Alla fine dell’ultima era glaciale Alla fine dell’ultima era glaciale,
circa diecimila anni prima della nascita di Cristo, gli uomini preistorici del
continente europeo dovettero adattarsi a un ambiente molto differente da quello
che avevano conosciuto i loro progenitori. Quando infatti la temperatura del
pianeta si risollevò, e i ghiacciai si ritirarono in cima alle montagne,
immensi territori un tempo dominati dal freddo intenso rinacquero a una nuova
vita, coprendosi di praterie e di foreste. In questo periodo della sua
preistoria l’uomo si avviò lentamente alla scoperta dell’agricoltura e
dell’allevamento, e assistette alla progressiva estinzione degli animali di
grandi dimensioni che un tempo dominavano la natura. Dopo la scomparsa degli
ultimi Orsi delle Caverne, che a differenza dei plantigradi di minori
dimensioni non sopravvissero ai rigori dell’era glaciale, altre grandi
creature, come i Rinoceronti Lanosi, le Tigri dai Denti a Coltello (o Tigri dai
Denti a Sciabola) e i Cervi Giganti, le cui corna ramificate superavano
abbondantemente i tre metri di ampiezza, si avviavano alla fine della loro
esistenza. Fu proprio mentre osservava le
profonde impronte lasciate sul terreno da uno degli ultimi Cervi Giganti, uno
dei Vecchi Padri comparsi sulla Terra molto prima dell’Homo Sapiens, che Kamu,
un ragazzino abbastanza grande da tendere con facilità la corda di budello del
proprio arco, avvertì un fruscio alle sue spalle, come se il vento, posando
all’improvviso il suo respiro sulle fronde degli arbusti che lo circondavano,
avesse voluto avvertirlo che non era solo… 1. Il battito
del cuore del Vecchio Padre Kamu si voltò di scatto. A una decina di passi di distanza, i
rami di un arbusto carico di minuscole bacche verdi si muovevano ancora. Era stato solo un alito improvviso
del vento ad agitarli? O il fruscio che aveva sentito era stato provocato da
qualcos’altro? Cambiando lentamente posizione il
ragazzo poggiò un ginocchio sul terreno e tese la corda dell’arco. Quindi
respirò a fondo e prese di mira con la freccia dalla punta di selce il lato
destro dell’arbusto, quello opposto al punto in cui i rami si erano mossi. Se qualche animale si nascondeva lì
dietro, sarebbe sbucato fuori da quella parte. Per allontanarsi velocemente da
lui, nel caso si trattasse di un cerbiatto o di un cinghiale di piccola taglia,
oppure per saltargli addosso, se si fosse trattato di un animale più grosso e
pericoloso. A meno che a sfiorare i rami non
fosse stata proprio la creatura di cui poco prima aveva scoperto le impronte. E
in quel caso… – Cubro! Dal lato destro dell’arbusto era
sbucato fuori un ragazzo che aveva il viso coperto da uno strato di ocra
gialla, più denso sotto gli occhi e intorno alle labbra. Il nuovo arrivato si avvicinò a Kamu
e si piazzò a gambe larghe davanti a lui, stringendo in mano un’ascia di
pietra. – Il tuo respiro si è nascosto sotto
i sassi, vero? – sussurrò malevolo, assottigliando gli occhi. Kamu si sollevò lentamente per
fronteggiarlo. Dire a un cacciatore che il suo
respiro si era nascosto sotto i sassi era uno dei peggiori insulti che gli si
potesse rivolgere. Perché significava dirgli che il suo spirito era stato
sopraffatto dalla paura. – Avresti dovuto fare il verso
dell’upupa o del cuculo, per avvertirmi della tua presenza – lo apostrofò a
muso duro Kamu. Quella non era la prima volta, da
quando lui e gli altri ragazzi si erano allontanati dal villaggio di Acqua che
Ride, che Cubro non aveva rispettato le regole della caccia. – Davvero? – ribatté incurante. – E
