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Lunario dei Giorni di Memoria


Appendice 9

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I sommersi e i salvati

Primo Levi

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Ultimo lavoro del grande scrittore e testimone torinese, che con I sommarsi e i salvati cercò forse di ordinare, ri-ordinare e dare nuova sistematicità sia alle sue personali memorie dello sterminio, sia ai grandi temi che l’insieme delle testimonianze avevano sollevato sino a quel momento. Il rapporto tra la soggettività e l’oggettività della Memoria; l’inquinamento della stessa da parte di chi non intende comunque accedervi sia per indifferenza sia per volontà o interesse nel negarla; il rapporto tra chi si salvò e chi nel mare nero dello sterminio restò per sempre sommerso; l’immensa zona grigia che sempre accompagna il sostanziarsi del male, nella quale gli accomodamenti, i silenzi e le complicità sono alla fine “azioni” responsabili non meno di quelle degli aguzzini. Terribili le parole di Levi nel ricordare che gli unici veri testimoni dello sterminio – dell’indicibile e del non detto - sono le vittime che non possono più parlare.

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo piú generoso, piú sensibile, piú savio, piú utile, piú degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride. Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico piú anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensí della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia? Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sí innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i piú adatti; i migliori sono morti tutti. È morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a dispetto delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e di spiegare a me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabó, il taciturno contadino ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva piú fame di tutti, eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni piú deboli a tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto avrebbe risposto ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto Baruch, scaricatore del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché aveva risposto a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato massacrato da tre Kapos coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore. L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato. Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione.

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