C’era una volta, in mezzo al mare, un’isoletta degna di un Re. C’era un castello, c’era una
fata, tre cavalieri e una casa stregata. C’era uno gnomo, un drago
giocondo, due principesse e un pozzo profondo. E sulla torre più alta e più
grossa, viveva felice il Gran Barbarossa. Che ad ogni sera, e a ogni
mattina, correva sul tetto, correva in cucina. Per ritrovare il suo
grande tesoro, un piccolo libro dalle pagine d’oro. Un libro di fiabe, di maghi,
di fate, un libro di draghi e favole
matte. Eccolo lì, quel libro un po’
matto, il Gran Barbarossa l’ha
ritrovato! Ma ora che dice, il Gran
Barbarossa? Silenzio, ascolta…! C’era una volta…
Tanto tanto tempo fa, c’era una principessa dispettosa che faceva
le bizze dalla mattina alla sera. “Ho detto che per il mio compleanno voglio in regalo un
draghetto!” disse un giorno a suo padre il Re. “Lo voglio, lo voglio e lo
voglio!” E così il Re, per non sentire le grida e i pianti di quella figlia
dispettosa, inviò cento cavalieri a cercare un draghetto. Possibilmente uno
piccolo piccolo che non facesse troppo fumo e troppe fiamme dal naso e dalle
orecchie. “Oh, che bello!” disse così la principessa il giorno del suo
compleanno. “E’ proprio il draghetto che avevo sognato!” Lo prese in braccio,
lo portò in camera sua e lo mise tra le sue bambole preferite. Che draghetto fortunato, direte voi! E invece no! Perché non solo
la principessa lo obbligava ogni mattina e ogni sera a indossare le gonnelline
delle sue bambole. Ma pretendeva anche che lui imparasse a danzare sulla punta
delle zampe e a mangiare con le posate stando ben seduto a tavola, tutte cose
indegne di un vero drago, anche se lui era ancora un drago bambino. Perciò il draghetto, in una notte buia buia, salì sulle mura del
castello e tentò di fuggire spiccando il volo. Ma non fu una bella idea! Perché
le sue ali erano ancora troppo piccole, per permettergli di volare. Così cadde
nel prato e le guardie lo riportarono indietro. “Non lo voglio più!” disse la principessa ai soldati. “Guardate,
si è sporcato tutto e si è rotto un’ala! Cosa me ne faccio di un draghetto con
un’ala rotta?” Il poverino venne così portato nella torre più alta del castello e
nessuno andò mai a trovarlo, salvo un ragazzino che si chiamava Manuelito e che
faceva lo stalliere, il quale gli curò di nascosto l’ala ferita e gli fece
compagnia ogni notte. “Grazie!” diceva il draghetto a Manuelito. “Quando sarò grande non
mi dimenticherò di te!” E insieme giocavano ai giochi preferiti dai giovani
draghi, a nascondino, al gioco delle sette pietre (un gioco difficilissimo da
imparare!) e a luna monda luna tonda. Manuelito si divertiva così tanto, a giocare con il draghetto, che
un giorno chiese alla principessa di farlo uscire dalla torre. “Se tu lo fai uscire dalla torre” le disse, “lo ospiterò nella mia
povera casa. Da mangiare ce n’è poco. Ma quel che c’è si divide.” A sentire quelle parole la principessa ricominciò a fare le bizze. “No, no e no!” disse. “Quel draghetto è mio e voglio che resti
nella torre!” E siccome era anche un po’ invidiosa, di tutti quei giochi che
Manuelito e il draghetto facevano insieme, ordinò che il ragazzo venisse chiuso
in camera sua e sorvegliato dalle guardie. Dopo di che riprese a giocare con le
sue bambole e pian piano si dimenticò sia del draghetto che di Manuelito. Chi invece non si dimenticò del suo amico Manuelito fu proprio il
draghetto. Che quando compì sette anni, come succede a tutti i draghetti,
diventò un signor drago come si deve. Con certe ali grandi e grosse e con certe
zampe robuste come quelle di un Drago da Battaglia! Così sbatté una paio di volte le ali, sputò un po’ di fuoco di qua
e di là e subito le mura della torre crollarono come se fossero fatte di sabbia. Dopo di che il drago liberò Manuelito e lo portò in volo sino alla
sua caverna. “Ecco” gli disse, mostrandogli una cassa piena di soldini d’oro.
“Questo tesoro è tuo.” Fu così che Manuelito divento ricco e visse per sempre felice e
contento. In quanto alla principessa dispettosa, il drago portò anche lei nella
sua caverna. E non la liberò sino a quando non diventò più gentile e imparò a
giocare a nascondino, al gioco delle sette pietre e a lunamonda lunatonda.
Mignolo e il Drago da Battaglia
Ma era così povero che non aveva né un cavallo, né una spada.
