RICORDOCHENON

Ritorno a casa




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Ritorno a casa

 (Una bambina chiamata Africa)

 

 La foresta intorno al villaggio di Faiama era verdissima, umida e vociante dei versi degli uccelli che si nascondevano tra le fronde degli alberi.

- Non capisco, Robin. Dove può essere andata Sia? –. Mi chiese mia madre. Allungò lo sguardo verso una delle basse costruzioni di fronte alla quale si era già radunata una piccola folla e aggiunse: – Sparire così! Proprio ora che l’abbiamo riportata a casa!

Per raggiungere Faiama, in Sierra Leone, eravamo partiti prima dell’alba. Il dottor Suku Dumbuja si era messo al volante di una grossa jeep. Mia madre Sophie si era seduta al suo fianco e io, Sia e suo fratello Kissou ci eravamo sistemati sul sedile posteriore. Mio padre Albert invece era rimasto a Kissidougou, in Guinea.

- Vieni – disse ancora mia madre. – Raggiungiamo Kissou e Suku Dumbuja.

- Vai avanti tu – risposi. – Io resto qui ancora un po’.

- Non allontanarti dalla jeep, però – assentì lanciando un’occhiata inquieta alla foresta, prima di dirigersi verso la casa davanti alla quale si era radunata la piccola folla, seguita da uno stuolo di bambini curiosi.

Osservai più attentamente il villaggio. Era simile a tanti altri villaggi africani. Un nugolo di piccole case dalle pareti di fango disposte intorno a uno spazio a forma di mezzaluna, dove si ergevano due altissimi alberi di karité. Sul lato destro della mezzaluna c’erano l’abbeveratoio e il recinto degli animali, e addossata al recinto una ragazzina che mi scrutava.

Doveva avere pressappoco la stessa età di Sia. E i suoi occhi penetranti mi ricordarono quelli della mia amica, la prima volta che la vidi, quando ancora veniva chiamata Capitan Africa.

 

Quattro mesi prima, dopo essere partito da Parigi, ero atterrato all’aeroporto di Conakry, dove ad attendermi ci sarebbe dovuto essere mio padre, il dottor Albert Rafarin, che lavorava in una città chiamata Kissidougou per l’associazione Medici senza Frontiere. Erano passati due anni dall’ultima volta che l’avevo visto, dato che da quando era partito per l’Africa non era più tornato a casa. Io e lui, insieme, avremmo dovuto raggiungere la Riserva Naturale dei Monti Nimba, per partecipare a un safari fotografico.

Le cose, però, non erano andate affatto come avevo immaginato. Perché mio padre, a causa di un’emergenza, non era potuto venire a Conakry, che distava da Kissidougou più di quattrocento chilometri. E per poterlo raggiungere io e Suku Dumbuya, un medico africano suo amico che aveva viaggiato insieme a me da Parigi, ci eravamo imbarcati su un piccolo aereo da turismo, un Piper Archer con il monorotore a elica, che a poco meno di due ore dal decollo era precipitato in una foresta della Sierra Leone, incastrandosi tra due alberi.

Né io né Suku Dumbuya, fortunatamente, avevamo riportato gravi ferite nell’incidente. Ma prima di riuscire a raggiungere a piedi la frontiera della Guinea, attraversando un territorio popolato da animali feroci e pericolose bande di fuorilegge, ne passammo di tutti i colori. Fu allora, lungo il faticoso cammino verso la frontiera, in un posto chiamato il Cappello dell’Elefante, che io e Suku Dumbuya conoscemmo Sia. Una ragazzina di undici o dodici anni dalla pelle nerissima, che indossava una maglietta lacera e un paio di jeans sdruciti. E che, infilata, nella cintola, aveva una pistola. Una pistola vera.