tu cosa farai? Lo dirai a Oxi? Per un istante Kamu fu tentato di
rispondergli che l’avrebbe fatto. Ma poi capì che non sarebbe servito a niente,
visto che neppure l’anziano Oxi aveva il potere di punire Cubro per i suoi
errori e per la sua sfrontatezza. Di tutti i ragazzi che gli erano
stati affidati, infatti, solo Cubro poteva permettersi di non riconoscere la
sua autorità, visto che era il nipote del capo del villaggio. In quanto a Kamu,
lui era solo un mezzosangue. E i mezzosangue… – Cosa guardavi poco fa? – gli chiese
bruscamente Cubro. Senza dargli il tempo di rispondere,
spostò Kamu di lato e si chinò a osservare le impronte, che erano ancora
fresche e ben marcate sul terreno. – Uno stambecco, oppure un grosso
capriolo – affermò. – Né l’uno, né l’altro – ribatté seccamente
Kamu. Il giovane mezzosangue fece notare al
nipote del capo del villaggio le dimensioni fuori dal comune delle impronte,
che erano strette e allungate, e più profonde dove i possenti speroni
dell’animale erano affondati nel terreno. – Si tratta di un cervo – affermò con
sicurezza. – Ma non di un cervo come tutti gli altri. A quelle parole Cubro si tirò su di
scatto. Lanciò un’altra occhiata alle
impronte. – Vuoi forse dire che… – Voglio dire – tagliò corto Kamu –
che queste tracce sono state lasciate da uno dei Vecchi Padri. E che noi non
possiamo… – Io posso fare tutto quello che
voglio – sussurrò Cubro a denti stretti. Il nipote del capo del villaggio
assicurò l’ascia di pietra a una sottile stringa di cuoio bruno che gli cingeva
la vita. Poi sfilò dalle spalle il suo arco e senza aggiungere altro cominciò a
seguire le tracce dell’animale. Fatti però solo pochi passi tra gli arbusti,
tornò indietro con un’espressione cupa e minacciosa. – Tu farai bene a non seguirmi.
Questa preda è mia – disse a Kamu. Ma l’altro quasi non sentì le sue
parole. Perché, ancora chino sui talloni, si
era ricordato le parole che Oxi aveva detto poco prima che si mettessero in
cammino per l’altopiano, a proposito degli ultimi Vecchi Padri. E ora,
sfiorando con le dita le impronte sul terreno, si domandava cosa sarebbe
successo a lui e agli altri abitanti del villaggio, se Cubro fosse riuscito a
conficcare una freccia nel cuore del Cervo Gigante e gli avesse rubato la vita. Tre giorni prima, tutti i ragazzi di
Acqua che Ride che avevano raggiunto l’età per partecipare alla loro prima
battuta di caccia, una ventina in tutto, si erano ritrovati al chiarore
dell’aurora nel sacro recinto di pietre alle spalle del villaggio, ai piedi di
un vecchio ontano incenerito per metà da un fulmine. In una cavità dell’albero,
adagiata su un soffice strato di erbe di fiume e di muschio, c’era una
statuetta in onice della Dea Madre delle Acque e della Terra, che tutti i
giovani cacciatori avevano sfiorato con la punta delle dita, prima di disporsi
in semicerchio di fronte a Oxi. «Ascoltatemi.» La voce bassa e cavernosa
dell’anziano cacciatore aveva zittito il brusio nervoso dei ragazzi, la maggior
parte dei quali erano dei mezzosangue, cioè figli degli uomini e delle donne
più umili del villaggio. Quelli che non erano imparentati col ristretto clan
delle famiglie più ricche e potenti, ai cui soli membri, chiamati hava,
era permesso abbellirsi il viso con l’ocra gialla durante le battute di caccia. «Rama…» Oxi aveva posato lo sguardo sul
migliore amico di Kamu, un ragazzo mezzosangue che aveva il lato sinistro del
viso attraversato da lunghe e profonde cicatrici e che tutti chiamavamo “il
Fortunato”, perché era sopravvissuto all’attacco di una pantera. «Sei sicuro di voler venire con noi?
