RICORDOCHENON

La terza metà del cielo




terzameta


SI RINGRAZIANO: la rivista Lacio Drom e il Centro Studi Zingari; Mirella
Karpati, Bruno Levak Zlato, Angela Tropea, Raiko DJuric; Leonardo Piasere per l'accurata revisione dell'intervista e per la gentile concessione della cartina sulle presenze zingare in Italia e Sardegna; Fabio Corona; la rivista Zingari Oggi; Violetta Pireddu per la collaborazione e la fornitura di materiali; l'architetto Silvano Piras per i disegni degli oggetti artigianali; Dafne Turillazzi per la concessione dell'intervista a Leonardo Piasere; Paola Orrù per la collaborazione offerta nei contatti con i Dassikané di San Gavino Monreale; Teresa Paribello e Ketty Giua. In modo particolare si ringraziano Nusret Selimovic e sua moglie Svetlana, per l'amicizia e la collaborazione incessante, e Katiza Selimovic, insieme a suo marito Giorgio, per l'insostituibile apporto offerto nella compilazione del glossario.

Introduzione di Giulio Angioni
Questo libro è impegnato dalla parte degli zingari. Contro il franco razzismo che verso di loro si esercita da secoli in Europa. È rivolto alla gente di buona volontà, di normale cultura e intelligenza. Per far riflettere, racconta fatti della grande storia secolare degli zingari in Europa e ci ricorda fatti della cronaca recente degli Xoraxané in Sardegna, specialmente a Cagliari.
   Come non pochi altri, l'autore è preliminarmente conscio che, se non la prima, quella del razzismo sta diventando una delle prime questioni all'ordine del giorno, in Italia come altrove. In molti si è convinti che finora lo si è preso sottogamba. Infatti il razzismo è stato a lungo considerato un fenomeno non italiano, tanto che il credere che noi italiani non siamo razzisti è ancora la forma più tradizionale di antirazzismo facile o di maniera. Anche la società italiana ha da sempre e probabilmente avrà sempre più a che fare con problemi di razzismo, perché siamo da sempre e stiamo diventando sempre di più una società plurietnica.
   Ora comunque è giunto per tutti il momento di smettere di credere che non siamo intolleranti o xenofobi o razzisti, perché possiamo esserlo quanto e più di altri, se messi alla prova. Tutta la storia insegna che così come fanno il ladro, le circostanze fanno l'uomo anche razzista. Nella nostra eredità culturale non c'è niente che ci renda meglio disposti di altri nei confronti del diverso, nemmeno rispetto al diverso più o meno inventato come capro espiatorio, come è stato spesso il caso degli ebrei e come è sempre stato il caso degli zingari.
   Posto che il diverso ha suscitato reazioni varie, dall'interesse genuino al pregiudizio stereotipato, si sa però che il diverso da sé ha suscitato di solito reazioni che oscillano tra il difensivo e l'aggressivo. Lo si chiami razzismo, intolleranza, etnocentrismo, xenofobia, si tratta di un guaio tanto antico quanto il sentimento di appartenenza, di identità. L'equilibrio tra sentimento di sé e modo di rapportarsi all'altro da sé risulta storicamente arduo e variegato, ma è monotamente ricorrente la tendenza a ridurre la diversità a inferiorità, per cui il diverso diventa qualcosa di peggiore e di pericoloso, oppure si tende ad assimilare l'altro a sé stessi negando gli ogni diversità, per cui l'uguaglianza pretende ridursi ad identità, come hanno preteso le campagne di sedentarizzazione e di integrazione degli zingari. Ambedue gli atteggiamenti, l'uno aggressivo e l'altro a volte implacabilmente caritativo, sono presenti nella nostra civiltà almeno fin dalle origini di ciò che chiamiamo epoca moderna, simbolicamente incominciata cinquecento anni fa con la scoperta di Colombo e l'inizio del colonialismo.
   Una cosa è però il generico sentimento etnocentrico, altra cosa sono le sue manifestazioni storiche particolari: come per esempio l'etnocentrismo che si specifica in eurocentrismo, e che si è accompagnato all'espansione colonialista e imperialista dell'Europa su quasi tutto il resto del mondo, da Colombo a ciò che diciamo neocolonialismo. E perciò non sbaglia molto chi pensa che tutti i grandi razzismi moderni sono nella loro quasi totalità figli naturali del colonialismo: se si eccettuano però l'intolleranza ricorrente verso gli ebrei e costante verso gli zingari. Anche l'Italia ufficiale, oltre a non aver mai affrontato il problema degli zingari, ha avuto anch'esso le sue manifestazioni di "imperialismo straccione", non meno dure e sanguinarie.      Dell'italo-imperialismo prefascista, fascista e postfascista, è caratteristica l'idea che l'italiano non sia razzista, oppure l'alto luogo comune che noi nelle colonie d'Africa abbiamo fatto solo bene, alimentando una delle falsificazioni più sfacciate della nostra storia.
   Siccome continuiamo a considerarci personalmente e razionalmente non razzisti "io non sono razzista, ma...", e nessuno oggi può dichiararsi francamente razzista e farsi imprenditore del razzismo con parole d'ordine razziste), ci riserviamo l'esercizio del diritto di beccata sulla gallina forestiera arrivata nel pollaio. Potremmo al massimo riconoscere che da noi, specialmente in Sardegna, questa è stata finora propensione moderata, più difensiva che aggressiva, perché qua il forestiero troppe volte è arrivato in armi, dominatore e padrone. Gallo, non gallina, finché non è arrivato il successivo a renderlo cappone. Ora però il forestiero sbarca numeroso anche da poveraccio, zingaro o africano, e non ci arriva più solo con la sua aura esotica, ne gretto di gesso da usare come soprammobile, zingarella festosa e canterina.
   Noi italiani non riusciamo più a trovare materia di riflessione salutare se guardiamo al nostro passato remoto e recente, a ciò che siamo stati noi fino a ieri sera. Anzi, come si dice in Sardegna, non c'è peggior pidocchio del pidocchio redivivo, cioè di chi è appena uscito da vile condizione, come è il nostro caso.
   Ma gli zingari? Se non ha torto chi fa notare che da una situazione multiculturale e interrazziale si possono avere vantaggi reciproci e generalizzati, compresi magari campioni dello sport, gli zingari non sono ancora mai rientrati dentro questo alone di eugenetica progressista. Ed è soprattutto la storia degli zingari in Europa che c'insegna quanto è difficile la convivenza reciprocamente vantaggiosa di genti diverse, specialmente quando una di esse trova più facile mettere sotto le altre per servirsene o comunque fare il proprio comodo, o cercare di disfarsene anche alla maniera nazista quando non servono, non rientrano nei piani. E questa, esagerazioni naziste a parte, è la situazione italiana di oggi: una situazione di razzismo istituzionale, di razzismo classico, di razzismo vero, di razzismo ordinario, dove una parte della società resta sistematicamente esclusa dal potere, anche a norma di legge.
   Dicevo della difficoltà delle convivenze da più o meno diversi. Per esempio, la giaculatoria che gli zingari o i cosiddetti extracomunitari sono "come noi". Questo luogo comune trascura il fatto che sono "come noi" solo in quanto genericamente uomini, ma che tuttavia sono anche diversi, e che la loro diversità pone problemi che dobbiamo imparare ad accettare e a governare civilmente; e non solo per solidarietà umana, in questo caso, ma perché le migrazioni e le convivenze tra popoli e culture diverse sono un fenomeno sempre più caratteristico dei nostri tempi. È arrivato dappertutto in Italia il tempo in cui non basta più, per tranquillizzarci la coscienza, fare l'elemosina alla zingarella del semaforo, o comprare l'accendino scadente al patetico vu' cumprà. E sono già arrivati i tempi in cui si vede che non basta neppure legiferare e far convegni su zingari e africani. Anche gli esorcismi verbali sono invece sintomi del disagio e della difficoltà a fare bene i conti con questa "novità", se è vero che la si affronta ancora troppo, nel migliore dei casi, con giochi di parole ed altre palliative carità. Così un tempo nelle Americhe i padroni buoni chiamavano fratelli i loro schiavi.    E gli zingari non diventano meno diversi o più facilmente accettabili come conviventi se pudicamente li si chiama nomadi, così come uno non cambia in nulla se lo chiamiamo non udente o non vedente invece che sordo o cieco, o se la vecchiaia la si chiama terza età. Gli esorcismi verbali dei benintenzionati verso gli zingari sembrano anzi sintomi ulteriori del disagio e dell'incapacità di fare bene i conti con la difficoltà.
   Perciò bisogna riflettere anche sul problema che, anche se non è altrettanto pericoloso del razzismo più o meno franco, è pericoloso anche l'antirazzismo facile, la cui generosità si avvicina a volte alla stupidità, e contro la stupidità, dicevano già gli antichi, anche gli dei sono impotenti. Così oggi, screditate definitivamente le irrazionalità razzistiche totalitarie, l'intolleranza e l'aggressività contro il diverso si manifestano principalmente in modi subdolamente democratici e pluralistici, perché così richiedono i tempi. Questo complica molto le cose, anche a chi vuoI capire e provvedere, o manifestare contro, per lo meno contro gli umori più rozzi e a volte violenti.
   Ma il possibile imprenditore politico dei razzismi odierni è piuttosto una pluralità varia di spinte e di aggregazioni, flessibile, che si muove, come è il caso del razzismo delle leghe nordiche, per obiettivi espliciti di altro tipo, come la salvaguardia dell'identità o la lotta contro il centralismo o l'ingiustizia fiscale. Razzismi striscianti, cangianti, camaleontici, addizionali, concorrenziali, intermittenti, più che razzismi riconoscibili in movimenti e risentimenti già sperimentati e modellati in forme aggressive e militanti (Skinheads), che pure oggi ci appaiono così pericolosi.
   Ma della pericolosità dei gagè, dei non-zingari, gli zingari sanno però da
secoli, sia a Oriente che a Occidente, e ci temono anche quando siamo dona ferentes.
   È utile fare notare, e qui lo si fa a volte con la discrezione dello studioso e a volte con l'enfasi di chi è impegnato direttamente, che le diversità etniche, razziali, religiose, culturali, linguistiche, ecc., esistono, che i problemi posti da queste diversità non si risolvono minimizzandoli, ma che con queste diversità bisogna fare i conti con sentimenti di solidarietà e con freddezza di raziocinio. Perché non è mai stato facile.   No, bisogna ribadirlo, non è mai stato facile. E la nostra tolleranza si deve esercitare anche, e forse soprattutto, verso quella parte del nostro prossimo che è ancora vittima del pregiudizio e si fa solo guidare dal fastidio: anche loro hanno diritto al nostro aiuto paziente per arrivare a comprendere, e non meritano il sarcasmo di chi è meglio intenzionato e più informato. E bisogna evitare non solo le intolleranze e le discriminazioni, ma anche i limiti o gli eccessi della carità da boy scout o da dama di San Vincenzo. Quindi, anche se ci vogliono e sono anzi sacrosanti gli atti di culto esterno come queste forme di carità e le solidarietà antirazziste, ci vuole anche ben altro, e principalmente ci vuole un'informazione accorta che supporti l'impegno, personale e collettivo, sul piano intellettuale, morale e politico, che si deve esercitare quotidianamente e con la forza della costanza.

