RICORDOCHENON

Il Grande Blu




salviamo


Il Grande Blu

- Allora? Proprio non volete dirmi cosa intendevate fare?

Il capitano del cianciolo, un grosso peschereccio dai fianchi ingrigiti dalla salsedine, ha la fronte increspata di rughe e certi occhi di un azzurro profondo che sembrano rubati al fondo del mare. Non è solo il suo sguardo accigliato, però, che impensierisce Riccardo. Né le espressioni severe dei due uomini dell’equipaggio che, poco prima, hanno scovato lui e la sua amica Chiara nascosti a poppa sotto un telo cerato che odorava di pesce.

Riccardo, prima di quella sera, non è mai stato su una barca. E, soprattutto, non si è mai trovato in mare aperto, con il sole che sta per spegnersi nell’orizzonte liquido e l’orribile sensazione che la brezza tesa da ponente possa far imbizzarrire ancora di più le onde che picchiano sulla fiancata.

- Come vi chiamate? E chi vi ha dato questo arnese?

L’arnese, che il capitano stringe tra le mani, è una grossa cesoia dalle lame affilatissime.

- Non ce l’ha dato nessuno – borbotta Chiara. - L’ho preso io dalla cassetta degli attrezzi da giardino di mio nonno.

Chiara, contrariamente a Riccardo, non sembra aver paura del mare. Sta a gambe larghe sull’assito di legno di fronte al cassero, con le braccia incrociate sul petto, indifferente al rollio dell’imbarcazione. E anche se ha solo undici anni, uno in più del suo amico, sostiene lo sguardo del capitano a fronte alta, i lunghi capelli liberi al vento.

- Dovete tornare subito indietro e farci sbarcare – la ragazza sfida l’uomo. – Se no passerete un grosso guaio.

- Portateli nella cabina di pilotaggio – ribatte il capitano, come se non avesse udito le sue parole.

Prima, però, che i due marinai possano obbedire al suo ordine, l’uomo li blocca con un gesto della mano, osserva di nuovo la cesoia e quindi volta lo sguardo verso la poppa del cianciolo, dove sono ammassate le reti da pesca. - Siete saliti a bordo con l’intenzione di tagliare le nostre reti, vero? – afferma, e questa volta i due ragazzi, nella sua voce che si è arrocchita, colgono una nota di incredulità e di sgomento. – Ma perché? Riccardo cerca gli occhi di Chiara e spera che taccia. Che neghi tutto, sino alla fine, come ha intenzione di fare lui. Ma sa già che la sua amica non riuscirà a mordersi la lingua.

- Per impedirvi di uccidere il Grande Blu, come avete fatto con Pupazza Bianca! – prorompe in un grido la ragazza, allungando i pugni lungo i fian chi. Quindi aggiunge, sottovoce, in un sibilo: – ... Assassini!

E in quel momento uno dei grandi gabbiani che volteggiano sulla scia del cianciolo, scende in picchiata a sfiorarne la spuma increspata e poi s’impenna di nuovo verso l’alto, piroettando nell’aria un verso stridulo che somiglia a un vagito o a un lamento.

 

Riccardo non aveva mai sentito parlare del Grande Blu, sino a quando non era arrivato con i suoi genitori a Ciacci per le vacanze pasquali e non aveva fatto amicizia con Chiara, una ragazzina che viveva nella zona alta del paese, dalla quale si poteva ammirare l’intero mosaico di casette di pietra che dal fianco della collina digradava pigro e assolato verso il mare, sino alla rada e al piccolo porto che ospitava cinque o sei pescherecci. Sul lato sinistro della rada, massiccio e sfrontato, si ergeva un promontorio a becco d’aquila oltre il quale si allungavano, sottili e sinuose, le lunghe spiagge della penisola che solo in piena estate si affollavano di ombrelloni e bagnanti.

Da quando avevano fatto amicizia, Chiara, ogni pomeriggio, accompagnava Riccardo nella più vicina delle spiagge, alla ricerca di conchiglie e di ossi di seppia. Ma il giorno prima, invece di condurlo nella solita distesa di sabbia dorata, si era spinta sino a una insenatura più lontana, protetta ai due lati da altissime rocce di granito, dove, ai bordi della riva sassosa, spiccava una piccola croce di legno.

