ap3gcf

Lunario dei Giorni di Memoria


Ventottesima settimana

rukelicbv

A rivederci in cielo. La storia di Angela Reinhardt

Michail Krausnick - Upre Roma

(...)

Alcuni giorni dopo c’era di nuovo una Mercedes nel cortile, veniva da Stoccarda. Ne scesero due uomini con lunghi soprabiti di pelle nera. Angela e le sue amiche erano sedute a tavola e giocavano a «Mensch ärgere dich nicht!» quando entrò suor Eusebia dicendo: «Tutti quelli che si chiamano Reinhardt, Pfaus, Kurz, Georges, Mai, Köhler, Eckstein subito fuori, mettetevi in fila giù nel corridoio». Tutti i bambini uscirono, anche Angela. Poiché suo padre si chiamava Franz Reinhardt anche lei si mise in fila. «Farete tutti una bella gita», annunciò suor Eusebia. «Dal momento che viaggerete con l’autobus e con il treno, ognuno ha bisogno di una tessera con la foto e l’impronta del dito». Gli uomini si erano seduti nel laboratorio e prendevano l’impronta dell’indice destro su un modulo prestampato, secondo le prescrizioni dell’Ufficio centrale della sicurezza del Reich. «Come dalla polizia criminale, come un gangster!». Il primo ragazzo che uscì dal laboratorio mostrò orgoglioso il suo dito nero. Quando suor Agneta scoprì Angela in fila con gli altri bambini, la tirò fuori dalla fila. «Anscha, tu non c’entri. Tu ti chiami Schwarz. Tienlo a mente, una volta per tutte!». Quando gli uomini ebbero finito - erano davvero della polizia criminale di Stoccarda – se ne andarono e dopo un po’ i bambini se ne erano dimenticati. Però si parlava sempre più spesso della grande gita. Dove si sarebbe fatta? In montagna? Al lago di Costanza? A un castello del re? Angela non voleva semplicemente credere che le suore non volevano far partecipare proprio lei. Perché? Aveva forse rotto qualcosa?

La maggior parte dei bambini non aveva mai viaggiato in treno. Angela doveva raccontare ai piccoli nei minimi dettagli il suo viaggio in treno con la madre. Come sono i sedili, se ci sono delle vere toilette, a che velocità va, se i finestrini sono aperti anche durante il viaggio, come è fatto un biglietto e dove il controllore fa il buco. Nelle pause i bambini giocavano nel cortile al macchinista, al fuochista, al controllore e al capostazione e le ragazze erano i viaggiatori e dovevano sempre mostrare i loro biglietti. E cantavano: «Auf der schwäb’sche Eisebahne Gibt es viele Haltstatione…». La gioia dell’attesa era grande.

Settimane più tardi, era intanto arrivata la primavera e nel cortile non si respirava più la puzza del letame delle stalle ma il profumo dei lillà, una sera arrivò il parroco Boldt e ordinò a tutti i bambini che avevano lasciato le impronte digitali di venire con lui nella cappella. Con i vestiti della domenica e le calze bianche. Era tutto molto misterioso. Ancora una volta Angela non poteva partecipare, ciononostante andò dietro ai bambini. Doveva attraversare la sala e salire le scale perché la cappella era al primo piano dell’istituto. Le piaceva stare lì. Vicino all’altare c’era una Madonna vestita di blu e oro e con la corona e gli ornamenti di una regina. Ma soprattutto questa Maria aveva un volto così bello da innamorarsi. Angela la pregava di nascosto quando aveva nostalgia del suo Dada e della sua Mama.

Angela era una bambina curiosa. Lo dicevano tutti. «Forse un giorno divento un detective e risolvo tutti i crimini», aveva detto una volta alla sua amica Maria.

Si nascose tra i banchi dell’ultima fila e vide qualcosa di molto strano: vide il signor parroco dare la santa comunione a tutti i bambini. Anche ai più piccoli che non avevano ancora fatto la prima comunione. Le suore della misericordia pregavano e cantavano. Una suonava l’organo. Angela non capiva più niente. Uno o due mesi prima lei stessa stava, vestita di bianco come una sposa, di fianco alla santa vergine. La sua grande giornata, attesa con ansia da anni. E oggi, tutto a un tratto, toccava a tutti, senza catechismo, persino per i più piccoli. Cosa voleva dire? Questo non era giusto, non era neanche corretto. Quando i bambini uscirono dalla cappella, Elisabeth, che aveva otto anni, era illuminata di gioia e saltellava sulle piastrelle. Una bambina più grande, una delle Köhler, aveva gli occhi rossi di pianto. «Cosa succede? », domandò Angela. «Come mai i piccoli ricevono i santi sacramenti?». «Comunione di emergenza. Nel caso succedesse una disgrazia…». «Basta voi, via, separatevi!», sibilò la madre superiora. Aveva male all’anca, zoppicò fino a loro e spinse via Angela. «Tu non c’entri!».