                                                                                                       Giulio Angioni


Premessa

 La prima testimonianza documentata dell'incontro tra gli Zingari e il mondo europeo è del 1322: due frati minori, Simeon Simeonis e Ugo l'Illuminato, li trovano nei pressi di Candia, nell'isola di Creta, dove si mormora che appartengano alla mitica stirpe di Cam. I loro strani costumi - dormono in tende piccole e nere oppure in caverne e non si fermano per più di trenta giorni nello stesso posto - catturano l'attenzione dei due religiosi e ne stimolano la fantasia.
Chi è questa gente, e quale la sua origine?
Lo stesso atteggiamento, la stessa curiosità, è quella che nel 1421 coglie gli abitanti di Arras, allora capoluogo della regione dell' Artois, in Francia. Nei registri dello Scabino, il giudice che in epoca medioevale sostituiva i nobili nell'amministrazione della giustizia, viene così annotata la strabiliante novità: "Meraviglie. Arrivo di stranieri dal Paese di Egitto".
E qui comincia, se non la Storia degli Zingari, che è assai più antica e che affonda le proprie radici nella lontana India, almeno la Storia di quella scienza chiamata "ziganologia". Una scienza che, più organicamente a partire dalle riflessioni dei dotti del Rinascimento, ha tentato di risalire alle origini di questo popolo errante, di penetrarne l'idioma misterioso, di esorcizzare, o castigare, tanta evidente diversità, di porre per iscritto ciò che la tradizione zingara non si è mai premunita di fare, essendo stata, ed essendo ancora in parte, una tradizione che si trasmette per via orale. Lo ziganologo è quindi lo studioso di cose Zingare.
Uno studioso che spesso si è avvalso dell' apporto di altre discipline, quali la Storia, l'Antropologia, la Linguistica comparativa, la Psicologia, la Genetica, tutte tese a ricostruire un quadro che, col passare dei secoli, si era disunito e frammentato come un mosaico andato in pezzi.
Ecco, qui sta il punto.
lo non sono un antropologo, non sono uno storico, né un linguista, né tanto meno uno psicologo o uno studioso di genetica. Ma soprattutto, anche ammesso e non concesso che un tale orribile orpello possa essere da qualcun altro sospirato ed anelato, non sono, assolutamente, uno "ziganologo", non mi ritengo tale, non voglio esserlo.
E non per pudore o per falsa modestia: La Storia che è qui trattata, che è insieme Storia di un Popolo e Storia del pregiudizio che nel tempo l'ha tenuto incatenato in abiti illusori, fantastici o mostruosi, è ben documentata. Dagli scritti degli ziganologi, quelli formalmente riconosciuti tali, ho attinto le teorie note come le più attendibili o provate: il che, data l'oscurità di un passato quasi imperscrutabile, non è ancora garanzia di certezza.
La gran mole di studi, libri e articoli di ziganologia (una bibliografia pubblicata nel 1914, "A Gypsy bibliography" di George B1ack, contava già da allora 4.577 titoli), è davvero impressionante. Ma ancora oggi non è bastata a far piena luce su certi aspetti che riguardano il tipo di vita che gli Zingari conducevano in India prima delle grandi migrazioni iniziate, secondo alcuni, intorno all'anno Mille.
Uno Zingaro di origine russa, e studioso di cose zingare, l'etnologo e sociologo Jan Kochanowski, ha per esempio tentato di confutare la teoria secondo la quale gli Zingari d'Europa, quelli che lui denomina Romané Chavé, discenderebbero dalla casta indiana dei Paria. A suo parere essi discenderebbero invece da una casta militare e aristocratica originaria di quello che oggi è lo Stato di Dheli.
Ma qualunque sia la verità, rispetto a tante e approfondite ricerche, la scelta, o meglio una delle scelte che mi sono apparse più opportune, è stata quella di riscrivere con molta umiltà e con occhio imparziale queste diverse teorie, cercando di ricostruirle con l'occhio del cronista, se non dello ziganologo, in un quadro più unitario possibile.
Una delle scelte dicevo.
L'altra, la più importante, è quella che per spirito di coerenza mi vieta, vorrei quasi dire mi salva, dall'appellativo di ziganologo, nasce tutta nel rapporto di amicizia che in questi anni ho vissuto con i Romà che da un decennio vivono nelle più degradate periferie urbane dell'area cagliaritana, provenienti da quella Jugoslavia che, ormai lontana dal loro stupore incredulo, si è frantumata in un coacervo di razze e religioni ostili e pronte a guerreggiare.
Ciò che voglio dire è che, ancora oggi, vorrei continuare a guardare ad essi come un amico, uno che ne condivide, seppure in minima parte, i dolori, le difficoltà, la gioia e la solidarietà che li contraddistinguono. Pormi di fronte a loro come uno studioso, uno ziganologo, sarebbe un po' come tradire questo sentimento di amicizia che non è stato facile costruire e che è cominciato, quasi per caso, in un pomeriggio primaverile di alcuni anni orsono.
Il ricordo di quel pomeriggio è ancora molto vivido.
Visto da lontano il panorama di baracche e rottami d'auto che caratterizza ogni raggruppamento zingaro presente sul nostro territorio, incute davvero un po' di paura. Ed effettivamente quel giorno, era il 6 maggio 1988, invitato a partecipare e a fotografare il Gurgevdan, la Festa di Primavera, realmente avevo, se non proprio paura, sicuramente un robusto quanto impalpabile sentimento di diffidenza.
Ripensandoci più avanti mi resi conto che questo sentimento di diffidenza, questo pregiudizio riapparso improvvido a corrompere certezze e valori che credevo molto più saldi, si alimentava di miti, figure letterarie, luoghi comuni. Chi erano questi Zingari? Liberi Figli del Vento o accattoni e ladri di bambini? I vagabondi impenitenti di Diderot o i musicisti di G. G. Marquez? Gli animali notturni e undergrounds di Victor Hugo o la tribù "profetica dalle pupille ardenti" cantata da Baudelaire?