- Perché mi hai portato qui? – aveva chiesto Riccardo, scrutando l’espressione assorta della ra gazza, che si era seduta sui ciottoli e osservava la distesa del mare.

- Perché in paese si è sparsa la voce che il Grande Blu è tornato – aveva risposto Chiara – anche se io spero con tutto il cuore che non sia così.

Prima ancora che potesse chiedere alla sua amica di cosa mai stesse parlando e chi fosse il Grande Blu, Riccardo aveva colto con la coda dell’occhio un movimento nella baia. E un istante dopo, a non più di venti o trenta metri dalla riva, un delfino di dimensioni gigantesche aveva fatto un balzo fuori dall’acqua, quasi in verticale, sollevando una colonna di schizzi e di spuma biancastra.

- Oh no… Allora è vero…  è proprio tornato! – aveva esclamato Chiara balzando in piedi.

Solo quando il delfino, dopo aver eseguito altri cinque o sei salti fuori dall’acqua, uno più poderoso dell’altro, si era allontanato verso il mare aperto, Chiara si era di nuovo seduta sui ciottoli e aveva fissato Riccardo, con gli occhi lucidi e le labbra imbronciate.

- Non capisco – aveva sussurrato il ragazzo, ancora rapito dalla meraviglia a cui aveva assistito. - Il Grande Blu è quel delfino, vero? Io credo di non avere mai visto niente di più bello in vita mia! E tu… tu invece…

- Vieni, siediti qui, vicino a me, devo raccontarti una storia – aveva ribattuto Chiara.

Per tutto il tempo in cui la ragazza aveva parlato, Riccardo non l’aveva mai interrotta. Tutti a Ciacci conoscevano il Grande Blu, un delfino che nella bella stagione frequentava gli specchi d’acqua davanti alle spiagge della penisola, e che a volte si accostava alla riva insieme alla sua compagna, un delfino femmina di  dimensioni  molto  più  piccole a cui era stato il nome di Pupazza Bianca, a causa del colore chiaro e slavato della sua pinna dorsale. In certe sere d’estate in cui il mare era una tavola piatta, il Grande Blu e Pupazza Bianca comparivano all’improvviso nella rada di Ciacci. E allora la gente del paese poteva ammirare il loro rincorrersi sul pelo dell’acqua, le loro giravolte e gli improvvisi balzi in verticale, in una frenetica danza d’amore che durava sino a quando il tramonto arrossava l’orizzonte e le prime stelle si accendevano in cielo.

Poi  un giorno…

- Poi un giorno, lo scorso anno – aveva detto Chiara con un filo di voce – Pupazza Bianca è stata trovata sulla riva sassosa di questa piccola baia, morta dissanguata. Qualcuno, dopo averla presa a bastonate, le aveva amputato la grande pinna caudale.

Lo sguardo di Riccardo si era posato sulla croce di legno.

- Allora quella croce è stata messa lì in ricordo di Pupazza Bianca – aveva mormorato, con un groppo in gola.

- Sì.

- Non capisco, però… Chi può essere stato tanto crudele da fare una cosa simile?

Prima di rispondere Chiara aveva abbassato lo sguardo a terra, come se si vergognasse. Quindi aveva detto, con un filo di voce: – Dopo la morte della sua compagna, il Grande Blu è scomparso e io ho sperato che non tornasse mai più. Perché non tutti a Ciacci, amano i delfini. Anzi, qualcuno li odia.

La ragazza aveva spiegato a Riccardo che i marsupiali, attirati dai banchi di sardine che agli inizi della bella stagione si avvicinavano alla penisola, ostacolavano l’attività dei pescherecci, finendo imbrigliati nelle reti e danneggiandole. Per questo,  a volte, i pescatori si vendicavano nel modo più orribile, ovvero recidendo loro la pinna caudale e lasciando che morissero dissanguati.

- Pupazza Bianca non è stato il primo delfino a morire in questo modo – aveva detto ancora Chiara. - E ho paura che il Grande Blu sarà il prossimo, a meno che… – nei suoi occhi era passato un guizzoio e te non facciamo qualcosa!