Come era successo a tanti altri ragazzini della Sierra Leone, due anni prima Sia era stata rapita insieme a suo fratello minore Kissou dalla banda armata del colonello Setay, una delle tante che si fronteggiavano per il controllo del paese, ed era diventata una bambina-soldato. Era stata costretta ad assumere un altro nome, Capitan Africa, e aveva combattuto una delle guerre più feroci che avevano insanguinato l’Africa occidentale.

Dopo che Sia si unì al nostro cammino nella foresta, nei lunghi giorni e nelle lunghe notti che passammo insieme, mentre pian piano diventavamo amici per la pelle, lei mi raccontò tutto quello che le era successo dal momento in cui il suo villaggio, Faiama, era stato assalito dall’esercito del colonello Setay. Delle raffiche di mitra che erano risuonate cupe e assordanti come i tam tam dei tamburi. Della paura cieca e folle che le aveva attanagliato il cuore quando lei e suo fratello erano stati trascinati via. Del modo in cui gli adulti costringevano i bambini-soldato a combattere,  sottoponendoli alle più efferate violenze. Dell’angoscia che l’attanagliava ogni volta che pensava a Mory e Ferima, suo padre e sua madre, che se anche erano sopravvissuti all’attacco dovevano aver abbandonato Faiama. E dell’unico desiderio che le era rimasto dopo essere riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini: che anche suo fratello, ancora prigioniero di chi l’aveva rapito, ritrovasse al più presto la libertà.

Quando finalmente eravamo riusciti a raggiungere la frontiera della Guinea, il desiderio di Sia si era realizzato, grazie all’intervento di un contingente delle forze internazionali delle Nazioni Unite che aveva liberato Kissou e arrestato il colonello Setay. E mio padre Albert e mia madre Sophie, che ci aveva raggiunto in Africa, avevano chiesto a Sia e a suo fratello di venire a vivere con noi in una casetta alla periferia di Kissidougou, in attesa di avere notizie dei loro genitori.

Quando però queste notizie erano finalmente arrivate (Mory e Ferima erano sopravvissuti alla guerra ed erano rientrati   a Faiama) avevo visto comparire negli occhi di Sia qualcosa che non mi ero aspettato. Non solo lampi di gioia, ma anche un’ombra scura, come quella di una nuvola nera che all’improvviso ghermisce il sole.   

Nella giornata che avevamo dedicato ai preparativi per il rientro di Sia e Kissou a Faiama, questa impressione era stata rafforzata dallo strano comportamento della mia amica, che era diventata nervosa e taciturna, senza che io riuscissi a capirne il perché. Sino al momento in cui mi ero ricordato qualcosa che Suku Dumbuya mi aveva detto a proposito dei bambini-soldato.

Per questo, quando quella mattina eravamo arrivati a Faiama ed eravamo stati circondati dalla gente del villaggio, non mi ero stupito che nella confusione Sia fosse sparita all’improvviso, e che invece di correre a perdifiato sino alla casa dei suoi genitori fosse andata a nascondersi da qualche parte.

 

- Mi dispiace, non capisco quello che dici.

La ragazzina che sino a poco prima mi aveva osservato dal recinto degli animali, si era avvicinata e mi aveva detto qualcosa, facendo un gesto in direzione della foresta.

- Conosco solo poche parole della vostra lingua – mormorai ancora. – E se tu non…

La ragazzina, poggiandomi una mano sulle labbra, mi impedì di continuare e fece di nuovo un gesto in direzione della foresta. Quindi si diresse verso l’imboccatura di un sentiero, si fermò e si voltò a guardarmi.

- Ho capito, vuoi che ti segua, vero?

Poco dopo mi ritrovai ad avanzare lungo il sentiero dietro alla ragazzina, che per scostare l’intrico di rami che ostacolava il nostro cammino si aiutava con un nodoso bastone. Ogni tanto si voltava per accertarsi che non mi scoraggiassi e quando all’improvviso il sentiero sbucò in una minuscola radura attese che la raggiungessi e mi indicò, dalla parte opposta, un’alta parete di roccia tappezzata da muschi e da licheni gialli e rossi.