Possedeva solo un’oca un po’ matta di nome Marianna, che faceva un
uovo al giorno, uno solo, e di farne di più non ne voleva sapere. “Babbo, mamma” disse un giorno Mignolo ai suoi genitori, “ho
deciso che partirò in cerca di un Drago da Battaglia. Perché solo se
sconfiggerò un Drago da Battaglia potrò diventare Cavaliere” “Oh, poveri noi!” dissero il suo babbo e la sua mamma. “Ma come
farai a sconfiggerlo, senza cavallo e senza spada?” “Lasciate fare a me” rispose Mignolo. “L’unica cosa che mi serve è
un sasso bianco bianco e liscio liscio, che abbia la stessa forma di un uovo” Quando il babbo gli trovò il sasso che gli serviva, Mignolo salì a
cavallo dell’oca Marianna e trottando trottando partì all’avventura. “Sai se da queste parti vive un Drago da Battaglia?” chiese a un
contadino che incontrò all’entrata di un villaggio. “Altroché, poveri noi!” si lamentò il contadino. “Vive nella
caverna in mezzo al bosco. E ogni tanto ne viene fuori per sgranocchiare un
ragazzo o una ragazza, o anche un bambino o una bambina, purché siano
paffutelli e cicciotelli.” “Non dovete più preoccuparvi” disse Mignolo. “Ci penserò io a
dargli una lezione!” “Ma come farai a sconfiggerlo, senza cavallo e senza spada?” “Lascia fare a me” rispose Mignolo. Si fece regalare dal contadino un pezzo di formaggio, e trottando
trottando si avviò verso la caverna del Drago da Battaglia. Che come tutti i
Draghi da Battaglia, a quell’ora del mattino, dormiva e russava facendo tremare
le pareti della caverna. Mignolo non perse tempo. Raccolse un mucchietto di rami secchi,
poggiò lì vicino il pezzo di formaggio che gli aveva dato il contadino e poi: “Ehi, tu! Sveglia!” gridò a gran voce. Ora sapete come sono permalosi questi Draghi da Battaglia!
Specialmente quelli che hanno grandi ali verdi e la coda rivestita di scaglie!
Se c’è una cosa che non sopportano è essere svegliati
all’improvviso. Soprattutto se stanno sognando di sgranocchiare due o tre
bambini biondi e qualche bambina dagli occhi celesti, tutti paffutelli e
cicciotelli s’intende! “Chi è che disturba il mio sonno?” tuonò così, facendo fumo e
fiamme dal naso e dalle orecchie. Si stropicciò gli occhi e cosa vide? Solo un
ragazzetto da niente, senza cavallo e senza spada, accompagnato da un’oca. “Perdonami il disturbo, caro amico” gli disse Mignolo, indicando
il mucchietto di rami secchi che aveva raccolto. “Potresti accendere il fuoco,
per favore?” “Chi sei tu? E perché vuoi accendere un fuoco nella mia caverna?” “Perché ho un po’ di appetito” rispose Mignolo. “E pensavo di
mangiarti per cena!” Il Drago da Battaglia cominciò a ridere e rise così tanto che gli
vennero le lacrime agli occhi. “Tu, che sei così piccolo, vorresti mangiare me che sono così
grande?” “Si, ma non subito. Prima mangerò come antipasto una di queste
pietre” e così dicendo Mignolo fece finta di prendere da terra una pietra,
mentre invece prese solo il pezzo di formaggio che gli aveva dato il contadino. “Mmmm… buona questa pietra!” disse il ragazzo, sgranocchiando il
formaggio. ‘Oh, oh!’ pensò invece il Drago da Battaglia. ‘Se questo
ragazzetto sgranocchia delle pietre come antipasto, vuol dire che è davvero
forte!’ “Vuoi ancora mangiarmi?” chiese così, un po’ preoccupato. “Certo!” disse Mignolo, “Ma prima assaggerò un uovo della mia oca
Marianna. Li fa tanto buoni sai, anche se sono uova un po’ speciali…” “Speciali come?” “Hanno il guscio più duro della pietra. Non mi credi? Facciamo
così. Ora io dirò alla mia oca di fare due uova. Se riuscirai a rompere il
guscio prima di me, non ti mangerò. In caso contrario ti farò arrosto con
contorno di patate e cetriolini!” Così dicendo Mignolo prese l’uovo che aveva fatto Marianna, che ne
aveva fatto uno solo, perché di farne di più non ne voleva sapere, e al posto
del secondo prese il sasso bianco bianco e liscio liscio che gli aveva dato suo
padre. “Ecco, questo è il tuo” disse al Drago da Battaglia, dandogli il
sasso. Fu così che mentre Mignolo ruppe il guscio del suo uovo in un
battibaleno, il Drago da Battaglia, prova che ti riprova, riuscì solo a
rompersi due denti. “Ohi! Ahi!” si lamentò. “Mi sa che questo ragazzo è troppo forte
per me!” E così dicendo volò via ad ali spiegate dalla caverna e fuggì lontano
lontano, prima che quel ragazzo lo facesse davvero arrosto e poi lo mangiasse
per cena, con contorno di patate e cetriolini. Quando il Re seppe in che modo Mignolo aveva fatto fuggire il
Drago, lo nominò Primo Cavaliere di Corte e gli regalò una spada d’oro e un
bellissimo cavallo bianco. E in quanto all’oca Marianna, per quanto visse, continuò a fare
solo un uovo, solo uno al giorno e di farne altri non ne volle mai sapere.
Mago
Mirtillo e il topolino vanitoso Un giorno mago Mirtillo uscì per andare al mercato e dimenticò a
casa la sua bacchetta magica. Proprio allora entrò nella sua camera un topolino bianco che
credeva di essere il topolino più bello del mondo. Si avvicinò alla bacchetta
magica, la strinse tra le sue zampette e disse: “Come topolino sono il più bello del mondo. Ma ora voglio
diventare un principe!” E pinfete e poff! Al posto del topolino comparve un principe dagli
occhi azzurri e dai capelli neri come il carbone! Il principe si guardò allo specchio e si trovò molto bello. Ma
siccome era anche molto vanitoso decise che voleva essere il principe più bello
del mondo. E che perciò al posto dei capelli neri voleva dei bei capelli biondi
e dorati come le spighe di grano maturo. Così prese la bacchetta magica… e pinfete e poff! Cosa successe?