Riccardo aveva continuato ad ascoltare Chiara senza trovare il coraggio d’interromperla, stordito e con la sensazione di essere finito in una storia troppo più grande di lui.

Il piano di Chiara era tanto semplice quanto temerario. L’indomani sera, poco prima del tramonto, i pescherecci di Ciacci sarebbero salpati per la prima battuta di pesca alle sardine. E lei e Riccardo, approfittando del fatto che, prima della partenza, tutti i marinai si sarebbero recati come di consuetudine nella piccola chiesa del paese, per ricevere la benedizione del parroco, sarebbero saliti a bordo dei ciancioli e avrebbero reciso le reti, così da renderle inutilizzabili.

Riccardo non aveva trovato il coraggio di dire no alla sua amica. E l’indomani, approfittando dell’assenza dei pescatori, era salito con lei a bordo dell’Otago, il cianciolo di maggiori dimensioni. Solo che le cose non erano andate affatto come Chiara aveva previsto. Poiché prima ancora di potersi avvicinare alle reti alloggiate a poppa, un marinaio che non aveva seguito i suoi compagni sino alla chiesetta era sbucato fuori dalla cabina di pilotaggio. E i due ragazzi avevano fatto appena in tempo a nascondersi sotto un telo cerato, dove erano rimasti sino al momento in cui altri due marinai li avevano scoperti, quando ormai il cianciolo aveva già preso il largo, tirandosi dietro una barchetta sopra la quale era stata issata una enorme lampada chiamata lampara.

- E’ con quel coso che individuate i banchi di sardine, vero? – chiede Chiara al Capitano, che poco prima ha messo al minimo i motori del cianciolo e osserva delle lucette verdi che sono apparse su uno schermo incassato nella plancia di comando.

- Sì. Si chiama sonar – risponde sottovoce l’uomo. Il cianciolo, al contrario di quanto Chiara aveva preteso e Riccardo ardentemente sperato, immaginando la preoccupazione dei suoi genitori nel non vederlo tornare a casa, non è affatto rientrato in porto. Si è inoltrato invece al largo, nel buio pastoso e umido della notte, e il capitano, dopo aver comunicato via radio la presenza a bordo dei due giovani clandestini, non ha prestato più molta attenzione a loro.

Ora che l’imbarcazione è quasi ferma, e più esposta all’azione delle onde, che non sono alte ma che fanno beccheggiare lo scafo, Riccardo combatte contro la nausea e osserva il frenetico via vai dei marinai sul ponte. Due di loro stanno per calarsi sulla barchetta, che è stata fatta accostare a una fiancata del cianciolo, e altri armeggiano  con  le  reti assicurate al grande argano che sporge oltre    la paratia.

Ogni tanto però il ragazzo scruta il viso largo  e cotto dal sole del capitano. E anche se non gli sembra un uomo cattivo, continua ad avvertire una morsa gelida al cuore, come se in quella lunga notte dovesse accadere qualcosa di terribile.

Poco dopo la barchetta si allontana dal cianciolo e dalla lampara tesa oltre la sua prua sfocia un cono di luce diretto verso la superficie del mare. Il cono diventa via via più ampio e accecante, mentre la piccola imbarcazione fende le onde compiendo delle lente giravolte, solo quando la luce raggiunge la sua massima intensità, Riccardo scorge un brulichio di piccoli pesci che stanno risalendo in superficie.

Il banco di sardine, attirato dalla lampara, si è radunato sotto la barchetta.

- Ci siamo… – mormora il capitano, dando di nuovo tutta forza ai motori.

Il cianciolo, nel volgere di pochi minuti, compie un ampio giro intorno alla piccola imbarcazione, mentre i marinai lasciano precipitare in acqua le reti: e, quando il capitano ferma di nuovo i motori, tutti gli uomini presenti a bordo si precipitano a poppa, sulle funi assicurate all’argano, per serrare immediatamente le reti e issarle a bordo.

Riccardo si accorge che Chiara, contrariamente a lui, che ha seguito ogni fase della pesca, continua a osservare con uno sguardo cupo lo schermo del sonar, dove i puntini luminosi si sono impastati in una massa compatta.