La sera seguente, poco prima di andare a letto, suor Eusebia disse: «Tutti quelli che vanno alla gita domattina devono alzarsi molto presto. Bene, e adesso recitiamo tutti insieme le preghiere della sera». Angela credeva ancora alla gita e pensava piena di  rancore: «Perché solo io, perché proprio io non ci posso andare?». All’alba del 9 Maggio del 1944 i bambini si dovettero  alzare molto presto. Era uno splendido giorno di primavera. I prati erano coperti di rugiada e sui pendii delle colline fiorivano gli alberi da frutto. In realtà quel giorno ci sarebbe dovuta essere una grande festa, poiché era una data particolare: l’onomastico della madre superiora. La signorina Hägele aveva fatto imparare a memoria ai suoi alunni poesie e canzoni per l’occasione. An- che Angela ne aveva imparata una. Ora tutto ciò non era più importante.

Angela aiutò di malumore le bambine più piccole a farsi le trecce, a pettinarsi e a vestirsi. C’era una strana atmosfera. Tutti erano eccitati e nervosi. Questa volta c’erano cose speciali per colazione. Non più l’orribile zuppa di pane ma pane fresco e croccante, margarina e marmellata di fragole e un caldo deliziosamente profumato Linde-Kaffee. Suor Roswitha si aggirava con una bottiglia di «Goldwasser di Mulfingen», come veniva chiamato l’olio di fegato di merluzzo che dovevano prendere sempre per irrobustirsi. L’olio aveva un gusto orrendo e inghiottirlo era una tortura. Tutti dovevano prenderne un cucchiaio. C’era chi stava così male per l’odore di pesce che doveva scappar fuori. Quando suor Roswitha arrivò da lei Angela disse, caparbia, cercando di respingere il cucchiaio: «No grazie, io non c’entro!». Ma la suora le disse, ficcandole in bocca il cucchiaio: «Sei proprio tu quella che ha bisogno di irrobustirsi, bambina mia!». Un’altra suora passava di tavolo in tavolo e consegnava a ciascuno i suoi piccoli risparmi ritirati dalla Cassa di risparmio di Künzelsau: un paio di marchi, Groschen e Pfennige, frutto del proprio lavoro o regalati dai genitori. E qualche volta anche uno dei premi in moneta messi in palio dalla ricercatrice sulla razza.

«Per cosa?», chiese Andreas. «A cosa mi servono cinque marchi e trentadue? È per il biglietto?». «Perché vi possiate comprare qualcosa durante il viaggio, un minestra, un po’ di pane. Ogni bambino firmi qui che ha ricevuto i suoi soldi». «Perché?». «Perché ogni cosa ha il suo ordine».

Poi scesero nella grande sala d’ingresso, dove si dovettero mettere in fila per due. Le suore controllarono ancora una volta che fossero tutti in ordine ripassando la scriminatura dei ragazzi. «Non dovete mica sembrare degli zingari!». Angela sperava sempre ancora nel miracolo di poter partecipare e fece un ultimo tentativo. Si mise semplicemente in fila accanto alla sua amica Maria. Ma anche questa volta suor Agneta la scoprì e la tirò fuori dalla fila. «Via! Via! Tu non c’entri!». «Invece sì! Voglio andare anch’io!», protestò scuotendo la testa. E allora si prese una sonora sberla. Proprio dalla sua suora preferita, alla cui tonaca si aggrappava quando aveva paura e che le aveva asciugato le lacrime quando era andata a sbattere contro un muro con la slitta. «Fila, in camerata, sotto le coperte e chiudi gli occhi!». Suor Agneta era improvvisamente diventata paonazza. Angela salì le scale lentamente, molto lentamente. Era proprio furibonda. Furibonda e triste. La sberla bruciava e benché non vedesse nulla attraverso le lacrime, sentiva che tutti guardavano lei, quella che non c’entrava.

E una delle più piccole le gridò dietro «Noi andiamo in gita e tu no!».

(...)




















rotusitala@gmail.com