Stregoni, saltimbanchi e furfanti, Resto immondo
D'un antico mondo
Stregoni, saltimbanchi e furfanti, Gai Zingari, da dove venite fuori?

Come nella canzone di Béranger, la domanda, inespressa a parole, si
concretizzava invece nei gesti: una volta arrivato all'interno del Campo, tra vedere e non vedere, ma facendo in modo che nessuno mi vedesse, nascosi per bene le macchine fotografiche sotto i sedili dell' auto, scesi, chiusi a chiave la portiera e mi avvicinai agli Zingari col sorriso sulle labbra.
Ipocrita, pensai, dopo.
Perché tra il prima e il dopo, nel breve spazio di cinque, sei ore, il dubbio
e la diffidenza vennero spazzate via non solamente dai canti, dai balli, dal turbinare della musica slava ad altissimo volume, ma anche e soprattutto da una disponibilità e da un senso dell' ospitalità sino ad allora insospettabili ed insospettate. Questo popolo fatto di straccioni, scostanti ed ostili ai semafori della città quando chiedono la "manghel", l' elemosina), mi si ridisegnava davanti agli occhi come tutt'altra cosa.
È questa la magia del Gurgevdan, la festa che celebra l'arrivo della buona stagione, l'allontanarsi di quella cattiva e, non solo metaforicamente, del freddo, della malattia e della morte.
È una magia, quella vissuta dagli Zingari durante la Festa di Primavera, che si trasmette per empatia anche all'ospite sino a quel momento ignaro di quelle strette di mano, di quei sorrisi, di quegli abiti che si fanno bianchi, e puliti, negli uomini, e colorati, e puliti, nelle donne. Io, come tanti altri "gagé" (i non zingari), che possono testimoniare la mia stessa esperienza, passai di baracca in baracca per onorare tutte le diverse famiglie, assaggiai in ognuna le pietanze preparate in abbondanza per l'occasione, bevetti il caffè alla turca bollente offerto dalle donne, fotografai visi in allegria, visi segnati da ragnatele di rughe precoci, risate dai denti d'oro, abbracci e baci e danze.
E, per dirla tutta, ne restai affascinato, incuriosito, sedotto.
Ricordo ancora che prima di andar via, Nusret Selimovic, che allora era sicuramente l'uomo più rappresentativo del Campo (ciò che superficialmente potremo definire il "Capo"), ci fermò ancora sulla soglia della baracca per ringraziarci, me e gli altri gagé che mi avevano accompagnato e presentato, per aver partecipato alla Festa di Primavera. E mentre lo faceva - già il tutto si era spezzettato in piccoli gruppi che alla luce fioca delle lampade ancora bevevano e chiacchieravano per conto loro - ricordo che affianco a noi un giovane non zingaro che non conoscevo, e che aveva evidenti problemi di nervi, anche lui unitosi alla Festa, continuava a parlare tra sé e sé in preda ai suoi cattivi pensieri. Ma, e fu questo che mi colpì profondamente, nessuno tra gli Zingari sembrava farci caso, anzi ogni tanto gli si avvicinavano, stavano a sentire le sue parole sconclusionate, gli offrivano ancora da bere assentendo con rassegnata pazienza, gli davano piccole affettuose pacche sulle spalle.
Insomma, questi Zingari, questo mondo Altro, questi diversi per antonomasia, riuscivano con placida indifferenza ad accettare una presenza, un' altra diversità, che in qualsiasi altro ambiente avrebbe stonato, irritato, provocato la consueta incivile ilarità o il consueto gran senso di disagio.
Più avanti, messi da parte gli abiti della festa e rientrati nella quotidianità, gli Zingari di quello che allora era il Campo abusivo di San Lussorio, mi diedero modo di comprendere quanto la vita di ogni giorno fosse agli antipodi della serenità e dell' allegria del Gurgevdan.
Nusret Selimovic, del quale ancora scriverò in altre parti del libro, è l'uomo che in questa odissea di rifiuto, dolore e desolazione, è stato mio anfitrione. Sua figlia Tiziana, una bimba di pochi mesi uccisa nel sonno dalla broncopolmonite e offesa cadavere dai morsi famelici dei topi, è quella che ha dato il suo nome alla Legge Tiziana, la Legge regionale n. 9 del 1988 che teoricamente avrebbe dovuto tutelare e migliorare le condizioni di vita dell'Etnia Rom presente nell'isola.
Ma oltre lo sforzo legislativo, dovuto alla sensibilità del promotore della legge, Italo Ortu, in realtà poco o niente è stato fatto per cambiare le condizioni di vita nei Campi, per agevolare un confronto che, anche rispettando le specifiche differenze culturali, potesse in qualche modo abbattere le barriere del pregiudizio e avvicinare la gente zingara alla città che ostilmente la circonda e l'assedia.
Dopo Tiziana sono morti un' altra decina di bambini, alcuni di broncopolmonite, qualcuno arso vivo nel rogo della sua baracca, una, Nazifa Bebé Ahmetovic, schiacciata da un furgone mentre chiedeva l'elemosina sugli asfalti cittadini. La vita nelle baracche è una vita che resta, anche senza voler essere retorici o roboanti, una vita infame. Si combatte coi topi, ci si ammala facilmente, si invecchia precocemente (la speranza di vita degli Zingari è paragonabile solo a quelle del Terzo e Quarto Mondo). Si vive male e si muore peggio.
Le attività economiche di stretta sopravvivenza sono la "manghel" per le donne e i bambini e la raccolta di rottami per gli uomini. Pochissimi, soprattutto i vecchi, si ostinano ancora a lavorare il rame. Ma pentole, piatti, portaombrelli e altri oggetti, sono difficilmente commerciabili e del tutto antieconomici rispetto a prodotti simili lavorati con mezzi più moderni.
Tutte le tradizionali attività zingare sono state superate. Gli Zingari calderai, fabbri ferrai, chiodatori, forgiatori, domatori di cavalli e musicisti di piazza sono solo un ricordo di tempi lontani che non potranno mai più tornare.
Né si creda facile un loro inserimento nel nostro mondo del lavoro: come ricorda Carla Osella, Presidente dell' Associazione Italiana Zingari Oggi, l'analfabetismo, reale o funzionale, arriva nella popolazione zingara (60/80.000 persone in Italia) ad una percentuale del 95%.
Questa perdita d'identità economica non è solo la causa prima dell'estrema povertà di quasi tutti gli Zingari di recente immigrazione. La mancanza di autonomia e di un ruolo definito, unita al secolare disprezzo di cui sono stati vittime, provoca da una parte quel sentimento di ostilità verso la società dei gagé, a volte così evidente nei loro modi scostanti per le vie della città, e dal1'altra la metodica ricerca dei mille e più espedienti atti a procurare il minimo necessario alla sopravvivenza.
