter essere al passo con i tempi… un esempio ci viene
fornito da Milena Hubschmannòva che cita una fiaba in cui il drago, comodamente
sdraiato sul divano davanti alla televisione telefona alla strega…![20] A questo punto non ci
sembrerà strano se, tra qualche tempo, ritroveremo la medesima fiaba arricchita
di altri dati, ad esempio un video– telefono cellulare superaccessoriato da cui
la suddetta strega risponde, mentre si trova in viaggio sulla sua potente
scopa–jet, di ritorno da un’escursione nel mondo virtuale di internet! Ma del resto, forse, è
proprio questo il punto di forza della fiaba, quello di adattarsi – di
generazione in generazione – a nuove condizioni. Oggi è difficile
imbattersi nei narratori di professione di un tempo, e si tende piuttosto a
identificare la fiaba popolare principalmente nella sua peculiarità di opera
d’arte “trascritta”, genere letterario che ha bisogno di narratori che siano in
grado di operare una valida “riscrittura d’autore”. Alberto Melis è
un eccellente narratore – autore… nelle sue fiabe riscritte fa uso,
al pari di un esperto paramisaris, di “amuleti verbali” molto personali e
innovativi che imprimono alle storie una sfumatura di leggiadra bellezza, e in
cui l’espediente narrativo re–inventa i temi e le strutture tradizionali in
forma di scrittura estrosa, lieve e moderna. Se è vero, come sostiene
Zygmunt Bauman, che le storie sono come fari (…) che illuminano alcune
parti lasciandone altre al buio…(…) perché se dovessero rischiarare
uniformemente tutto, non sarebbero davvero utili…[21], a un narratore come Alberto Melis
spetta certamente il meritato ruolo di guardiano di questi fari…
[1] Dal
greco Παραμυθιων , racconto. [2] La
formula introduttiva C’era una volta, che assolve la funzione
di introdurre l’ascoltatore nella “finzione” del tempo e dello spazio
narrativi, predisponendolo all’accettazione di avvenimenti fantastici, la
ritroviamo più o meno uguale nelle diverse lingue: l’ inglese Once upon a time,
il tedesco Es war einmal, il russo Byl ne byl ( era e non
era ) e Žili byli ( Erano e vivevano ), il francese Il
y avait une fois… . Ricordiamo anche la definizione rumena della fiaba di
magia, chiamata basm, che sottolinea la valenza non veritiera del racconto
(basm significa in rumeno anche bugia, invenzione). [3]
H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo. Il Mulino,
1978. [4] Dressler
per primo parlò negli Anni Settanta di formula cataforica , ossia
della formula introduttiva presente nei racconti. (Dressler, Introduzione
alla linguistica del Testo, 1974, Ed. Officina) [5] In
accezione diversa dal non – luogo di Augé..! ( M. Augé, Non–lieux, 1992,
Parigi. ) [6] Marc
Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, 2004, Bollati
Boringhieri. [7] Laddove
il “due” sta ad indicare il binomio narratore – uditorio. [8] In Lacio
Drom, 1, 1994. [9] V.
Ja. Propp, Morfologia della Fiaba, Boringhieri [10] Pur
risalendo, comunque, a fonti letterarie: Thompson, già in un saggio del 1946, The
Folktale, cita al riguardo le raccolte buddhiste, la fiabe letterarie
indiane, le leggende di santi…: la trasmissione orale di tali racconti sarebbe
avvenuta in un momento successivo, per merito dei cosiddetti “narratori di
professione”. La tesi di Thompson sarebbe stata ripresa qualche anno dopo
da Max Lüthi (in Das europäische Volksmärchen. Form und Wesen, 1947) , che
sosteneva che il popolo è il fruitore ed il cultore della fiaba, quasi certamente
non il suo creatore. [11] Citato
in E Petoia, Miti e leggende degli Zingari, Franco Muzzio Editore, 2004. [12] Anche
in altre tradizioni popolari la farfalla notturna è spesso vista come
l’anima cara di un parente defunto che fa visita ai parenti. [13] M.
Karpati, op. cit. [14] M.
Eliade,Il Sacro e il Profano, Torino, 1967. [15] Già
a partire dal Settecento si parla di rapporto tra fiaba e mito, concetto
che da allora in poi ha riconosciuto un approfondimento sempre più
crescente. [16] V.
Ja. Propp, La trasformazione delle favole di magia, in T. Todorov (a cura
di), I formalisti russi, Torino, 1968. E’ bene ricordare, però, che
Claude Lévi–Strauss dissentì su questo punto da Propp e dalla sua tesi sulla
priorità cronologica del mito sulla fiaba, ribadendo l’indimostrabilità storica
della priorità del primo sulla seconda, e sostenendo invece un’idea di
complementarità e di matrice comune di entrambi (cfr. Appendice in
Propp, Morfologia della Fiaba). [17] Carl–Herman
Tillhagen, I racconti di Taikon, in Gruppo ARCA, La mano allo zingaro,
1978, Milano. [18] “ …era
un poeta, un uomo che viveva in una dimensione tra cielo e terra, partecipe di
entrambi” (G. Soravia, Ricordo di Rasim Sejdić, in Lacio Drom, 16.
2.1980 p 4). [19] Dorsey, The
tradition of the Skidi–Pawnee, in Propp, Le Radici Storiche dei Racconti
di Fate, Boringhieri, pp. 570–571. [20] in Lacio
Drom, 1, 1994. [21] “… esse
aiutano coloro che cercano comprensione separando il pertinente
dall’irrilevante, il loro compito è selezionare , includono mediante
l’esclusione e illuminano gettando ombre” in Z. Bauman, Vite
di scarto, Ed. Laterza, 2005. |