Lassù sull’altopiano andrete incontro a molti pericoli.» Rama si era stropicciato l’occhio
destro, l’unico rimastogli, visto che l’altro gli era stato portato via dalla
zampata del predatore. «Posso usare le mie armi come e
meglio di chiunque altro» aveva ribattuto seccamente, arricciando le labbra in
una smorfia. «Anche con un occhio solo.» Oxi si era accarezzato la folta barba
grigia e aveva annuito, come se quelle fossero proprio le parole che si era
aspettato di sentire. Poi si era rivolto a tutti i ragazzi. «Quando sarete sull’altopiano» aveva
detto «potrete utilizzare i vostri archi, le vostre asce, le vostre lance e le
vostre bole». Kamu aveva lanciato un’occhiata a
Cubro e ad altri tre ragazzi hava, che erano gli unici a possedere le
bole, due pietre rotondeggianti e grosse mezzo pugno appese a una corda di
canapa. Le bole, che venivano fatte roteare
sopra la testa e poi lanciate verso la preda, erano un’arma micidiale nelle
mani di un buon cacciatore. «Ma non potrete costruire trappole di
nessun tipo» aveva continuato Oxi «perché per dimostrare il vostro coraggio e
la vostra abilità dovrete affrontare le vostre prede guardandole negli occhi». L’uomo aveva scrutato attentamente i
volti dei ragazzi, come se volesse accertarsi che avessero capito bene. Poi
aveva ricordato le altre regole della caccia. Ciascuno di loro sarebbe potuto
andare in cerca delle sue prede da solo o insieme a un compagno. Nel caso uno
di loro si fosse accorto che un altro ragazzo si trovava nelle vicinanze,
avrebbe dovuto fare il verso dell’upupa o del cuculo, per avvertirlo della sua
presenza ed evitare di venire ferito o ucciso per errore. E chiunque fosse
riuscito a colpire la propria preda, avrebbe dovuto chiederle subito perdono
per averle rubato la vita. Solo in questo modo lo spirito dell’animale non si
sarebbe vendicato su tutti gli abitanti del villaggio, provocando chissà quali
dolori e sciagure. Cubro aveva alzato una mano, per
chiedere di parlare. «Gli anziani dicono che
sull’altopiano vive ancora qualcuno dei Vecchi Padri.» Oxi aveva soppesato le parole del
giovane hava senza mutare espressione. Poi, come se non le avesse udite, si era
levato dalla testa il suo sami, un copricapo di pelle di cinghiale
ornato di centinaia di minuscole conchiglie di fiume, una per ogni battuta di caccia
a cui aveva partecipato, e si era rivolto di nuovo a tutti i ragazzi,
ricordando loro quali animali avrebbero potuto prendere di mira con le loro
armi. Tutti gli uccelli e tutte le prede di piccola taglia, come i conigli, le
lepri, le donnole e i tassi. I caprioli, gli stambecchi, le linci, i cinghiali
e i daini. E anche gli orsi bruni e le pantere, se avessero trovato abbastanza
coraggio per farlo. Solo dopo aver finito di elencare le
creature che vivevano più numerose sull’altipiano, Oxi si era voltato di nuovo
verso Cubro e aveva aggiunto con voce roca: «I figli degli uomini non danno la
caccia ai Vecchi Padri da molto molto tempo. Ne sono rimasti pochissimi, ormai.