Successe che i cappelli del principe restarono neri come il carbone. E che sul
suo viso comparvero degli enormi baffi da topastro grigio, lunghi, setolosi e
brutti da vedersi. “O no!” disse il principe, agitando in aria la bacchetta magica.
“Bisogna che questi baffi scompaiano subito.” E cosa successe? Successe che i baffi del principe restarono al
loro posto. E che dai suoi pantaloni sbucò una lunghissima coda da topastro
grigio, grossa, pelosa e con la punta all’insù. “O no!” disse il principe davanti allo specchio. “Questa orribile
coda deve sparire subito!” A furia di agitare per aria la bacchetta, e pinfete e poff di qua
e pinfete e poff di là, le belle orecchie del principe si trasformarono in due
enormi orecchie grigie, le sue gambe e le sue braccia in tozze zampe pelose, e
il suo viso in un musone dentuto da topastro grigio! Fu così che quando mago Mirtillo torno a casa dal mercato trovò
nella sua camera solo un brutto topastro che piangeva e si disperava. “Cosa ti è successo?” gli chiese. Il topastro gli spiegò tutto e mago Mirtillo disse: “Peggio per te, caro amico. Come vedi chi troppo vuole nulla
stringe!” Poi però, siccome era un mago gentile come una viola ciocca e buono
come una pagnotta appena sfornata, prese la sua bacchetta magica e con un
colpetto ben assestato trasformò di nuovo il topastro in un topolino bianco. “Uff, meno male! Grazie” disse il topolino. E da quel giorno smise
di essere vanitoso e anche di dire che era il topolino più bello del mondo.
Gli
indovinelli del Serpente Avete mai sentito parlare del Serpente dagli Occhi di Fuoco? Aveva spaventevoli occhi che nel buio ardevano come braci e viveva
in una caverna dove custodiva un grande tesoro. “Chi vuole il mio tesoro deve rispondere a un indovinello” diceva.
E se il poveretto non dava la risposta giusta, spalancava la sua grande bocca
e… Gnam! Lo mangiava in un solo boccone. E se il poveretto per caso dava la
risposta giusta, spalancava ugualmente la sua grande bocca e… Gnam! Lo mangiava
lo stesso in un solo boccone. Forse per questo tutti i cavalieri, anche quelli più intrepidi e
valorosi, si tenevano alla larga dalla sua caverna. Un giorno però passò da quelle parti un ragazzino di nome
Ciuffolo, che aveva tanto coraggio e anche un cervello grande così. Prese come
spada un bastone sottile sottile, una scopa per cavallo e… Toc toc toc. “Chi è?” chiese il Serpente dagli Occhi di Fuoco. “Sono un cavaliere e voglio il tuo tesoro!” rispose Ciuffolo. “Vieni avanti, allora!” Quando il Serpente dagli Occhi di Fuoco vide il ragazzo
entrare nella sua caverna, con quel bastone sottile sottile come spada e con
quella scopa per cavallo, quasi si mise a ridere. Perché un cavaliere strano
come quello non l’aveva mai visto. E per di più era così magrolino, tutto ossa
e niente ciccia, che da mangiare ce n’era ben poco. ‘Mmmm…’ pensò. ‘Questo mezzo cavaliere è solo uno stuzzichino.’ Ma
siccome aveva un po’ di appetito e sentiva già l’acquolina in bocca, disse:
“Sei pronto per l’indovinello?” “Certo!” esclamò Ciuffolo. E il Serpente: “Corre corre ma gambe non ha, soffia soffia ma bocca non ha: è in ogni luogo di tutto il mondo, sussurra, grida e impazza giocondo! Chi è?” Ciuffolo sapeva benissimo che la risposta giusta era… il vento! Ma
invece di rispondere scese da cavallo della scopa, si tolse gli stivali e li
mise per terra. “Cosa fai?” chiese incuriosito il Serpente dagli Occhi di Fuoco.
“E perché non rispondi?” “Perché se sbaglio risposta, tu mi mangi. E se invece indovino, mi
mangi lo stesso, non è vero? Così mi sono levato gli stivali, perché ho paura
che potrebbero ferirti alla gola.” “Oh!” disse il serpente, pensando che un cavaliere gentile e bene
educato come quello non l’aveva mai mangiato in vita sua. “Però vorrei esprimere un ultimo desiderio” continuò Ciuffolo.