Alcuni di questi espedienti, come l'accattonaggio dei bambini teso a smorzare l'impietosa indifferenza dei gagé o gli atti di piccola illegalità, provocano a loro volta il rinfocolarsi della fiamma del pregiudizio e del rifiuto che la nostra società nutre con forza nei loro confronti. In questo modo 1'incomunicabilità di fondo che caratterizza il rapporto tra società dei gagé e società zingara tende ad auto riprodursi all'infinito.
Niente di nuovo, si dirà.
Gli Zingari, dopotutto, sono abituati da sempre a convivere col pregiudizio e l' emarginazione e riusciranno a superare indenni anche questi difficili momenti. Questa è anche 1'opinione, ma sarei tentato di dire 1'illusione, di quei gagé, amici in buona fede dei Rom, che, credendo nell'immutabilità della loro cultura, rifiutano a priori la possibilità che essa possa contaminarsi con la nostra e non si rendono conto della drammatica specificità di questo momento storico.
Niente scuola per i bambini, quindi, perché essa potrebbe omologarli alla nostra cultura, e niente case per le famiglie, perché la tradizione del nomadismo, che sarebbe garanzia irrinunciabile di libertà, va preservata assolutamente.
Chi dice questo, chi proietta sugli Zingari questi aneliti di purezza esasperata, chi si ostina ad osservarli con 1'occhio spiritato dell' ideologo più interessato al proprio pensiero che non all'uomo, chi, in definitiva, ricerca in loro l'alterità incorrotta del Buon Selvaggio, sbaglia non una ma molte volte.
Sbaglia arrogandosi il diritto d'interpretare ciò che davvero essi desiderano oggi, sbaglia nel non accorgersi che un profondo cambiamento è comunque già in atto, e sbaglia ancora nel confondere alcuni elementi della tradizione per l'essenza stessa della cultura zingara, che in ogni caso mai è stata e mai sarà una monade monolitica non suscettibile di relazioni sociali ed economiche col mondo circostante. Il professore zingaro Jan Hancok, che insegna all'Università di Austin ed è rappresentante all'ONU della Romani Union, così ebbe a dire nel corso di un'intervista rilasciata al periodico di studi sociali ed antropologici Zingari Oggi:
"Il popolo zingaro non scomparirà mai. Finché crederà e vivrà la propria cultura in ogni parte del mondo, sarà quello che è sempre stato; non fa niente se siamo professori, musicisti o spazzini; le radici della nostra storia, del nostro passato sono dentro di noi; tagliare le radici vuoI dire dichiarare la morte dell'albero; nessuno vuole distruggere il proprio passato; magari si può innestare, perché l'albero cresca meglio, ma sono sempre le vecchie radici che fanno vivere".
Da parte mia, nell'esperienza accumulata in questi anni, posso dire che ho incontrato Zingari che mandano i propri figli a scuola e altri che non lo fanno, Zingari che ancora difendono gli originari valori di comunione e solidarietà e altri che vivono vittime dei bisogni indotti dalla nostra società, Zingari che non riescono a stare a lungo nello stesso posto e altri che, letteralmente, maledicono il nomadismo come effetto delle tante, troppe ordinanze di sgombero che, di Campo abusivo in Campo abusivo, di città in città, li obbligano a continuare il loro infinito viaggio.
E ho conosciuto, qui in Sardegna, diversi di loro che già vivono in appartamenti, e che mi sono sembrati assai contenti di viverci.
Un gruppo di Zingari, che per anni ha atteso che l'ambito miraggio del Campo sosta attrezzato divenisse realtà, ha infine ragranellato i propri risparmi, ha acquistato un piccolo terreno agricolo nelle campagne di Asti, e lì si è trasferito.
Non credo davvero che il peggior pericolo per la cultura zingara sia la scolarizzazione, per quanto essa, davvero, possa essere pericolosa; né credo che la cessazione o la prosecuzione della pratica del nomadismo possa in futuro ancora dipendere da un semplice atto di volontà.
Il vero pericolo per la cultura originaria mi sembra invece che passi attraverso l'acquisizione di quei disvalori tipici del "villaggio globale", nel quale, indifesi perché senza una propria identità economica e pur in una condizione assolutamente marginale, essi si trovano loro malgrado immersi.
L'appropriazione facile della ricchezza, l'individualismo esasperato, la decontestualizzazione del proprio ruolo in relazione alla società che li circonda, la perdita del senso di appartenenza al gruppo e ai suoi valori di fraternità e di solidarietà nel momento del bisogno, sono i pericoli dai quali mi sembra gli Zingari debbano difendersi.
Il rischio di una strisciante sottoproletarizzazione, forzata da eventi esterni, mi sembra tanto reale quanto imminente.
Discorrendo con Nusret e Svetlana, la sua dolcissima compagna, mi azzardavo a manifestare questi dubbi, specialmente nei confronti dei ragazzi più giovani, che mi apparivano già diversi dai loro padri.
Continuando a fare questa vita impossibile, dicevo, e senza avere la lungimiranza di governare, voi stessi, il cambiamento, cosa succederà nei prossimi anni? I vostri figli, questi ragazzi già da oggi teledipendenti e ubriacati da quiz e telenovelas di bassissima lega, saranno ancora salvi dai nostri miti e dai nostri vizi? Si sottrarranno alle vie della droga, della vera delinquenza, della devianza, o, al pari dei nostri, ne saranno le vittime predestinate?
Ma Nusret e Svetlana apparivano più ottimisti di me. I più giovani, dicevano, seguono almeno in parte le vecchie tradizioni, quindi la speranza non deve morire.
Lungo questa strada, questo libro, che è scritto da una persona che è stata accolta in amicizia, vuole essere un contributo a questa speranza.
Un atto d'amore verso questo Popolo al quale, ancora oggi, viene negata quella porzione di cielo alla quale ha naturale diritto.
Un'ultima cosa ancora: quasi un'istruzione per l'uso.
Ritengo opportuno avvertire il lettore, benché più volte l'abbia poi puntualizzato nel corso dei diversi capitoli, che mai e poi mai bisogna generalizzare quelle che sono alcune conoscenze su determinati gruppi a tutti gli Zingari.
lo mi sono limitato, nell' ampia parte riguardante i differenti aspetti della loro vita, a descrivere in modo semplice e con un linguaggio accessibile a tutti ciò che ho visto, e a raccontare ciò che altri, meglio di me, hanno potuto osservare in altre situazioni. Ho azzardato ogni tanto, credo con tutta l'opportuna prudenza, qualche collegamento e qualche ipotesi, ma sempre basandomi su determinate fonti conosciute come le più attendibili.