E si dice che il loro cuore possieda una magia sconosciuta e potente». «Più potente della punta della mia
lancia?» aveva ribattuto Cubro, sollevando l’arma, un sottile bastone lungo tre
braccia alla cui sommità era stato assicurato un frammento acuminato di selce. Tutti i ragazzi avevano trattenuto il
fiato. Perché era chiaro che il nipote del capo del villaggio, ancora prima di
partire, stava sfidando l’autorità di Oxi. L’anziano cacciatore aveva
fronteggiato il ragazzo incrociando le braccia sul petto, mentre i primi raggi
del sole illuminavano i tratti del suo volto, che si erano induriti e
sembravano scolpiti nella pietra. «Nessuno di voi oserà colpire un
Vecchio Padre» aveva sentenziato con voce dura. «Non fino a quando starete
sotto il mio comando.» Poi, senza aggiungere altro, si era
infilato in testa il suo sami e aveva ordinato ai ragazzi di mettersi in marcia
verso l’altopiano. Poco più tardi, mentre il gruppo si
allontanava dal villaggio lungo un pendio coperto di felci, Kamu aveva lanciato
un’occhiata alle capanne di paglia e fango. Lo spazio davanti alle costruzioni,
disposte in un doppio cerchio a un tiro di freccia dalla riva del fiume, era
deserto. Mentre i ragazzi partivano per la loro prima battuta di caccia,
nessuno, com’era consuetudine, era uscito dalla propria capanna per salutarli. Ciascuno di loro, da quel momento, avrebbe
potuto contare solo sulle sue forze e sul suo coraggio. E solo chi sarebbe
riuscito a dimostrare il proprio valore, al suo ritorno sarebbe stato
considerato un vero cacciatore e avrebbe potuto indossare un sami simile a
quello di Oxi, ornato dalla prima conchiglia. «A cosa pensi?» Rama si era accorto che Kamu,
arrestatosi sul pendio, fissava una delle capanne più grandi del villaggio,
larga almeno dieci passi e lunga il doppio. Da un foro praticato nella parte
centrale del tetto, sormontato da una bassa tettoia di canne, uscivano sbuffi
di fumo. «Non penso a niente» aveva risposto
Kamu. «Bugiardo» aveva ribattuto Rama. Poi,
sorridendogli, aveva aggiunto sottovoce: «Dovrai portare a Sira qualche penna
di civetta o di barbagianni, per il giorno della semina». Anche Kamu allora aveva sorriso. Aveva lanciato un’ultima occhiata
alla capanna, quella della famiglia di Sira, una ragazzina hava che aveva
pressappoco la sua età, e poi aveva ripreso il cammino insieme al Fortunato,
pensando che quella delle penne di civetta o di barbagianni era una buona idea. Al loro ritorno dall’altopiano
sarebbe stata proprio Sira, con la sua tunica di pelle di muflone bianco ornata
di piume di uccelli di ogni specie, a compiere il rito dell’acqua e della terra
nel giorno della semina del frumento. E Kamu sapeva che la ragazza avrebbe
accettato volentieri quel dono da lui, anche se era un mezzosangue. Il ragazzo aveva velocizzato il
passo, per raggiungere il gruppo che si era distanziato. E qualche istante dopo
aveva visto Cubro parlottare sottovoce con uno degli altri ragazzi hava. Il nipote del capo del villaggio
aveva sfiorato con gli occhi quelli di Kamu e si era zittito di colpo. Era stato allora che il ragazzo aveva
avuto un brutto presentimento, come se già sapesse che qualcosa di terribile
sarebbe avvenuto sull’altopiano. Qualcosa la cui ombra sarebbe ricaduta molto
presto su tutto il villaggio di Acqua che Ride. – Avresti dovuto cancellare con il
piede queste impronte – disse Rama. – Oppure distrarre Cubro in qualche modo,
per impedirgli di vederle. Kamu aveva raccontato al Fortunato,
che l’aveva raggiunto nel punto dove il Cervo Gigante aveva lasciato le sue
tracce, quello che era successo poco prima. – E ora che facciamo? – chiese al suo
amico. – Potremmo correre da Oxi e dirgli