“Puoi chiudere i tuoi terribili occhi, per favore, prima di fare di me un solo
boccone, in modo che io non mi spaventi troppo, vedendoli così da vicino?” “Va bene!” Ma non appena il Serpente chiuse gli occhi, cosa fece quel
furbacchione di Ciuffolo? Afferrò a due mani la sua lunga coda e gliela infilò
dritta dritta nella bocca spalancata. E proprio in quel momento il Serpente serrò i denti e… Gnam! Fece un
solo boccone della sua coda! E gli piacque così tanto, ma così tanto, quella
coda, che masticò e masticò e continuò a masticare, sino a quando non si
accorse che si stava mangiando da solo! “Oh, povero me!” disse. Ma a quel punto era troppo tardi. Perché di lui era rimasto solo
un mezzo serpente che non faceva più paura a nessuno! Così Ciuffolo ebbe il suo grande tesoro, si comprò un vero
cavallo, una vera spada e visse felice per tutta la vita, mentre quel mezzo
serpente è ancora lì che aspetta che gli ricresca la coda! Il
tortino di ghiaccio Ma il Re dei giganti quel giorno aveva un gran malumore, un
malumore gigantesco, e disse ai suoi servi: “Uffa! Non lo voglio vedere, non fatelo entrare! Ditegli che sono
partito al Polo Nord, per andare a pesca di merluzzi!” Il povero Re degni gnomi ci restò così male, sapendo che il Re dei
giganti quel giorno non era in casa, che decise di raggiungerlo al Polo Nord,
per dargli quel buon tortino di ciliegie. Così salì in groppa al suo asinello e cloppete cloppete arrivò al
Polo Nord, dove incontrò una volpe che batteva i denti per il gran freddo e che
era magra come un’acciughina. “Hai visto per caso passare di qui il Re dei Giganti?” gli chiese
il Re degli gnomi. “No. Nessun Re dei giganti è passato da queste parti” rispose la
volpe. “Ma cos’è questo buon odorino che sento?” “E’ questo tortino di ciliegie” spiegò il Re degni gnomi. “Me ne daresti un pezzettino, anche uno piccolino, per favore,
visto che ho tanta fame?” Il Re degli gnomi si impietosì così tanto, per quella povera volpe
magra e infreddolita, che le diede un pezzetto del tortino. “Che buono! Posso averne un altro? Ho tanta fame, ti prego!” E insisti di qua e insisti di là, alla fine al Re degli gnomi non
restarono che le briciole. “Grazie!” esclamò la volpe. E dopo aver detto una o due paroline
magiche si trasformò in un gran vecchio dalla barba bianca. “Chi sei tu?” gli chiese il Re degli gnomi. “Io sono il Mago del Ghiaccio! E visto che tu mi hai aiutato,
senza sapere chi fossi, ti farò un bel regalo!” e così dicendo mise nelle mani
del Re degli gnomi un tortino fatto solo di ghiaccio e poi scomparve. Il Re degli gnomi tornò a casa, fece una buona cena e poi pensò di
dare un’altra occhiata a quello strano regalo. “Oh! Che meraviglia!” esclamò. E sapete perché? Perché il tortino di ghiaccio si era trasformato in un tortino
d’oro zecchino che splendeva come un pezzetto di sole! Quando il Re dei giganti venne a sapere che fortuna era capitata
al Re degli gnomi, pensò di fare un salto anche lui, al Polo Nord. Cucinò un
tortino di ciliegie, salì a cavallo del suo gigantesco cavallo e cloppete
cloppete arrivò al Polo Nord, dove incontrò un orso spelacchiato, infreddolito
e magro come un’acciughina. "Hai visto per caso passare di qui una volpe?" gli
chiese il Re dei Giganti. "No" rispose l’orso. "Ma cos'è questo buon odorino
che sento?" "E' questo tortino di ciliegie" spiegò il Re dei giganti. "Me ne daresti un pezzettino, anche uno piccolino, per
favore, visto che ho tanta fame?" “Niente affatto, brutto orso!” rispose il Re dei giganti. “Questo
tortino è per il Re del Ghiaccio, che per ringraziarmi mi regalerà un tortino
d’oro! E in quanto alla tua fame, tienitela stretta stretta!” “Tante grazie!” esclamò il vecchio orso. E dopo aver detto una o
due paroline magiche si trasformò in un gran vecchio dalla barba bianca. “Sono io il Mago del Ghiaccio!” disse. “Oh, oh!” disse invece il Re dei giganti. “Mi sa che questa volta
l’ho fatta grossa!” Ma ormai era troppo tardi per chiedere scusa. Perché il Mago del Ghiaccio scomparve e lui dovette rientrare a
casa con un gran malumore, un malumore gigantesco, e neppure un pezzetto di
tortino d’oro!
Il Cavaliere con le trecce
bionde
C’era
una volta una principessa di nome Marianna che voleva diventare cavaliere. Ma
suo padre il Re non ne voleva sapere.
“Non si è mai vista una principessa diventare Cavaliere!”
borbottava. “Soprattutto una principessa con le trecce bionde!” Marianna allora decise di fare così: di giorno avrebbe fatto la
principessa, ma ogni sera, quando tutti erano convinti che riposasse, avrebbe
imparato di nascosto ad andare a cavallo e a usare la spada, come un vero
cavaliere. Fu una vera fortuna! Perché un brutto giorno arrivò nel Regno un
Gigante burlone che aveva il vizio di fare brutti scherzetti. E tra tutti gli
scherzetti quello che preferiva era questo: si levava la testa dal collo, la
posava sul tavolo di cucina, al posto della testa metteva una grossa zucca e
andava in giro a spaventare la gente. “Non possiamo affrontare quel Gigante!” dissero i cavalieri al Re.
