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Lunario dei Giorni di Memoria


Trentottesima settimana

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Noi, bambine ad Auschwitz

Andra e Tatiana Bucci

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Un giorno, la blockova della baracca delle donne, quella in apparenza più umana con noi due, ci annunciò che l’indomani ci avrebbero radunati tutti, noi bambini, e ci avrebbero chiesto se volevamo rivedere le nostre mamme. I tedeschi volevano dieci maschi e dieci femmine da portare via. Noi non avremmo dovuto farci avanti, ci disse, per nessuna ragione; dovevamo rifiutare l’offerta. Ma non aggiunse alcuna spiegazione. Le assicurammo che avremmo ubbidito, forse anche perché la mamma stessa ci aveva detto che non sarebbe più venuta a trovarci e noi già la credevamo morta. Ovviamente, riferimmo le sue parole a Sergio. Gli dicemmo cosa sarebbe accaduto e di non farsi avanti neppure lui, per nessun motivo. Il giorno dopo, in effetti, ci radunarono tutti fuori dalla baracca. Era la fine di novembre, mancava poco al compleanno di nostro cugino. Arrivò un uomo; questa volta non portava il camice bianco, ma una normale divisa. Non sappiamo dire chi fosse. Forse un ufficiale del campo o lo stesso dottor Heissmeyer, un ufficiale medico nazista noto per praticare la sperimentazione su cavie umane. Ci fece la domanda che aspettavamo: «Chi di voi vuole andare a trovare la mamma?». Noi due rimanemmo immobili come statue. Sergio invece si fece avanti. Tati ricorda che avanzò di un passo fuori della fila, Andra che alzò la mano. Forse entrambe le cose, non è importante saperlo. Quello che conta è che a nulla erano valsi i nostri avvertimenti. La sua voglia di rivedere la mamma era troppo forte. Come dargli torto, del resto. Con quel crudele tranello i nazisti dimostrarono non solo la loro cattiveria, ma anche tutta la loro perfidia e astuzia. Per Sergio il richiamo della mamma era irresistibile. In fondo noi eravamo in due, fin da piccole eravamo abituate a stare insieme. Sergio no, all’epoca era figlio unico: solo dopo la guerra gli zii ebbero un altro bambino, nostro cugino Mario. Per lui la mamma era davvero tutto; probabilmente ne pativa l’assenza più di noi. Subito dopo, le SS radunarono i venti bambini così perfidamente selezionati e li portarono verso la «rampa»: erano felici, non piangevano e non si lamentavano, perché pensavano di andare a rivedere la mamma. Li salutammo con le manine alzate, li vedemmo partire. Questo lo ricordiamo bene: tutti e venti che salgono su un vagone, che ci guardano da dietro una sbarra. A pensarci oggi, fu un inganno atroce. Venti piccoli angeli portati via illudendoli che avrebbero rivisto la mamma. Dentro di noi sapevamo che non ci saremmo più incontrati; ovviamente non ne avevamo la certezza. Era una sensazione, forse dovuta al forte legame che avevamo con Sergio, forse all’ambiente in cui stavamo, nel quale, se una persona veniva portata via, poi non tornava più. Ricordiamo anche che da quel momento la nostra baracca fu certamente più vuota, perché non arrivarono quasi più bambini, come non arrivarono più trasporti ad Auschwitz. È stata quella l’ultima volta che abbiamo visto Sergio.

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