Capitolo Primo: le origini

Quando Dio decise di creare l' Uomo e la Donna, e di crearli a sua immagine e somiglianza, impastò acqua e farina, ne fece le forme che sappiamo, e li infornò. Una prima volta, poiché si era distratto, 1'Uomo e la Donna si bruciacchiarono. E fu così che Dio creò i Neri. Rifatte le forme, la seconda volta, avendo paura che nuovamente si bruciacchiassero, Dio le estrasse dal forno troppo presto. E fu così che creò i Bianchi. La terza volta Dio sfornò l'Uomo e la Donna al momento giusto, ben cotti e di carnagione bruna. Fu così che creò gli Zingari.

fiaba zingara

Nomi e leggende

Il 17 agosto 1427 appare, alla periferia di Parigi, una carovana zingara. Nella Cronaca di un canonico di Notre-Dame viene annotato che gli uomini "... erano nerissimi, con i capelli crespi, le donne erano le più brutte e nere che mai si sia dato vedere. I volti tutti solcati di rughe, i capelli scuri come code di cavallo; loro unico indumento una copertaccia sdrucita fermata sulle spalle da uno straccio di tela e da una cordicella, e sotto soltanto una tonaca sbrindellata. Insomma, le creature più sciagurate che a memoria d'uomo si siano mai viste sul suolo di Francia".
Un'altra cronaca, nota come il "Journal d'un bourgeois de Paris", racconta che essi soggiornarono nella città per tre settimane circa e che ne vennero allontanati l'otto settembre dello stesso anno.
Migliore impressione avevano fatto, e migliore accoglienza avevano ricevuto, almeno in un primo momento, il centinaio di Zingari che il 18 luglio 1422 erano giunti a Bologna, guidati da una figura che all'epoca divenne quasi mitica, il Duca Andrea del Piccolo Egitto.
Il Colocci, nel 1883, riassume un passo di un'altra cronaca dell'epoca, la "Historia miscellanea bononiensis": "... in tale data venne a Bologna un duca d'Egitto. (...) Tale duca aveva rinnegato la fede cristiana e il Re d'Ungheria prese la sua terra a lui. Dopodiché il Re d'Ungheria volle che andassero per il mondo 7 anni e che si recassero a Roma dal Papa e poscia tornassero alloro Paese"
Del Duca Andrea e della sua gente la leggenda vuole che più avanti, dopo essere stati ricevuti dal Papa Martino V, essi riprendessero il cammino protetti da alcune lettere papali che gli garantivano libero transito, coi loro cavalli e i loro beni, senza che fossero costretti a pagare né diritti di passaggio, né alcun altro tipo di tassa.
Più avanti quasi tutti i gruppi zingari che presero a diffondersi per l'Europa mostravano di possedere Bolle e Sigilli papali (più o meno autentici), ma ciò non bastava più a garantirne la bontà delle intenzioni: il sospetto e la diffidenza, alimentate anche dalla appariscente alterità, cominciarono a circondarli e, contemporaneamente, ad alimentare l'incontenibile saga delle ipotesi che si fecero sulla loro origine avvolta nel mistero.
Un mistero, peraltro, che essi stessi alimentarono volontariamente, assecondando ora questa ora quella teoria, ora questa ora quella leggenda.
François de Vaux de Foletier, autore del saggio "Mille anni di Storia degli Zingari", uno dei testi più interessanti della moderna ziganologia, ha riassunto con accuratezza i molti nomi coi quali essi sono stati denominati nelle diverse nazioni ove si fermarono e le molte leggende che li hanno accompagnati nel loro lungo cammino.
Tra questi nomi, quelli che hanno un'effettiva origine indiana, e nei quali gli stessi Zingari si riconoscono, ricordiamo Rom, Sinti, Kalé e Manush, che verrebbe dal sanscrito Manushya e che significherebbe "uomo libero": non dimentichiamo però che le vere auto-denominazioni dei diversi gruppi sono ancora oggi oggetto di studio perché generalmente poco conosciute.
Gli altri appellativi seguiranno invece le impronte del mito e del pregiudizio. Il colore scuro della pelle li fece chiamare Negri in Francia, Tartari Neri in Svezia, Mustaleinen in Finlandia.
La presunta appartenenza alla setta greca degli Athinganoi fece nascere il termine Tchinghiané in Turchia, Ciganin in Serbia, Cygan in Polonia, Zigeuner in Germania e in Olanda, Zeginer in Svizzera, Zigenar in Svezia, Cingan in Francia, Cigano in Portogallo, Zingaro in Italia.
Ancora: vennero appellati Bohémiens (perché ricevettero, o dissero di aver ricevuto, alcuni salvacondotti da Sigismondo di Boemia), Filistei (perché d'ipotetica origine ebrea), Saraceni (perché pagani e provenienti dall'Est), Egiziani e Faraoni (perché in parte provenienti da quella regione del Peloponneso chiamata, per la sua fertilità, Piccolo Egitto).
Ai tanti nomi corrisposero poi altrettante leggende, nate di solito dalle "dotte" dissertazioni di filosofi e uomini di religione. Henri Cornelius Agrippa, nella sua "Dichiarazione sull'incertezza, vanità e abuso delle scienze", pubblicata nel 1530, volle gli Zingari discendenti di Cus, figlio di Cam, figlio di Noé, e perciò condannati per sempre dalla maledizione del loro progenitore.
Per Giorgio Esseney, che lo scrive nel 1798, erano invece i superstiti di Sodoma e Gomorra, cacciati dalla regione di Zoar dai discendenti di Lot. Altri, citando la Genesi, li credettero discendenti diretti di Caino, tramite Jubal e Tubalcain, pro genitori di tutti quelli che "suonano la cetra e la zampogna" e di quelli che "costruiscono arnesi di rame e di ferro".
Di volta in volta gli Zingari divennero una delle dieci tribù perdute d'Israele, i discendenti di Abramo e Sara, di Adamo e di una prima moglie che precedette Eva, dei misteriosi Sicani che abitarono la Sicilia prima dei siciliani, dei Titani indo-tartari padroni della Terra, dei Maghi di Caldea e di Siria, degli Uxii sottomessi da Alessandro, degli Egiziani, dei Trogloditi, dei Mamalucchi, dei Druidi celtici, dei Persiani adoratori del fuoco, dei Sacerdoti di Iside, dei soldati di Erode, dei Fenici, degli abitanti di Atlantide.
E per finire, incredibile ma assolutamente vero, Jean Alexandre Vaillant, nel suo "Les romes. Histoire vraie des vrais Bohèmiens", del 1857, giunse ad ipotizzare che furono proprio questi uomini e queste donne misteriose a dare il proprio nome a Romolo, fondatore di Roma, e a inventare, diversi secoli prima dell' era cristiana, il Vangelo.
Questo fenomenale lavorio di fantasia, che spesso precedette sanguinose persecuzioni, ha sempre rappresentato, - nel bene come nel male, il disperato tentativo del mondo europeo di riportare all'interno di schemi culturali conosciuti un'alterità che, per la prima volta, si era annidata senza ritegno all'interno dei propri confini. L'origine del Popolo degli Uomini, troppo differenti dai barbari e altrettanto diversi dai Buoni, o Cattivi, Selvaggi di oltre Mare Oceano, rimase nella più assoluta oscurità sino a quando la ziganologia non si avvalse dell'apporto della filologia comparata e dell' antropologia.

La vita in India

Secondo E. Rabino Massa e M. Masali, professori ordinari alla Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell'Università di Torino, il primo ad accostare le parlate zingare alle lingue indiane, fu, in Olanda nel 1763, Etienne Vali, un pastore protestante ungherese. Egli, ascoltando per caso le conversazioni di un gruppo di studenti indiani, si rese conto che molti vocaboli da loro utilizzati erano simili a quelli usati dagli Zigeuner dei quali aveva fatto conoscenza.
Questa intuizione venne poi ripresa e approfondita da alcuni filologi e, nel 1777, il tedesco Rudiger espose pubblicamente la nuova teoria col suo "Von der Sprache und Herkunft der Zigeuner" (della lingua e dell' origine degli Zingari), che venne poi pubblicato nel 1782.
Da questo momento la filologia zingara diventò, secondo il De Foletier, "... una vera scienza, grazie soprattutto al tedesco Pott (nel 1844), al greco Pospati, all' austriaco Miklosich, all'italiano Ascoli".
Ancora oggi numerosissimi filologi continuano a studiare la lingua zingara, la "romani cib", o romanés, che è una lingua della famiglia indo-europea il cui vocabolario e la cui grammatica sono rapportabili al sanscrito e che si può accostare ad un gruppo di parlate indiane quali l'Hindi, il Mahrati, il Guzurati e il Kashmiri.
Ma, una volta risolto il problema delle origini, altre questioni restavano
e restano tutt' ora aperte.
In che regione vivevano esattamente? E a che gruppo etnico, a che classe sociale appartenevano? Ed ancora, perché ad un certo punto della loro storia scelsero la via dell'emigrazione che, nello spazio di diversi secoli, li ha portati praticamente in ogni punto della terra?
Domande alle quali non è stato facile rispondere.
Una delle ipotesi più accreditate sulla classe sociale di appartenenza nasce dal rapporto tra i termini Rom e Dom, che in India era il nome di un vasto insieme di diverse tribù molto note sin dai tempi antichi. In un testo di astronomia in sanscrito i Dom sono noti come "Gandharva", musici, e altre fonti li citano come ottimi lavoratori dei metalli.
Altre parentele linguistiche accomunerebbero gli Zott (come vennero chiamati gli Zingari in Persia) ai Djatt del Punjab. I Luri, i Multani e i Sindi sarebbero originari di territori adiacenti al fiume Indo.
La maggior parte degli ziganologi è arrivata comunque alla conclusione che la regione d'origine, seppur imprecisata, sarebbe da ricercarsi nel Nord-est dell'India e la loro classe sociale, anche in base a quanto scritto in una Cronaca Kashmiri del XII secolo - che associava i Dom ai "candala" (intoccabili) sarebbe stata quella dei Paria.
Contro queste tesi si è scagliato, con molta ed esacerbata fermezza, l'etnologo zingaro Kochanowski.
A suo parere l'accostamento degli Zingari ai Paria indiani sarebbe solo il frutto di una deduzione senza alcun riscontro, il frutto di ricerche, cioè, non condotte a fondo e che tenderebbero a giustificare in qualche modo sia le persecuzioni terribili che nel corso dei secoli si abbatterono in Europa sui Rom e sia la drammatica situazione nella quale gli Zingari si dibattono ancora ai giorni nostri nella maggior parte delle nazioni. Il fatto che in Europa essi fossero ridotti ad una vita da Paria non significherebbe, secondo l' etnologo, che così vivessero anche in India.
L'ipotesi del Kochanowski è che i Romané Chavé (gli Zingari d'Europa), siano invece i diretti discendenti di alcune caste aristocratiche e militari: quelle dei Kshattriyas e dei Rajputs del Rajasthan.
Un'ipotesi secondo la quale la prima grande ondata migratoria avvenne molto tempo prima dell'anno mille, verso la Mesopotamia e poi verso la Grecia, quando, intorno all'ottavo secolo d.c., i Ksattriyas sinti restarono vittime di una terribile carestia. Quattro secoli più avanti, nel 1192, sarebbero stati i Rajputs ad abbandonare le loro terre, a causa di una devastante sconfitta militare. Questi ultimi avrebbero poi raggiunto in Grecia i Ksattriyas e i due gruppi avrebbero dato origine alla stessa etnia: la Romani.
Kochanowski crede di trovare diverse conferme alle sue teorie negli studi di linguistica e di antropologia.
La lingua Hindi e quella Romanés risulterebbero simili ancora oggi per un gran numero di vocaboli e, dato che egli considera molto significativo, esse sarebbero simili sia in positivo che in negativo: i termini che sono presenti nell'una sarebbero presenti anche nell'altra e quelli che risultano assenti dall'una lo sarebbero anche dall'altra. La morfologia del Romanés sarebbe poi la stessa dello Jodhpuri della regione del Rajasthan.
Anche dal punto di vista antropologico i Romané Chavé sarebbero fisicamente e culturalmente simili alle antiche caste aristocratiche e militari. L'antropologo indiano D.N. Majumdar, nella sua classificazione dei gruppi sanguigni indiani, ha messo in evidenza le somiglianze tra i Kshattryas e i Romané Chavé.
Ma c'è ancora un'altra similitudine. I Banjara, che sono considerati gli Zingari d'India, e che secondo Kochanowski sarebbero dei Rajputs leggermente "imbastarditi", avrebbero tradizioni orali molto simili a quelle degli Zingari d'Europa.