“Ci fa troppa paura!” Marianna allora prese la sua spada, montò a cavallo e andò
incontro al Gigante, che dormiva in un prato e aveva posato la testa lì vicino. “Ora ti farò io, un bello scherzetto!” disse. Prima che il gigante potesse accorgersi di qualcosa, prese la sua testa,
la portò in un campo di zucche e aspettò che si svegliasse. “Che succede? Dove sono?” chiese la testa del gigante. E si
spaventò così tanto, quella testa, trovandosi sola soletta in quel campo di
zucche, che se avesse avuto le gambe sarebbe fuggita veloce come il vento, ve
lo dico io! “Guarda un po', una zucca che parla!” disse invece Marianna,
facendo finta di arrivare in quel momento. “Io non sono una zucca!” piagnucolò il gigante. “Ti pare che una
zucca abbia la bocca per parlare? Sono solo… una povera testa!” “Se tu fossi veramente una testa staresti attaccata sul collo di
qualcuno!” obiettò Marianna. “Farò così, ti cucinerò per cena e ti mangerò,
insieme a un cavolfiore.” La testa del gigante per la paura diventò verde proprio come un
cavolfiore. Poi pianse e giurò solennemente che da quel giorno sarebbe rimasta
attaccata al suo collo e non avrebbe mai più spaventato nessuno. Fu così che Marianna riportò la testa dove l’aveva trovata e che
quel burlone di gigante diventò finalmente un gigante con la testa a posto. In
quanto al Re, nominò subito Marianna Primo Cavaliere di Corte. E per quanto
visse non volle vicino a sé nessun altro cavaliere che non avesse un bel paio
di trecce bionde!
Il cavaliere e l‘unicorno C’era una volta un ragazzino di nome Dorindo che da grande voleva
diventare un prode cavaliere ma non sapeva andare a cavallo. E sapete perché? Perché ogni volta che saliva in groppa a un cavallo, anche a uno
piccolo piccolo, la testa gli girava, gli girava e… patapunfete! Faceva un bel
capitombolo per terra! “Beh, pazienza!” sospiravano i suoi genitori. “Se da grande non
potrà fare il prode cavaliere, farà il contadino, o il pescatore, o il
boscaiolo…” Ma Dorindo non voleva affatto diventare un contadino, un pescatore
o un boscaiolo. Così fece un fagotello e partì per il gran mondo, in cerca di
qualcuno che gli insegnasse a cavalcare come si deve. “Buon uomo” chiese a un contadino che incontrò vicino a un campo
di grano, “conosci qualcuno che possa insegnarmi ad andare a cavallo?” “Sì” rispose il contadino. E gli indicò una casetta bianca, dove
viveva il maestro dei cavalli bianchi. Dorindo bussò alla sua porta, toc toc toc, e così e cosà gli
spiegò qual era il suo problema. “Mi dispiace” gli disse il maestro, che era un maestro molto occupato.
“Ma non ho tempo da perdere, con un ragazzino come te!” Così il povero Dorindo riprese la sua strada, sino a quando
incontro un pescatore che pescava in riva al fiume. “Buon uomo” gli chiese Dorindo, “conosci qualcuno che possa
insegnarmi ad andare a cavallo?” “Sì” rispose il pescatore. E gli indicò una casetta nera, dove
viveva il maestro dei cavalli neri. Dorindo bussò alla sua porta, toc toc toc, e così e cosà gli
spiegò qual era il suo problema. “Mi dispiace” gli disse il maestro, che era un maestro un po’
matto. “Ma io insegno ad andare a cavallo solo a chi sa già andare a cavallo!” Dorindo riprese sconsolato il suo cammino, sino a quando, vicino a
un bosco, incontrò un boscaiolo. Anche a lui chiese se conosceva qualcuno che
lo potesse aiutare, e il boscaiolo disse: “Sì, certo” e gli indicò una casetta rossa, dove viveva il maestro
dei cavalli rossi. Ma neanche quel maestro, che era un maestro innamorato, aiutò il
giovane Dorindo. “Mi dispiace” gli disse. “Ma io insegno ad andare a cavallo
solo alla mia innamorata, che ha i capelli rossi ed è bella come il sole!” “Povero me!” si disperò Dorindo, allontanandosi dalla casetta del
maestro dei cavalli rossi. E siccome il sole stava per tramontare decise di
fermarsi a dormire nel bosco. Fece un cuscino con un mucchietto di foglie, e subito si
addormentò. Uno rumore lo svegliò però quasi subito. Chi era che piangeva e si lamentava, nel folto del bosco? Dorindo corse in quella direzione, e cosa vide, in una radura
illuminata dai raggi della luna? Vide un magnifico unicorno dal lungo corno
d’argento, che aveva infilato una zampa in una buca e non riusciva a tirarla
fuori! “Posso aiutarti?” gli chiese Dorindo. L’unicorno non rispose subito. Perché come tutti gli unicorni era
molto timido e aveva paura degli uomini. Ma quando vide che si trattava di un
ragazzino, e per di più di un ragazzino con gli occhi buoni e sinceri, disse: “Sì, ti prego! Da solo non riuscirò mai a liberarmi” Fu così che Dorindo liberò l’unicorno. E l’unicorno, per ringraziarlo,
diventò suo amico e gli insegnò a cavalcare così bene che in poco tempo il
ragazzino diventò il cavallerizzo più bravo del Regno. “Grazie!” gli disse Dorindo, accarezzandolo dolcemente sulla
criniera. “Ora sì che potrò diventare un prode cavaliere.” E siccome i buoni amici non si separano mai, l’unicorno fece da
cavallo al ragazzino per tanti e tanti anni, e Dorindo venne chiamato da tutti
il Magnifico Cavaliere dell’Unicorno.
