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Lunario dei Giorni di Memoria


Appendice 5

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Emanuele Pacifici

Non ti voltare

 

(...) Quando lo zio venne a prendere me e Raffaele, la mamma ci accompagnò fino al portone; si raccomandò a me in particolare di fare il bravo e di obbedire a chi si sarebbe preso cura di noi; poi una carezza,  un  bacio dato in fretta, e sparì dietro  la grande vetrata bianca. Lo strazio della separazione era tutto dentro di noi, inespresso.  Lo zio ci accompagnò a Settignano nel collegio di Santa Marta, ma non eravamo sicuri di essere accettati. Fortunatamente suor Marta Folcia, che faceva le veci della superiora momentaneamente indisposta, ci disse che potevamo  rimanere e dopo aver brevemente  parlato con lo zio, rivolgendosi  a me  e Raffaele disse: «Allora ragazzi, salutate vostro zio e andate subito a mangiare nella sala del refettorio».  Era la domenica 21 novembre 1943: il mio destino mi imponeva ancora una volta una separazione dai miei cari, ancora una volta un ambiente estraneo. Ora mi sarebbe stato imposto di cambiare perfino identità; la mattina dopo infatti suor Marta venne  in classe  e, davanti  a tutti gli altri  ragazzi,  disse eh il mio cognome era Pallini, mentre Pacifici era solo un soprannome datomi in famiglia a causa della mia tranquillità, e con voce severa aggiunse: «In questo istituto non possiamo ammettere dei soprannomi!». Da quel giorno io e mio fratello diventammo i fratelli Pallini. A guerra finita, prima di lasciare il collegio, seppi che la suora si era accorta che nelle nostre tessere annonarie era stato scritto per errore Pallini e lei pensò bene di cogliere la palla al balzo.

    Il venerdì 26 novembre, la mamma telefonò a suor Marta dicendo che la domenica pomeriggio sarebbe venuta a trovarci. Quella domenica la passai appoggiato alla finestra ad aspettare il filobus che si fermava proprio davanti al collegio. Alle sei, quando ormai era già buio e l'ora di andare in chiesa, le suore riuscirono solo a fatica ad allontanarmi singhiozzante da quella finestra. Suor Marta cercò di consolarmi dicendomi che se la mamma non era venuta, voleva dire che qualche cosa glielo aveva impedito. La domenica seguente attesi di nuovo inutilmente tutto il giorno e quando fu sera il mio pianto divenne irrefrenabile e cominciai a gridare che volevo la mia mamma. Alcune suore mi si fecero intorno e dopo avermi calmato riuscirono a mettermi a letto.

    Passarono quindici interminabili giorni, poi una mattina suor Marta mi mandò a chiamare e mi comunicò che nella notte tra sabato 26 e domenica 27 novembre il convento delle suore del Carmine era stato perquisito dai soldati delle SS e aggiunse: «Anche la mamma ha subìto la stessa sorte di  vostro padre». La notizia mi fu data nell'atrio dell'istituto, di fronte alla vetrata che porta nella cappella. La suora poi, con lo stesso tono formale, mi invitò ad andare a pregare insieme a lei. Non piansi, ma capii che da quel momento io e mio fratello di appena cinque anni eravamo soli al mondo, senza più l'affetto dei nostri genitori che ci erano stati strappati da coloro che or­ mai da anni seminavano lutto e terrore in Europa. Così anche la mamma fu deportata ad Auschwitz, con lo stesso convoglio di papà. Chissà se si videro... Chi mai avrebbe pensato che il bacio, la carezza che la mamma ci aveva da­ to quella domenica salutandoci sarebbero stati gli ultimi. Come potevo immaginare che la benedizione di mio padre, sulla panchina della stazione, era il suo addio? Il vuoto, la solitudine lasciati dalla perdita dei miei genitori erano senza fine: niente e nesst1no avrebbe potuto alleviarli, ma non c'era neppure nessuno accanto a me che volesse tentare di farlo. E per Raffaele che era più piccolo, se è possibile fu ancora peggio che per me. Il trauma fu tale che per tutta la vita rifiutò di par­ lare dei nostri genitori. Solo una volta mi disse che della mamma gli restava come un'ombra davanti, mentre di nostro padre non ricordava niente.

    Passammo nove interminabili mesi nel collegio di Santa Marta nella continua incertezza di cosa ci avrebbe riservato l'indomani. Si combatteva anche a Settignano e la piazza principale era un cumulo di macerie. Nel collegio la stanza della dispensa era stata trasformata in rifugio e l'entrata era ben protetta con i sacchetti di sabbia. Di fronte c'era una quercia secolare che fortunatamente un giorno ci fece da scudo contro un proiettile di cannone che altrimenti ci avrebbe colpito. Ancora oggi la quercia è là, verdeggiante, e nel suo grande tronco è rimasta a testimonianza una scheggia di quel proiettile.

(...)



















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