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Lunario dei Giorni di Memoria


Quarantaquattresima settimana

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Il commerciante di bottoni
Erika Silvestri

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Mi avvicino a Piero e gli stringo il braccio. Siamo a Birkenau, il pullman ci ha lasciati vicino alla Judenrampe, appena fuori dal campo. Sui binari c’è un grosso vagone merci che anni fa trasportava ebrei dai ghetti dell’Est. Oggi è qui, così che i visitatori possano dare forma e colore alle fotografie grigie dei libri. I miei occhi si perdono lungo le linee curve delle ruote, salgono sulle tavole di legno, misurano la distanza dal terreno. Piero tiene la mia mano, mi tira un poco, ci separiamo dal gruppo. «Eccoci qua» mi dice, mentre abbozzo un sorriso vago. Mi guardo intorno. «Laggiù c’erano dei magazzini di patate, ci lavorai con Sami.» Indica delle costruzioni in lontananza, le osservo silenziosa. «È qui che sei sceso?» chiedo io, per sapere se sto camminando sul terreno straniero che calpestò per primo. «Io no. Il convoglio col quale arrivai fu uno dei primi a entrare direttamente nel lager, non venne aperto qui sulla Judenrampe ma dentro, lungo la banchina chiamata Bahnrampe. Te la mostrerò quando entreremo.» Torniamo a nasconderci tra le altre persone finché Piero non inizia a raccontare. È qui per questo, lo fa con grandissima dignità. Il suo viaggio prende forma mentre i ragazzi lo ascoltano seri. Poi, in colonna, iniziamo a camminare verso l’entrata. Rimango in fondo, non ho voglia di accelerare il passo. L’aria è calda, nemmeno una nuvola a coprire il cielo. Ai lati della stradina, case dalle sembianze di fattorie. A poche centinaia di metri da quello che rimane di un campo di sterminio tre uomini cambiano le ruote di un’auto, parcheggiata nel giardino della loro casetta polacca vista lager, con i fiorellini alle finestre. Assurdo. Voglio vedere che faccia hanno, mi volto insistentemente verso di loro che continuano a lavorare in tranquillità, per nulla disturbati dalla colonna di persone rumorose sparpagliate sulla strada. Del resto perché non dovrebbero starsene lì tranquilli? “Questa gente vive qui” penso, tentando di trovare un motivo, uno soltanto, per non tornare indietro e chiedere come diavolo fanno. “L’italiano” mi dico. “Non capirebbero quello che vuoi dirgli.” Il pensiero mi permette di continuare a camminare. Piero mi raggiunge, prende la mia mano con forza. «Non mi abbandonare» mi dice, lo sguardo fisso in avanti. Mi ero persa nei miei pensieri e l’avevo lasciato indietro. Lo guardo sorridendo e gli dico che non lo abbandono, che sono lì con lui proprio per quello. Arriviamo davanti al cancello centrale, stavolta niente vento che entra nei vestiti. Il sole copre spavaldamente ogni cosa. Quando venni per la prima volta, conobbi il freddo come non l’avevo mai conosciuto. I ragazzi del gruppo cominciano a entrare, io e Piero li seguiamo, mano nella mano. La kippah bianca orlata del bordino color oro gli copre la testa. Sa che è di nuovo il suo momento, si fa avanti e tossisce un poco prima di parlare. «Il pomeriggio del 23 maggio del ’44 il treno entrò qui a Birkenau. Noi eravamo aggrappati alle feritoie del vagone per vedere dove stavamo andando. Il treno si fermò su questo binario.»

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