L’Isola
che non c’è C’era una volta, in mezzo al mare, un’isoletta assai speciale. A volte c’era e a volte non c’era. A volte sì e a volte no. Ma quando c’era era proprio una festa, perché nell’isola vivevano
sette fatine turchine che danzavano intorno a un albero di melagrane, suonando
sette violini e cantando allegre canzoncine che facevano innamorare chi le
ascoltava. Un brutto giorno però arrivò sull’isola un terribile Drago che
aveva tre teste e molto appetito. “Buone queste melagrane” disse alle fatine, assaggiandone una. “Le
mangerò proprio tutte. A voi invece vi terrò prigioniere” e così dicendo le
chiuse tutte e sette in una gabbia. Fortunatamente, proprio quella notte, una vecchia tartaruga che
doveva deporre le sue uova nella sabbia passò per caso lì vicino. E le sette
fatine, tra un singhiozzo e un sospiro, le dissero: “Cara amica, solo tu puoi aiutarci.” “Non mi chiederete mica di affrontare il Drago a Tre Teste?”
chiese un po’ dubbiosa la vecchia tartaruga, che era una tartaruga assai per
bene ma non aveva molto coraggio. “No di certo” risposero le fatine. “Però qualcosa per noi potresti
farla ugualmente: vai a cercare un prode cavaliere che venga in nostro aiuto.” La vecchia tartaruga si tuffò in mare per cercare un prode
cavaliere, e nuota di qua e nuota di là (era un’ottima nuotatrice, per essere
una tartaruga), ne trovò giusto uno a cavallo di una barchetta rovesciata. “Buongiorno” disse la vecchia tartaruga. “Buongiorno” rispose educatamente il prode cavaliere. E dopo aver chiacchierato un po’ di questo e un po’ di quello,
come sempre fanno le vecchie tartarughe e i prodi cavalieri quando s’incontrano
in mezzo al mare, la tartaruga gli spiegò così e cosà quello che era successo e
lo pregò di seguirla. Il prode cavaliere remò dietro la vecchia tartaruga per uno,
due, tre, quattro, cinque, sei, sette mari, e dopo aver visitato un sacco di
isole e isolette (non è mica facile ritrovare un’isola che non c’è, anche per
una tartaruga in gamba come la nostra), poté finalmente sbarcare sull’isola
giusta. Aspettò che scendesse la notte, e quando il Drago a Tre Teste si
addormentò dopo aver mangiato una melagrana, sfoderò la sua spada e provò ad
avvicinarsi. Sapete però come sono fatti questi furbissimi Draghi a Tre teste,
vero? Se con la prima testa dormono, e con la seconda russano, con la terza
tengono gli occhi bene aperti! Così che il Drago, vedendo che qualcuno si
avvicinava, si sollevò in tutta la sua altezza, facendo fuoco e fiamme dal naso
e dalle orecchie, e il cavaliere si prese un bello spavento! Fortunatamente a salvarlo ci pensò la vecchia tartaruga. Che con
un po’ di coraggio prese la rincorsa e fece lo sgambetto al Drago. A quel punto al prode cavaliere non restò che afferrare una
lunghissima corda, legare il Drago come un salame e chiuderlo nella gabbia al
posto delle fatine. “Ci hai salvato, nostro eroe!” dissero le fatine al prode
cavaliere. E per ringraziarlo danzarono tutta la notte intorno all’albero di
melagrane, pizzicando le corde dei violini e cantando allegre canzoncine, così
che lui si innamorò di tutte e sette e non lasciò mai più l’isola. La vecchia tartaruga invece, visto che si era stancata di nuotare,
salì a cavallo della barchetta rovesciata e con quella se ne andò a zonzo per i
sette mari, alla ricerca di un’isola più tranquilla dove deporre le uova.
Tipo Topo e il mago
Mangiacipolle
Un giorno montò sul suo cavallo, che era anch’esso piccolo piccolo,
e galoppò sino a un Castello dove tutti erano tristi e si lamentavano. “Cosa vi è successo?” chiese loro Tipo Topo. Il Re del Castello lo fece salire sul palmo della sua mano e gli
disse: “Devi sapere che qualche mese fa è arrivato nel mio regno un… un…”. Ma non riuscì a continuare e cominciò a piangere. “E’ forse arrivato un terribile Drago da Battaglia?” gli chiese
allora Tipo Topo. “O uno spaventoso Serpente Sputafiamme e Mangiabambini?” “Ahimè, molto peggio” disse il Re, “E’ arrivato mago
Mangiacipolle!” E così dicendo gli spiegò che questo mago non era poi un cattivo
mago. Ma aveva un difetto. Gli piacevano così tanto le cipolle che ovunque si
fermasse, con la sua bacchetta magica, trasformava in cipolle tutto ciò che gli
capitava a tiro: le pere sui peri, le mele sui meli, le uova nei panieri,
l’uva, le noci, il pane caldo e persino le torte alla panna! “Povero me!” disse il povero Re. “Non ne posso più di mangiare
cipolle a colazione, a pranzo e a cena!” Tipo Topo si commosse così tanto per le lacrime del Re, che quando
scese la notte montò a cavallo e si diresse verso la casa del mago. Toc, toc, toc. “Chi è che bussa alla mia porta?” chiese mago Mangiacipolle. Ma quando aprì la porta non vide nessuno. Neppure quel minuscolo
cavaliere che saettò veloce sotto le sue gambe e raggiunse di corsa la cucina. Qui Tipo Topo rovesciò la cipolla più rossa e più grossa che
riuscì a trovare, la scavò con la sua spada che era piccola ma affilatissima, e
ci si nascose dentro. “Mmmm, che appetito…” disse il mago, quando venne l’ora di cena.