che Cubro sta dando la caccia a uno dei Vecchi Padri. Kamu scosse la testa. – Non faremmo in tempo a raggiungere
la Grotta dei Pipistrelli e poi a tornare qua insieme a lui. La grotta che Oxi aveva scelto come
base per la battuta di caccia, un profondo antro nella cui parte finale aveva
trovato rifugio una nutrita colonia di pipistrelli albini, era molto distante
dal punto in cui si trovavano. Kamu ripensò a quello che era
successo nei tre giorni che avevano passato sull’altopiano. Quasi tutti i
ragazzi erano già riusciti a dare prova del loro valore. Rama aveva trafitto
con le sue frecce una lepre, due donnole e uno stambecco. E lui una lince e un
giovane cinghiale, le cui carni Oxi aveva messo subito ad affumicare vicino al
fuoco, in modo che non imputridissero prima del loro ritorno ad Acqua che Ride. Solo due ragazzi non erano riusciti a
colpire neppure una preda. E uno dei due era il nipote del capo del villaggio. Di nuovo Kamu avvertì una stretta al
cuore. – Non possiamo permettere che Cubro
uccida il Vecchio Padre – sussurrò. – Ma come potremmo impedirglielo? Kamu indicò all’amico le impronte del
Cervo Gigante, che puntavano verso la zona più impervia dell’altopiano, dove la
macchia di arbusti e cespugli cedeva il posto a vaste distese di felci
verdissime, punteggiate da grandi rocce appuntite. – Seguiremo anche noi quelle impronte
– affermò. – E se arriveremo in tempo, sfiderò Cubro al morso del leopardo. Kamu si lanciò tra gli arbusti, senza
accorgersi che Rama era impallidito. Nessun mezzosangue, infatti, avrebbe mai
osato sfidare un ragazzo hava al morso del leopardo. Perché solo ai ragazzi
hava veniva insegnato fin da piccoli a battersi utilizzando come unica arma una
doppia stringa di cuoio chiamata rocio, alle cui estremità venivano
assicurate due zanne del pericoloso predatore. Il Fortunato una volta aveva visto
Cubro battersi con un ragazzo che era molto più alto e robusto di lui. E il
nipote del capo del villaggio era stato abilissimo a far roteare il rocio e a
ferire il suo avversario su una guancia, ponendo subito fine al combattimento. A meno che Kamu… Rama bloccò il suo amico afferrandolo
per un braccio. – È stato Corat a insegnarti a usare
il rocio, vero? – gli chiese. Corat era lo sciamano del villaggio,
che aveva adottato Kamu dopo la morte dei suoi genitori, avvenuta molto tempo
prima. Il ragazzo annuì e tirò fuori dalla
sacca che portava a tracolla la doppia stringa di cuoio con le zanne di
leopardo. – Non ho paura di Cubro – affermò,
mostrandola al suo amico. – E se riuscirò a sconfiggerlo, dovrà rinunciare a
dare la caccia al Vecchio Padre. Il ragazzo riprese a correre verso la
parte più elevata dell’altopiano, con i lunghi capelli sciolti al vento,
seguito da Rama che faticava a tenere il suo passo. Dopo un po’ giunsero di
fronte a due massi che il vento aveva eroso in profondità, dandogli la forma di
due mezzelune con le pance cave rivolte l’una contro l’altra. Kamu osservò sul terreno le tracce
del Cervo Gigante, a cui si erano sovrapposte le impronte dei mocassini con la
suola di canapa del nipote del capo del villaggio. – Ho paura che Cubro stia per
raggiungere la sua preda – disse a Rama. – Arriveremo troppo tardi. Quando i due ragazzi superarono la
strettoia tra i massi a forma di mezzaluna, Kamu capì di non essersi sbagliato. A non più di cinquanta passi di
distanza, dove la distesa di felci si appiattiva fino a scomparire del tutto
sulla nuda roccia, Cubro stava prendendo di mira il Cervo Gigante con il suo
arco. Il Vecchio Padre era fermo sul ciglio
di un dirupo e fissava il ragazzo coi suoi occhi grandi e umidi, sapendo di non