Queste teorie sulle origini dei Rom non vengono accettate dalla maggior parte degli ziganologi, secondo i quali mancherebbero di maggiori riscontri. In merito alla data d'inizio delle grandi migrazioni, essi continuano a basarsi sulle prime fonti documentali: gli scritti dello storico arabo Hamzah d'Hispahan e quelli del poeta persiano Firdusi, che, rispettivamente nel 950 e nel 1011 dopo Cristo, raccontano di come e quando si verificarono le prime apparizioni degli Zingari oltre i confini dell'India.

Capitolo secondo: dall'Iran alla Grecia

In quel paese in cui il sole sorge dietro una montagna scura, c'è una città grande e meravigliosa, ricca di cavalli. Tanti secoli fa tutte le nazioni della terra viaggiavano verso quella città, a cavallo, a dorso di cammello, a piedi...
Tutti vi trovavano rifugio e accoglienza... C'erano pure alcune nostre bande. Il sovrano di quella città li accoglieva con favore... Vedeva che i loro cavalli erano ben curati e propose loro di stabilirsi nel suo impero. I nostri padri accettarono e piantarono le loro tende nelle verdi praterie. Là vissero a lungo, contemplando con riconoscenza l'azzurra tenda dei cieli... Ma il Destino e gli spiriti del male vedevano con dispiacere la felicità del popolo dei Rom. Allora mandarono in quelle contrade serene i malvagi cavalieri Khutsi, che appiccarono il fuoco alle tende del popolo felice e, dopo aver passato gli uomini a fil di spada, ridussero in schiavitù le donne e i bambini.Tuttavia molti riuscirono a fuggire e da allora non osano più sostare a lungo nello stesso posto.

leggenda zingara 

Zott, Luri, Ghagar

Secondo G. Macaluso, alcune Cronache Bizantine risalenti all'835 parlano di diversi raggruppamenti umani presenti allora in Cilicia, nell' Anatolia Sudorientale, che avrebbero avuto tutte le caratteristiche proprie delle prime tribù zingare.
Questa fonte però non è mai stata considerata attendibile da molti storici perché ritenuta imprecisa e perché forse faceva riferimento a diverse popolazioni.
Così la fonte ritenuta unanimemente valida, resta quella dello storico arabo Hamzah d'Hispahan (Hamzah Ibn Hasan-al-Isfalani) che, pressapoco nell'anno 950, scrive la sua Storia dei Re di Persia. Nel testo dello storico arabo si racconta di come il Re Behràm-Gor, che amava a tal punto il suo popolo da permettergli di dedicare solo metà giornata al lavoro, riservando l'altra metà alle feste e ai divertimenti, si rammaricasse accorgendosi che i musicisti presenti nel suo Paese non bastavano a rallegrare tutti coloro che ne avevano necessità.
Behràm-Gor allora pensò bene di chiedere aiuto al Re d'India che, da parte sua, provvide immediatamente ad inviargli dodicimila musicisti Zott.
Alcuni decenni dopo il racconto dello storico, la stessa storia, ma con alcune variazioni, viene riportata dal poeta persiano Firdusi nel suo poema epico Shah-Nameh, o Libro dei Re, che narra le vicende dell'Iran dalle sue origini sino alla conquista islamica (VII sec.).
Questa volta i musici e i giocolieri giunti dall'India non sono più gli Zott ma i diecimila Luri che, nel 420 a.c., vengono inviati a Behràm-Gor da suo suocero Re Shengùl di Camboya. I Luri, o Luli, che erano abilissimi nella difficile arte del liuto, in cambio delle loro prestazioni, ricevettero dal sovrano una grande quantità di buoi, asini e frumento, in modo che, se lo avessero realmente desiderato, si sarebbero potuti trasformare in agricoltori, cioè sedentari.
Ma i musici ben presto mangiarono tutti i buoi e consumarono tutto il frumento; così non restò loro che tornare dal Re a chiedere perdono e aiuto. Behram-Gor non li perdonò affatto, anzi li cacciò per sempre condannandoli al nomadismo.
Così scrisse Firdusi nel Shah-Nameh: ... vanno pel mondo i musici raminghi, il viver gramo intenti a sostener. Di via compagni e compagni di tetto han lupi e cani.
Per quanto le opere di Hamzah e di Firdusi siano considerate in parte attinenti alla storia e in parte ad una leggenda del tutto letteraria, testimoniano comunque che, già molto tempo prima del decimo secolo, un popolo di origine indiana era noto in Persia per le proprie capacità musicali e per la poca attitudine alla stanzialità.
Sul soggiorno degli Zingari in Persia, che sicuramente si è sviluppato in periodi di tempo assai lunghi, testimoniano, ancora una volta, gli studi di linguistica comparata. Il vocabolario di questi gruppi, e probabilmente si trattava di differenti tribù con differenti parlate, si contaminò e si arricchì di svariati termini persiani.
Diversi di questi termini risultano essere ancora presenti nelle parlate degli Zingari europei, come Darav (mare) o Vés (Vos = bosco nel dialetto xoraxané dei Roma presenti in Italia).
Gli Zingari che vivevano in Persia, secondo John Sampson, autore di «On the Ori gin and early Migrations of the Gypsies», si divisero ad un certo punto della loro storia in due diversi gruppi che si distinguevano per il modo di pronunciare alcuni suoni: gli Zingari Ben e gli Zingari Phen.
Dei Ben ancora oggi si sa poco o nulla: vennero chiamati Kurbat (vagabondi) in Siria e Zott nelle vicinanze della Palestina. A questi ultimi si riferirebbero forse le Cronache Bizantine: un gruppo di essi sarebbe stato fatto prigioniero, ridotto in stato di schiavitù e poi condotto all'interno dell'Impero.
L'unica cosa certa è che i Ben si diffusero in Asia Occidentale: la loro presenza è stata documentata con certezza in Iran e nello Yemen. In Egitto, chiamati Ghagar, vennero individuati nel XVI secolo, all'interno della valle del Nilo, da Pierre Belon.
Gli Zingari chiamati da Sampson Phen Gypsies, si sarebbero allontanati invece dalla Persia dopo l'invasione araba, procedendo poi verso l'Armenia, dove acquisirono altri nuovi vocaboli (Grast = cavallo, Grah nell'attuale xoraxané).
Dalla zona transcaucasica, forse addirittura sin dall'XI secolo, quando Bisanzio combatteva contro gli eserciti dei Turchi Selgiuchidi, presero a spostarsi verso l'Occidente e questo esodo si fece via via sempre più imponente.
Quando Simeon Simeonis e Ugo l'Illuminato li incontrano per la prima volta nell'isola di Creta, secondo il De Foletier termina per sempre la loro preistoria e inizia quella Storia che ancora oggi si tenta faticosamente di ricostruire. Dall'isola di Creta si sparsero poi verso Cipro, Rodi e Corfù. Qui, nel 1386, il Governatore di Venezia, tanto erano numerosi, concesse loro diversi privilegi: confermò in pratica i diritti acquisiti da un vero e proprio feudo, il Feudum Acinganorum, istituito in precedenza dagli Angioini e governato da un capo militare, il Drungarius.
Tutti gli Zingari del feudo erano sottomessi al Barone che, quale tributo, riceveva quindici aspri e una gallina per ogni adulto che avesse famiglia. Il pagamento di questi tributi avveniva nel corso di una cerimonia che si ripeteva tre volte all'anno, in maggio, in agosto e per il Capodanno.
Si tratterà probabilmente di una coincidenza, dato che le ricorrenze religiose zingare si sono poi accresciute attraverso il contatto con altre popolazioni, spesso uniformandosi ad esse, ma, oggi, nei gruppi Roma di origine slava presenti in Italia, si festeggiano proprio gli stessi periodi dell'anno: il Gurgevdan, o Festa di Primavera (in maggio), la Festa di Mezza estate (in agosto), e il Capodanno, che è ricorrenza ugualmente importante.
Il maggior insediamento nel Peloponneso era forse quello di Modon, nella Morea sud-occidentale, che, secondo il Colocci, fece dire allo scrittore bizantino Mazonis che gli Acingani erano ormai diventati la maggioranza della popolazione.
I territori intorno a Modon venivano chiamati «Terre del Piccolo Egitto», forse a causa di una non comune fertilità delle campagne.
Questo insediamento mantenne la sua importanza per diversi secoli: la sua gente viveva in capanne dal tetto di canne, esercitava il mestiere di calzolaio, o di fabbro (utilizzando il doppio mantice di chiara origine indiana), ed appariva, tutto sommato, abbastanza povera.
Prima delle successive migrazioni verso il cuore dell'Europa, la gente di Modon e degli altri insediamenti zingari nell'area del Peloponneso, attinse dal greco numerosissimi vocaboli: Drom, la strada, la parola forse più emblematica del popolo Rom, è appunto di origine greca.
Da queste regioni, a partire dagli inizi del '400, gli abitanti del Piccolo Egitto e presumibilmente anche quelli che risiedevano in altre zone limitrofe, ripresero il loro secolare cammino. All'inizio forse non si trattò di una vera e propria migrazione, bensì di qualche timido approccio teso più che altro a saggiare la vivibilità dei nuovi sconosciuti territori, dei quali, sicuramente, essi avevano già sentito parlare dai viaggiatori italiani, francesi, spagnoli, tedeschi e inglesi che avevano visitato il Peloponneso.
Il Colocci riporta una delle prime descrizioni di queste carovane in cammino: «Re, principi e capi a cavallo e la turba in confusione dietro di essi, scalza e a capo nudo...».
Le speranze che questi primi gruppi dovevano nutrire in una nuova vita in Occidente dovevano essere davvero grandi e altrettanto lo erano i rischi verso i quali sarebbero andati incontro.
Alcuni altri gruppi, che già da tempo vivevano in Valacchia e in Moldavia, erano stati ridotti in schiavitù: quaranta intere famiglie di Atsingani vennero donate nel 1370 da Vladistas di Valacchia ai Monastero di Sant'Antonio, vicino a Voditza. Donazione che venne poi confermata una quindicina di anni più avanti dal Voivoda Mircea I, nipote di Vladistas.
Ma gli Zingari che si misero in cammino sembravano piuttosto capaci di discernere le zone pericolose da quelle che sembravano essere più accoglienti.
Questa buona accoglienza, quando si verificò, durò però per poco tempo.
Poi, dappertutto, iniziarono le persecuzioni.