Alla base della roccia, seminascosta da alcuni cespugli, sembrava esserci l’apertura di una caverna.

La ragazzina puntò l’indice verso di essa. Quindi mi sorrise e fuggì via.

Quando mi avvicinai all’apertura, sapevo già chi avrei trovato dentro la caverna.

- Sia – sussurrai, cercando di abituare gli occhi alla semioscurità.

- Sei tu Poto Poto? – risuonò una voce in fondo all’antro.

Solo Sia mi chiamava così. Poto Poto significa ragazzo bianco.

 – E’ stata la mia vecchia amica Setiya ad accompagnarti sin qui, vero? – sussurrò ancora. - Solo io e lei conosciamo l’esistenza di questa caverna.

Quando riuscii a distinguerla mi avvicinai a Sia, che si era seduta con la schiena addossata a una parete, le ginocchia strette contro il petto.

- Non so se il suo nome è Setiya - dissi. – So solo che ti somiglia un po’. E che se mi ha accompagnato sin qui lo ha fatto perché vuole che tu torni subito al villaggio, per poterti abbracciare, come tuo padre e tua madre.

Per un po’ nella caverna regnò il silenzio rotto solo dal respiro di Sia. Poi la sua voce risuonò bassa e roca: - Ne sei sicuro Poto Poto? Sei arrivato in Africa solo da pochi mesi. E ci sono tante cose che ancora non capisci.

- E’ vero – ammisi. Quindi, prima di continuare, allungai una mano e cercai la sua, proprio come lei faceva con me nella foresta in Sierra Leone, certe notti in cui le sembrava di sentire nel vento la voce del piccolo Kissou. – Una cosa, però, l’ho capita – aggiunsi. – Tu hai paura che tuo padre e tua madre ti respingano e ti ripudino. Perché sei stata una bambina-soldato.

Era questo, come mi aveva spiegato Suku Dumbuya, che a volte succedeva in Africa ai piccoli soldati che riuscivano a ritrovare la libertà e a tornare a casa. I loro genitori, sapendo che avevano combattuto e utilizzato le armi contro altri esseri umani, pensavano che qualcosa dentro di loro si fosse irrimediabilmente guastato. Perciò li ripudiavano, abbandonandoli a sé stessi e costringendoli a diventare degli ouya-ouya, piccoli vagabondi senza più nessuno su cui contare.

Per un po’ Sia non ribatté. Poi nella caverna, più che una voce, risuonò un gorgoglio quasi soffocato.

- Anch’io ho fatto del male, sai, Poto Poto… E se ancora non riesco a perdonarmi, come potranno riuscire a farlo i miei genitori?

Per un lungo istante fui tentato di dirle che sbagliava a parlare così. Che in tutto quello che le era successo, lei non aveva nessuna colpa. E che ogni volta che un bambino, invece di giocare e di andare a scuola, veniva costretto a impugnare una pistola o un mitra, la responsabilità era solo degli adulti che scatenavano le guerre e che diventavano i loro aguzzini.

Ma non dissi neppure una di queste parole.

Perché ero convinto che la mia amica le avesse già scolpite nel suo cuore.

Le strinsi più forte la mano.

Quindi uscimmo dalla caverna e ci avviammo insieme verso il villaggio, dove, davanti alla loro casa, i genitori di Sia attendevano il suo ritorno.

Mi bastò un’occhiata al viso di sua madre, che stringeva in braccio il piccolo Kissou, per capire che la mia amica non sarebbe mai diventata una ouya-ouya. Gli occhi di Ferima erano bagnati di lacrime. E quando si posarono su sua figlia si illuminarono come un’alba accecante dopo una notte infinita.

- Bentornata a casa – sussurrai all’orecchio di Sia.

Quindi mi misi un po’ disparte, con un nodo in gola.

 




















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