- Non è rimasto nessun… nessun grosso pesce intrappolato nelle vostre reti, vero? – chiede la ragazza al capitano.

Per la prima volta da quando sono entrati nella cabina di pilotaggio, l’uomo fissa Chiara negli occhi. E, quando parla, sulle sue labbra spunta inaspettato un sorriso. - I delfini non sono pesci, ma immagino che questo tu lo sappia – dice. – E in ogni caso nessun delfino è rimasto impigliato nelle reti, tanto meno il Grande Blu, se era questo che volevi domandarmi. Quindi, senza dare modo alla ragazza di ribattere, o di porgli un’altra domanda, il capitano volge lo sguardo a Riccardo, che è pallidissimo, e prima di affidare a un marinaio il comando del peschereccio e uscire dalla cabina, aggiunge: – Quando avremo finito di issare le reti e di stivare il pesce, vi farò vedere una cosa.

Prima che l’uomo possa mantenere la sua promessa, però, passano alcune ore. Perché la pesca si è rivelata particolarmente fruttuosa e le operazioni di stivaggio delle sardine nelle grandi vasche sottocoperta, mentre il cianciolo ha già ripreso da un pezzo la rotta verso la terraferma, si concludono solo poco prima dell’alba.

– Ora potete venire sul ponte – dice il capitano a Chiara e a Riccardo, mentre l’aurora già stinge di viola e d’argento l’orizzonte.

L’uomo si ferma vicino all’argano, dove sono state riammassate le reti, e, aiutandosi con un paio di pinze, stacca da un grosso moschettone un cilindro di colore rosso e nero, sulla cui superficie spicca una targhetta metallica. Sulla targhetta c’è l’immagine di un delfino.

– Non siamo stati noi a uccidere Pupazza Bianca - mormora il capitano, con voce bassa e ferma. – E dubito che a compiere un gesto così vigliacco e feroce sia stato un pescatore di Ciacci.

L’uomo esita per qualche istante, restringendo gli occhi sino a farli diventare due fessure sottili,   e Riccardo capisce che gli preme essere creduto e che sta dicendo la verità.

- In ogni caso, dopo la sua morte, ho deciso di attrezzare le reti del mio cianciolo con questi cilindri – continua. – E tutti gli altri pescherecci hanno seguito il mio esempio. Vedete queste lettere?

L’uomo indica una breve sigla sulla targhetta, sotto l’immagine del delfino: “DDD”.

- Significa Dolphin Dissuasive Device – spiega.

- Vuoi forse dire che… – sussurra Chiara.

- Voglio dire che grazie a questi cilindri nessun delfino può più avvicinarsi alle nostre reti, perché emettono un segnale acustico a frequenza ultrasonica che li spinge a stare lontani. In questo modo noi proteggiamo le nostre reti, e i delfini non corrono più il rischio di restarvi impigliati.

Solo in quel momento Riccardo, che ha voltato lo sguardo verso Chiara, si accorge che la sua amica ha il viso imporporato. Ma conoscendola ormai bene sa che, anche se lo desidera, non riuscirà mai a pronunciare le parole che forse l’uomo vorrebbe sentire.

- Io – mormora allora, facendosi coraggio, per lui e per la sua amica – vorrei chiederti scusa. Noi non potevamo immaginare che…

- Lo so – lo interrompe il capitano. Quindi sorride ancora, con un sorriso pieno e tondo questa volta, come il sole ambrato che già si specchia sul mare, e aggiunge: – Torniamo dentro . Abbiamo tutto il tempo di bere un caffellatte caldo, prima di entrare in porto.

Prima di raggiungere la cabina, però, Riccardo si ferma ancora sul ponte del cianciolo e scruta il movimento increspato delle onde, che sembrano anch’esse tornare a casa.

E, per un istante, in lontananza, ha l’impressione di vedere un gigantesco delfino che con un poderoso balzo si innalza in verticale verso il cielo, forse per la felicità di essere ancora vivo, o forse solo per ricordare le sue danze d’amore con Pupazza Bianca.




















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