Capitolo terzo: in Europa

 Un cavallo, che sta fermo troppo a lungo in un posto, avrà prurito alle zampe

proverbio kalderasha

La diffusione in Europa

Secondo alcuni studiosi i nomadi che nel XV secolo presero ad addentrarsi in Europa lo fecero essenzialmente per due motivi: la spinta dei Turchi e la fuga dalla schiavitù. Non si sarebbe trattato insomma di un' emigrazione dovuta solo a motivi economici.
Gli Ottomani, in rapida espansione verso Costantinopoli, la Serbia e la Bulgaria, avevano creato, o lasciato presagire laddove ancora non erano arrivati, un immenso territorio devastato dalle battaglie e assoggettato alle loro dure leggi.
Gli Zingari, fra i quali anche quelli che già tentavano di allontanarsi dai territori della Moldavia e della Valacchia nei quali erano stati ridotti in schiavitù, cominciarono allora a costituire le prime variopinte carovane destinate ad attraversare l'intero continente.
La primissima apparizione è in Transilvania nel 1416: centoventi «poveri pellegrini» guidati dal Signore Emaus d'Egitto.
Un grosso gruppo entrò poi in Germania e riuscì ad ottenere dall'imperatore Sigismondo, re di Boemia e d'Ungheria, quelle lettere di protezione che tanto verranno utilizzate nei successivi decenni di viaggio. Un accurato esame filologico delle copie di queste lettere - copie più o meno diffuse, al pari di quelle papali, presso parecchie carovane zingare - ha dimostrato che le varianti tra l'una e l'altra non erano molte: «... essi probabilmente venivano ritoccati dagli stessi zingari, menzionando i motivi di volta in volta più utili ai loro portatori, e le date venivano cambiate man mano che il tempo passava».
Nel 1417 e nel 1418 lo stesso gruppo, ingrossatosi pare sino a 300 persone tra uomini, donne e bambini, attraversa la Germania in lungo e in largo.
Visita tra le altre le città di Soest, Ltinemburg, Amburgo, Lubecca e Rostock, Lipsia e Francoforte sul Meno.
Già dal 1418 vengono segnalati in Svizzera, nei Grigioni, a Zurigo, a Berna e a Basilea: vengono chiamati Heiden, cioè pagani.
Dal 1419 è la volta della Francia. Il 22 agosto un gruppo di Saraceni apparve a Chàtillon sur Chalaronne. Presentano dei salvacondotti dell'Imperatore e del Duca di Savoia (al quale la cittadina era soggetta) e ricevono in dono vino, avena e un po' di denaro.
Questo gruppo è lo stesso, diventato poi assai famoso, guidato dal Duca Andrea del Piccolo Egitto.
La carovana si recò poi a Saint-Laurent de Macon, dove ebbe in dono sessantasei Tornesi (moneta coniata dalla Zecca di Tours), e a Sisteron, dove ricevette pane, carne di montone, vino e avena. Il Duca Andrea, nel 1420, venne ricevuto a Bruxelles e a Deventer, nei Paesi Bassi. Dalle autorità della prima città ricevette birra, vino del Reno, una vacca e due montoni; da quelle della seconda birra, aringhe fresche e affumicate.
L'anno successivo, in Francia, insieme al gruppo del Duca Andrea, comparve un'altra carovana guidata dal Duca Michele, che si diceva suo fratello e che a Tournai si presenterà invece con l'appellativo di Principe di Latinghem in Egitto. La città di Tournai offrì al Duca Michele dodici montoni d'oro, pane e birra.
Nel luglio 1422 il Duca Andrea giunse in Italia. Viene segnalato prima a Bologna, poi a Forlì, poi sulla strada per Roma, intenzionato a chiedere protezione e nuovi salvacondotti a papa Martino V.
Gli storici non escludono che il Duca sia davvero riuscito a farsi ricevere dal pontefice e che da esso abbia poi ricevuto alcune bolle e alcune lettere di accompagnamento, per quanto negli archivi vaticani non vi sia traccia di una sua visita ufficiale. Fatto sta che a partire da qualche tempo dopo, sia il Duca Andrea che numerosi altri capi zingari, presero ad esibire documenti firmati da Martino V.
Una traduzione di uno di questi documenti è stata ritrovata in Lorena:
«Tutte le autorità ecclesiastiche e civili sono richieste di lasciar passare liberamente nel mondo, per terra e per mare, il Duca Andrea del Piccolo Egitto e tutta la sua truppa, con i loro cavalli e i loro beni, senza pagare alcuna tassa né diritto di passaggio, e sono promesse grazie eccezionali di assoluzione (è rimessa la metà dei peccati) aifedeli che si mostreranno generosi nei confronti di quei pellegrini».
Dei gruppi zingari che entrarono in Italia alcuni vi si stabilirono (mantenendo però la pratica del nomadismo), altri fecero ritorno in Francia. Dei gruppi restati in Italia, è ancora solo un'ipotesi sulla quale non tutti sono d'accordo, forse derivano le popolazioni Rom dell' Abruzzo.
Nel 1425 gli Zingari arrivarono anche in Spagna e poi in Portogallo. Il Re d'Aragona concesse un salvacondotto a don Johan de Egipte Menor.
In Polonia la loro prima presenza è registrata nel 1428 a Sanok, nella Subcarpazia, dove vennero chiamati Zingari delle Montagne, ai quali si sarebbero poi aggiunti, provenienti dalla Germania, gli Zingari delle Pianure. Dalla Polonia essi si diffusero in Lituania e nella Prussia orientale.
Nel mentre in Francia, in Italia e nei Paesi Bassi le carovane si facevano sempre più numerose, ma, a partire dalla seconda metà del XV secolo, cominceranno anche le prime discriminazioni che saranno destinate, più avanti, a trasformarsi in vere e proprie persecuzioni.
Alla fine del secolo gli Zingari si erano ormai diffusi in molte nazioni. In Danimarca giunsero presumibilmente agli inizi del nuovo secolo, in Svezia nel 1512: il 29 settembre il Conte Antonius giunse nella città di Stoccolma.
L'arrivo in Inghilterra è dato per incerto, mentre in Scozia, dove godettero per un certo tempo della protezione dei Re Giacomo IV e Giacomo V, l'anno sarà ufficialmente il 1505. Più probabilmente il loro arrivo, sia in Scozia che in Inghilterra, fu invece precedente.
Nel 1501 i primi Zingari entrarono in Russia, provenienti dalla schiavista Valacchia. Qui riuscirono a trovare condizioni di vita tutto sommato accettabili.
Non così successe nelle altre nazioni. Furono proprio le persecuzioni subite in Europa che portarono gli Zingari in altri continenti. In Portogallo si cominciò a progettare organicamente la loro espulsione sin dai primi decenni del secolo, ma solo parecchi anni dopo cominciò la vera e propria deportazione verso l'Africa e le Americhe. I portoghesi, facendogli fare a ritroso la strada percorsa dai loro antenati (ma solo metaforicamente dato che le deportazioni avvenivano via mare), li rispedirono sino alla lontana India. Più avanti la meta forzata dei Ciganos sarà anche il Brasile.
Stesso destino ebbero i Gitani spagnoli, inviati in Africa e in America. A Buenos Aires vennero chiamati Chiganeros.
Dalla Francia vennero inviati in Martinica e in Louisiana (alcuni coloni zingari volontari riuscirono ad ottenere delle abitazioni a La Nouvelle Orleans).
Dalla Gran Bretagna giunsero sino alla Giamaica e alle Barbados, dalla Scozia sino alla Virginia.

