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Lunario dei Giorni di Memoria


Quarantaduesima settimana

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Viaggio verso il sereno

Vanna Cercenà

 

Viaggio verso il sereno

Vanna Cercenà

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Non lo avevano ancora visto: sapevano solo che era un battello fluviale, di quelli che solcavano continuamente in su e in giù il fiume, con le grosse ruote a pale che ritmavano il cammino con un suono caratteristico. Il suo nome, Stefano, era stato cambiato affettuosamente in Pentcho, un'espressione dialettale che significa bulgaro. La nave, infatti, era registrata sotto bandiera bulgara. Praticamente fino al giorno prima il Pentcho era stato in un cantiere per essere riadattato a trasportare circa duecento persone, al posto delle merci a cui era originariamente destinato. A tutto avevano pensato Alexander e Zoltan, i due giovani in cui era nata l'idea di raggiungere la Palestina, la terra promessa, con un gruppo di coetanei entusiasti e pieni di fiducia e di speranza nell'impresa. A loro si erano aggiunte molte famiglie che avevano intuito cosa si sarebbe scatenato ben presto contro gli ebrei in Europa, che era stata travolta dalla trionfale marcia di Hitler. Piano piano il numero dei passeggeri era quasi raddoppiato. Con l'aumento delle quote era stato possibile risistemare il battello assai malandato e tenere da parte il necessario per l'acquisto di provviste e carburante.

  Quando la gente giunse al porto, i cancelli non erano ancora stati aperti. Le autorità avevano trovato nuovi ostacoli per autorizzare la partenza e ora, in silenzio sotto la pioggia, stavano accalcate agli sbarramenti quattrocento persone fra cui anche alcuni bambini. Arrampicati su cassette, cordami, recinzioni, i tre amici cercavano di vedere, oltre la folla, il battello su cui avevano tanto fantasticato. Karol udì Mamouka esclamare: «Madre mia!» e subito si allarmò. Era la sua espressione preferita, quando qualcosa la contrariava fortemente. «Quella specie di zattera con le ruote e col fumaiolo rugginoso è il Pentcho? Dov'è Alexander, che vado a dirgliene quattro?». «Non si è ancora visto» la informò Julia, la mamma di Bruno. «Deve essere in giro a farsi dare gli ultimi permessi».

  Finalmente alle quattro del pomeriggio i cancelli furono aperti. La folla si accalcò lungo le transenne che portavano agli uffici della dogana dove i poliziotti fecero un controllo minuzioso che durò ore e ore. Tutti erano in possesso di un visto per il Paraguay ottenuto         corrompendo        un funzionario di quel consolato, perché non era consentito recarsi liberamente in Palestina per via di     accordi internazionali con gli inglesi che avevano un mandato su quella terra. Ad attenderli in cima alla scaletta c'erano Alexander con la sua aria sempre severa sotto i folti capelli rossi spettinati e Rosa, la fidanzata, che aveva in mano l'elenco dei passeggeri. Poldi, con grande invidia di Karol, Bruno e Moses, stava in piedi accanto a lei e ripeteva ad alta voce i nomi mormorati via via dalle persone, in modo che la sorella potesse spuntarli dal taccuino. «Ciao ragazzi!» li salutò l'amico allegramente. «Ci vediamo dopo nella galera». Heidi, che era sempre rimasta attaccata a Moses, cominciò a piagnucolare: «Io non voglio andare in galera!». «Non date retta a Poldi» intervenne Rosa, allungando uno scappellotto al fratello. «Gli amici di Alexander hanno chiamato così il dormitorio degli uomini, perché in effetti assomiglia alle galere dove i romani tenevano gli schiavi... Ma non vi preoccupate; non dovrete remare!».

Quando finalmente furono tutti ammassati a bordo, lo smarrimento li pervase. Alexander riuscì a ottenere un po' di silenzio. Malgrado avesse poco più di venti anni,. era l'ideatore della spedizione e ne era riconosciuto il capo indiscusso. «Ascoltatemi!»  gridò   in   yiddish,   la lingua ebraica che comprendevano tutti. «Dato che il numero di persone che vogliono fare questo viaggio è molto aumentato rispetto al nostro primo gruppo, non è stato possibile ricavare le cabine. Abbiamo dovuto dividere la stiva in due parti: una sopra per le donne e i bambini, e una sotto per gli uomini e i ragazzi. Lo spazio è ristretto: dove avevamo previsto di dormire in due, ora staremo in tre. Come già sapete non ci sono materassi ma solo assi di legno. Attrezzatevi come meglio potete per dormire un po' più comodi. Ci sono domande?». «Perché avete chiamato galera il dormitorio?» chiese inquieta Helene. «Ma via, è uno scherzo... » minimizzò Alexànder. «In effetti non sarà molto piacevole dormire in tanti laggiù, ma vi avevo avvertito: il viaggio non sarà una passeggiata. Pensando alla meta che ci aspetta, possiamo sopportare per un mese un po' di disagio!». «Credi davvero che basti un mese?» domandò Martin, poco convinto. Cominciava a pentirsi di aver aderito un po' alla cieca al progetto, spinto sia dall'istinto di fuga che dal miraggio della Palestina.  «Così almeno assicura il capitano che ha molta esperienza; era un bravo ufficiale della marina russa» rispose sicuro Alexander. Al suo fianco si materializzò una figura spettrale, dallo sguardo allucinato. Nel volto pallido spiccava un grande naso aquilino. L'uniforme gli pendeva da tutte le parti; si vedeva che aveva avuto tempi migliori.

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