avere alcuna possibilità di fuga. Sollevò il capo adorno delle enormi
corna, come se volesse rubare l’ultimo respiro al vento che giocava col suo lungo
manto, bruno sui fianchi e bianco sull’ampio petto. Poi, all’improvviso, volse
lo sguardo verso Kamu. E al ragazzo sembrò di sentire il battito del suo cuore,
un tum tum lento e profondo che
sembrava provenire dalle viscere dell’altopiano. – Nooo! Cubro, nooo! – gridò Rama. Ma era troppo tardi. Perché in quel momento Cubro scoccò
la sua freccia, che si conficcò nel petto del Vecchio Padre, proprio
all’altezza del cuore. Nonostante questo, il Cervo Gigante
non crollò a terra. Restò ancora immobile per qualche istante, scosso da un
lunghissimo brivido. Poi s’inarcò sulle zampe posteriori e con un movimento
brusco si lanciò nel vuoto, senza un bramito e senza un lamento. Kamu e Rama corsero fino al ciglio
del dirupo e videro il suo corpo adagiato scompostamente sulla riva di un
fiumiciattolo ai margini di una vasta radura. All’ultimo momento il Vecchio Padre
aveva scelto da sé come porre fine ai propri giorni. Ma era come se fosse stato
Cubro a rubargli la vita. Kamu si voltò di scatto per
affrontarlo. Ma il nipote del capo del villaggio,
che doveva aver capito che non sarebbe mai riuscito a recuperare il corpo
dell’animale finito in fondo al burrone, era sparito. – Quel vigliacco è andato via senza
neppure chiedergli perdono – sussurrò sconvolto il Fortunato. Kamu prese da una tasca della tunica
un sacchetto di budello di capra, vi infilò dentro due dita ed estrasse un
pizzico di cenere, mentre il Fortunato, sfilata dalla cintura una zucca
essiccata dal collo stretto e allungato, versava un po’ d’acqua sul palmo della
mano. Quindi i ragazzi si inginocchiarono per il rito del perdono che tutti i
cacciatori erano tenuti a compiere sul corpo delle prede uccise e lasciarono
cadere nel dirupo la cenere e qualche goccia d’acqua. – Noi ti chiediamo perdono perché Cubro
ti ha rubato la vita, Vecchio Padre – sussurrò Kamu. – Possa il tuo sguardo
spaziare sulle terre dove riposano gli spiriti, e la tua bocca abbeverarsi
ancora all’acqua dei fiumi e dei ruscelli. Compiuto il rito i due ragazzi si
allontanarono e quando molto più tardi raggiunsero l’angusto spiazzo erboso
davanti al quale si apriva la Grotta dei Pipistrelli, trovarono Cubro chino su
uno dei fuochi, insieme ai suoi amici hava. Il ragazzo si accorse della presenza
di Kamu e lo fissò con un ghigno di sfida sulle labbra. Prima ancora, però, che Kamu potesse
dirigersi furibondo verso di lui, Oxi gli si parò di fronte e gli mise una mano
sulla spalla. – Meno male che siete tornati – disse
l’uomo. – Dobbiamo rientrare subito al villaggio! Solo in quel momento Kamu si accorse
che tutta la selvaggina, sia quella che Oxi aveva già affumicato sia quella
fresca, era stata caricata sui mowa,
robuste slitte costruite con lunghi rami di salice che scivolavano agevolmente
su qualsiasi superficie. E che la maggior parte dei ragazzi che avevano
partecipato alla battuta di caccia erano intenti a cospargere con resina e
grasso di cinghiale le estremità di grosse torce. Se Oxi aveva deciso di farli tornare
ad Acqua che Ride due giorni prima del previsto e in piena notte, doveva essere
successo qualcosa di molto grave. L’anziano cacciatore gli indicò un
giovane mezzosangue che doveva aver raggiunto il gruppo non molto prima. – Dalo è salito quassù per avvisarmi
che sono arrivate pessime notizie, dalle Terre Brune oltre il fiume. Fu allora che a Kamu parve di sentire
di nuovo il battito del cuore del Vecchio Padre, mentre il sole ormai basso
all’orizzonte veniva inghiottito da un manto pastoso di nuvole nere. |