“Ho proprio voglia di sgranocchiare una cipolla rossa e grossa.” Ora dovete sapere che non è così facile sgranocchiare una cipolla
rossa e grossa, se dentro si è nascosto un cavaliere piccolo ma furbo come Tipo
Topo. E infatti non appena mago Mangiacipolle allungò la mano per
prenderla, sentì una voce che gli diceva: “Ehi! Non avrai mica intenzione di mangiarmi, vero?” “Chi ha parlato?” chiese il mago. “Io, la cipolla!” “Una cipolla che parla?” si stupì il mago. “Solo se qualcuno vuole mangiarmi. Non ti aspetterai che stia
zitta mentre tu mi sgranocchi in un solo boccone, vero?” “Oh, ah!” disse il mago, che si era preso un bello spavento. Si
allontanò dalla cucina, chiamò la cameriera e le disse: “Non mi sento molto bene, credo che andrò a letto senza cenare. Tu
però portami in camera la cipolla più grossa che trovi in magazzino, la mangerò
domattina presto, appena mi sveglierò.” La cameriera obbedì e poco dopo un’altra cipolla rossa e grossa
venne portata su un vassoio d’argento nella camera del mago. Ma chi c’era, nascosto dentro la cipolla? Cavalier Tipo Topo naturalmente! Che a mezzanotte in punto,
cominciò a piangere e a lamentarsi. “Chi è che piange in piena notte?” chiese mago Mangiacipolle,
accendendo la luce e stropicciandosi gli occhi. “Io, la cipolla” “Una cipolla che piange?” si stupì mago Mangiacipolle. “Solo se qualcuno vuole mangiarmi” rispose la cipolla. “Non ti
aspetterai che io non pianga, sapendo che domattina mi mangerai in un solo
boccone, vero?” “Oh, ah!” disse il mago, che si era preso un bello spavento.
Spense la luce, si rigirò nel letto e provò a riaddormentarsi. Ma non ci riuscì
affatto. Perché la cipolla, per tutta la notte, non smise un attimo di piangere
e di lamentarsi. “Oh, povero me!” disse mago Mangiacipolle, alzandosi la mattina
dopo con la testa che gli faceva male, ma soprattutto con lo stomaco vuoto che
brontolava. Così andò subito nell’orto per raccogliere una cipolla fresca
fresca che non facesse tante storie, se qualcuno voleva mangiarla. Scelse quella più grossa e la portò alla bocca. E in quel momento
Tipo Topo, che si era nascosto ancora una volta dentro la cipolla, sfoderò la
sua piccola spada e con un colpo ben assestato punse la lingua di mago
Mangiacipolle. “Ohi, ahi!” si lamentò il mago, saltellando per tutto l’orto su
una gamba sola. “Da oggi” giurò solennemente, “non mangerò mai più una
cipolla!” E così dicendo prese la sua bacchetta magica e fece sì che tutte le
pere del regno tornassero sui peri, le mele sui meli, le uova nei panieri e che
anche tutto il resto tornasse buono e saporito com’era prima. Solo quel punto Cavalier Tipo Topo uscì dalla cipolla e senza
farsi vedere trottò verso il castello del Re, per dargli la buona notizia. Il
Re per ringraziarlo organizzò per lui una grande festa. Ma prima lo supplicò di
fare un bel bagno. Perché il piccolo cavaliere, a forza di star chiuso dentro
le cipolle, profumava anche lui come una… cipolla!
La
mano del principino C’era una volta un principino che aveva una mano buona e una mano
cattiva. La mano buona faceva solo cose per bene, come dare carezze, schioccare
le dita e grattarsi la testa. Ma quella cattiva! Oh, quella ne combinava di
cotte, di crude e di tutti i colori! “Chi ha rubato la marmellata?” chiedeva la Regina. “Io no!” rispondeva il principino. “E’ stata lei, la mia mano
cattiva!” “Chi ha rotto il vaso di gerani?” chiedeva il giardiniere. “Io no!” rispondeva il principino. “E’ stata lei, la mia mano
cattiva!” “Chi ha fatto piangere la sorellina principessa?” chiedeva il Re. “Uffa! Non sono stato io!” rispondeva il principino. “E’ stata
quella cattivaccia della mia mano cattiva, che le ha dato un pizzicotto!” Il Re e la Regina erano così preoccupati, per quella mano cattiva
del principino, che chiamarono a corte cento cavalieri. “Andate per il Regno!” dissero loro. “E non tornate sino a quando
non trovate una nuova mano per il principino, una mano gentile e bene educata,
per favore!” I cavalieri partirono al galoppo, ma nessuno di essi di essi trovò
ciò che cercava. Il Re la Regina chiamarono allora cento maghi e tre fate turchine. “Andate per il Regno!” dissero loro. “E non tornate
sino a quando non trovate una mano gentile e bene educata!” I maghi e le fate partirono di gran fretta, chi a cavallo di un
tappeto volante chi di un’oca bene addestrata, ma neanche loro trovarono ciò
che stavano cercando. “Poveri noi!” dissero così il Re e la Regina, mentre quella mano
cattiva continuava a combinarne di cotte, di crude e di tutti colori. “Cosa
possiamo fare adesso?” Fortunatamente, proprio quel giorno, passò da quelle parti un
contadino saggio, che quando seppe cosa stava succedendo diede al Re un buon
consiglio. E il Re chiamò subito il principino e gli ordinò di tenere quella
mano cattiva in tasca, sino a quando non si fosse decisa a diventare buona. Sapete cosa successe? Successe che quella mano cattiva si annoiò così tanto, a starsene
sempre in tasca, sempre sola soletta e senza niente da fare, che nel giro di
pochi giorni diventò la mano più gentile e bene educata del Regno. “Uff! Meno male!” sospirarono di sollievo il Re e la Regina. E per festeggiare fecero una gran festa e ballarono e si
divertirono e mangiarono tanti dolcetti sino a quando sorse il sole.
