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Lunario dei Giorni di Memoria


Quarantanovesima settimana

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Un sacchetto di biglie

Joseph Joffo

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 Lo ascoltavamo, Maurice e io come non avevamo mai ascoltato nessuno. «Molte sere» incominciò, «da che avete l’età di capire le cose, vi ho raccontato delle storie, storie vere nelle quali avevano una parte membri della vostra famiglia. Mi accorgo oggi che non vi ho mai parlato di me.» Sorrise e continuò: «Non è una storia molto interessante e non vi avrebbe appassionato per molte sere, ma ve ne dirò l’essenziale. Quando ero piccolo, molto più piccolo di voi, vivevo in Russia e in Russia c’era un capo onnipotente chiamato zar. Questo zar era come i tedeschi oggi, gli piaceva fare la guerra e aveva immaginato questa cosa: mandava degli emissari...». Si fermò aggrottando la fronte. «Sapete cosa sono degli emissari?» Feci di sì con la testa anche se non ne avevo la minima idea; sapevo comunque che dovevano essere qualcosa di non molto piacevole. «Mandava dunque degli emissari nei villaggi e là raccoglievano dei ragazzini come me e li portavano nei campi dove diventavano dei soldati. Gli davano un’uniforme, gli insegnavano a marciare al passo, a obbedire agli ordini senza discussione e anche a uccidere i nemici. Allora, quando ho avuto l’età per partire e quegli emissari stavano per venire al nostro villaggio per portarmi via con dei compagni piccoli quanto me, mio padre mi ha parlato come...» La sua voce si arrochi e continuò: «Come faccio io a mia volta, questa sera». Fuori la notte era scesa quasi del tutto e lo distinguevo appena sul fondo della finestra ma nessuno di noi tre fece un gesto per illuminare la stanza. «Mi ha chiamato nella stanzetta della fattoria dove gli piaceva chiudersi per riflettere e mi ha detto: “Ragazzo, vuoi diventare soldato dello zar?”. Io ho detto di no. Sapevo che sarei stato maltrattato non volevo fare il soldato. Si crede spesso che tutti i ragazzi sognino di fare i militari, be’, vedete che non è vero. A ogni modo, non era il caso mio. «“Allora” mi ha detto, “non hai molta scelta. Sei un ometto, te ne andrai e te la caverai benissimo perché non sei uno sciocco.” «Io ho detto di sì e dopo aver abbracciato lui e le mie sorelle me ne sono andato. Avevo sette anni.» Durante quelle parole sentivo la mamma camminare e preparare la tavola. Accanto a me, Maurice pareva diventato una statua di pietra. «Mi sono guadagnato la vita pur dovendo sfuggire ai russi e, credetemi, non è stato sempre facile. Ho fatto tutti i mestieri, ho spalato la neve per un tozzo di pane con un badile che era due volte più grande di me. Ho incontrato delle brave persone che mi hanno aiutato e delle altre che erano cattive. Ho imparato a servirmi delle forbici e sono diventato parrucchiere, ho camminato molto. Tre giorni in una città, un anno in un’altra e poi sono arrivato qui dove sono stato felice. «Vostra madre ha avuto un po’ la mia stessa storia, in fondo tutto questo è abbastanza banale. L’ho conosciuta a Parigi, ci siamo amati, sposati e siete nati voi. Niente di più semplice.» Si fermò e potevo immaginare che le sue dita giocavano nell’ombra con le frange del mio copriletto. «Ho messo su questo negozio, molto piccolo all’inizio. Il denaro che ho guadagnato lo devo soltanto a me...» Dà l’impressione di voler continuare ma si ferma e la sua voce diventa improvvisamente meno chiara. «Sapete perché vi racconto queste cose.» Io lo sapevo ma esitavo a dirlo. «Sì» ha detto Maurice, «è perché anche noi dovremo partire.» Papà tirò un profondo respiro. «Sì, ragazzi, partirete oggi, è il vostro turno.»

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