Il
Drago e Carolina C’era una volta un drago di nome Alfio che in pieno inverno andò
al fiume, per pescare un po’ di trote. Ma per sbaglio mise una zampa su una
pietra scivolosa e… ciaff! Fece un bel tuffo nell’acqua gelata. “Brrr… Etcìù! Etciù!” disse rientrando a casa. E siccome era un
drago sputafiamme, ogni volta che starnutiva sputava un allegro focherello. “Oh, no!” disse sua moglie la draghessa. “Le mie povere tende! I
miei tappeti! I miei cuscini!” Il drago Alfio, a furia di starnutire, stava dando fuoco a tutta
la casa. “Etciù! Etciù!” disse così, tentando di scusarsi. “Oh no! I miei poveri quadri! Le mie poltroncine! Il mio
tavolinetto cinese!” andò su tutte le furie la draghessa. E siccome era una
draghessa assai bisbetica e dispettosa, senza pensarci due volte e neppure una,
lo cacciò via da casa. “Vai via, brutto drago sputafiamme!” gli disse. “Non voglio più
vedervi, tu e il tuo raffreddore!” Fu così che il povero Alfio si ritrovò a camminare solo soletto
in mezzo alla neve. “Brrr… Che freddo! Etciù! E ora che faccio?” si domandò ad alta
voce. “Brrr… Che freddo! Etciù! E ora che faccio?” risuonò una vocina
esile esile, che veniva da dentro una caverna. Alfio entrò nella caverna e chi trovò? Una povera bambina, che tentava di accendere un fuoco con degli
zolfanelli bagnati. “Chi sei tu?” le domandò Alfio. “Mi chiamo Carolina e ho pescato una trota nel fiume” gli disse
la bambina. “Ma poi sono scivolata nell’acqua e ho bagnato gli zolfanelli!
Brrr… Etciù! E come vedi mi sono anche presa un brutto raffreddore!” “A chi lo dici! E’ capitato lo stesso anche a me!”
sospirò Alfio. “Hai per caso uno zolfanello asciutto per accendere il fuoco?”
gli chiese allora la bambina. “Ho qualcosa di meglio di uno zolfanello!” disse il drago Alfio. E con un piccolo starnuto ben assestato diede fuoco alla legna
che Carolina aveva ammucchiato in fondo alla caverna. Poi cucinò la trota e la
divise a metà con la bambina. Quando scese la notte Alfio fece dormire Carolina al calduccio,
sotto una delle sue ali, e non starnutì neppure una volta. Poi, quando venne
giorno, la fece salire sulla sua groppa e volò sino a un’isoletta lontana
lontana, dove il sole splendeva sempre e la neve non cadeva mai. Da quel giorno Alfio e Carolina non ebbero mai più un
raffreddore. E vissero insieme felici e contenti, facendo lunghe passeggiate in
riva al mare. L’orchetto
e la principessa C’era una volta un bruttissimo orco che si chiamava Lulù e viveva
in una caverna. Bhe, a dire la verità non era proprio un bruttissimo orco.
Piuttosto un orchetto giovane giovane, bello come il sole e delicato come un
fiore di bosco. E non viveva affatto in una caverna: viveva in una casetta
azzurra sopra un prato verde. “Quando ti deciderai a diventare un orco come si deve?” gli
dicevano gli altri orchi. “Vieni con noi! Ti insegneremo ad andare a caccia di
lepri, conigli, porcospini e cerbiatti!” Lulù però non ne voleva sapere, di dare la caccia a quei poveri
animali. Perciò gli altri orchi, per punirlo, chiesero aiuto a una strega
cattiva, che fece un incantesimo e trasformò il povero Lulù in un furetto. Dopo
di che gli orchi lo costrinsero a diventare loro servo. “Spolvera, spazza, lava, ramazza!” gli dicevano, prima di andare a
caccia. Così il povero Lulù doveva correre avanti e indietro, per
spolverare, spazzare, lavare e ramazzare, mentre quei brutti orcacci davano
tutto il giorno la caccia agli animali del bosco. Una sera però gli orchi tornarono a casa non con una lepre o un
coniglio, con un porcospino o un cerbiatto, ma con una giovane principessa. Che
venne legata come un salame e appesa in dispensa, pronta per essere cucinata il
giorno dopo. “Mmmm…” si leccò i baffi uno degli orchi. “Credo che potremmo
farla bollita con le patate e il rosmarino”. “Sì!” disse un altro orco. “Lulù…” e si rivolse al furetto,
“domattina, appena noi usciremo di casa, riempi il pentolone e mettilo sul
fuoco.” Il furetto rispose che l’avrebbe fatto. Ma quando gli orchi quella
notte si addormentarono, si avvicinò alla principessa e le disse: “Se tu mi dai un bacio, io ti libererò.” “Grazie!” rispose la principessa. E siccome Lulù era un furetto
molto carino, non la disturbò affatto dargli un bel bacio con lo schiocco. Proprio in quel momento l’incantesimo si ruppe e Lulù si trasformò
di nuovo in orchetto. Poi, con l’aiuto della principessa, legò tutti gli orchi
come salami e li mise dentro il pentolone. “Domani” disse loro, “vi bollirò per benino.” Ma Lulù naturalmente scherzava. E poi aveva altro da fare.
Accompagnò la principessa al suo castello e chiese la sua mano al Re. Da quel
giorno la principessa e l’orchetto vissero innamorati, felici e contenti. E di
quei brutti orcacci nessuno ne sentì mai più parlare. |