La paura della diversità

Una delle analisi che tentano di spiegare il perché l'Europa si rivelò in una prima fase addirittura accogliente, ma poi così crudele nei confronti degli Zingari, accredita ad essi tutte, o quasi, le colpe.
Sarebbero stati loro quindi, con i loro comportamenti anomali (magie, trucchi e piccole illegalità), a provocare la reazione di una società che si sentiva minacciata e che tentò perciò in maniera legittima di eliminare con brutalità il corpo estraneo.
Nelle cronache e nei vari resoconti dell'epoca, si mettevano in risalto soprattutto tre aspetti:
1) La loro bruttezza fisica (questa quasi negritudine che terrorizzava una società abituata ad identificare il «nero» come colore demoniaco).

2) Le loro capacità divinatorie (alle quali venivano omologate, in un crogiuolo tutto stregonesco, anche alcune conoscenze di ordine chirurgico e farmacopeico che essi realmente possedevano).
3) La destrezza nei piccoli furti, la mendicità e l'inventiva nell'esecuzione di piccole truffe (il Cervantes parlava di «voglia di rubare e il furto» quali sentimenti inseparabili che non si quietano se non con la morte).
Il quadro generale che vien fuori da queste descrizioni emette un giudizio secco: gli Zingari sono tutti accattoni, ladri e imbroglioni, disonesti per natura e incapaci di qualsiasi lavoro e di qualsiasi attività economica autonoma e legale. In realtà le cose non stavano affatto così.
Kochanowski, nella sua accorata difesa dei Romané Chavé, ha tentato di ribaltare i luoghi comuni: i Kshattriyas e i Rajputs destinati a diventare i paria d'Europa, a suo parere, sarebbero stati tutto fuorché un'accozzaglia di ladri e accattoni, e se lo diventarono fu perché, a causa delle discriminazioni, gli fu impedito di esercitare altre professioni nelle quali erano molto capaci.
Secondo lo studioso gli Zingari d'Europa erano abilissimi in tutte le attività che un tempo erano state in relazione alla loro appartenenza alle caste guerriere:
- tutto ciò che riguardava la produzione di armi bianche e da fuoco;
- l'uso di queste armi;
- la strategia militare.;
- l'arte veterinaria;
- la conoscenza delle lingue straniere.
Le donne sarebbero state invece capaci di insegnare la musica e la danza, il teatro e l'arte delle marionette. Sarebbero state anche abilissime nella farmacopea.
Queste tesi di Kochanowski, come in parte le accuse di mendicità e di piccola illegalità, sono sicuramente vere.
Gli Zingari erano assai esperti di cavalli, ottimi cavalieri, ottimi commercianti (ci fu un periodo in cui gran parte del commercio degli equini passava per le loro mani), ottimi veterinari e, laddove gli veniva concesso, anche ottimi allevatori. Oltre ai cavalli possedevano e commerciavano anche asini e muli.
Un'altra risorsa economica era costituita dall'attività di ammaestratori: gli Ursari, ancora adesso molto noti, catturavano gli orsi nei Carpazi, li ammaestravano e con essi poi divertivano il pubblico nelle feste o nelle fiere di paese.
Ancora oggi nella topografia rumena esistono nomi quali Ursari e Tsiganesti Ursaria.
Questa abilità, unita a quelle nei giochi di prestigio e, più tardi, allo sviluppo di particolari doti acrobatiche, li porterà dopo secoli di spettacoli di piazza a costituire numerose dinastie circensi (come quelle dei Sinti piemontesi).
In Moldavia e in Valacchia erano invece ben noti, sin dai tempi antichi, come validi burattinai. Presso la nobiltà, che contrariamente a quanto si potrebbe supporre spesso li proteggeva, gli Zingari d'Europa, uomini e donne, venivano impiegati come istruttori e istruttrici di scherma: sembra che insegnassero questa disciplina addirittura agli spadaccini francesi, che pure avevano fama di essere tra i migliori del continente.
Nei Paesi Baschi, nel XVIII secolo, si dedicarono alla pesca d'alto mare del merluzzo e della balena.
Ma i mestieri più classici restavano sicuramente quelli relativi all'arte del metallo. In Romania erano noti come «discepoli di Vulcano» e qualche ziganologo accredita proprio alla loro maestria di fabbri, chiodatori e maniscalchi la messa in stato di schiavitù: sarebbero diventati tanto indispensabili all'economia di quei territori che le autorità, per impedirne per sempre il nomadismo che li avrebbe portati lontano, ne decretarono la schiavitù come un tempo si faceva con i servi della gleba obbligati a non staccarsi dalla terra che lavoravano.
Questa fama di «maestri del ferro» li accompagnò tanto a lungo che, nella Palermo di alcuni secoli dopo, il Senato cittadino promulgò uno statuto per le «Maestranze dei forgiatori seu Zingari», che annoverava tra i suoi fabbri ferrai anche chi Zingaro propriamente non era.
Oltre che abili lavoratori del ferro i Romané Chavé furono anche buoni calderai, cioè abili lavoratori del rame.
Queste abilità però, oltre a tessere le fila dell'invidia e della concorrenza sleale degli artigiani occidentali, non mancarono di creare nuove diffidenze nei loro confronti.
Secondo la Narciso la civiltà europea: «... associava la metallurgia agli dei rappresentativi del male. Nell'immaginario collettivo, i laboratori dei fabbri e dei maniscalchi, la luce rossiccia del fuoco che illuminava i volti di quegli uomini ricordavano le rappresentazioni iconografiche dell'inferno. I fabbri, sorta di artefici-stregoni, vivevano ai margini delle città; il loro mestiere, e persino il loro aspetto fisico, i loro abiti rozzi e la fuliggine che anneriva i loro volti simboleggiavano nel folklore europeo, i segni visibili della loro appartenenza al regno di Satana».
D'altra parte gli stessi Zingari non smentivano affatto queste paure: anzi spesso si vantavano di avere magici poteri sul fuoco. Il che, a lungo andare, non mancò di aggiungere calunnia a calunnia.
Innumerevoli furono comunque le altre attività svolte. Furono minatori in Bosnia; cercatori d'oro in Transilvania, in Moldavia e in Valacchia; artigiani del vimini e del legno nei Balcani e in Francia; commercianti ambulanti sempre in Francia e in tutte le altre nazioni.
Non si può inoltre scordare la loro abilità come musicisti, abilità per la quale, nella letteratura mondiale, la parola zingaro è diventata sinonimo di musicista.
In realtà non era dunque vero che essi non sapessero esercitare alcuna attività: ma questi mestieri, nella generalità dei casi, venivano loro vietati nell'Europa occidentale, soprattutto per il volere delle potenti corporazioni degli artigiani e dei commercianti, che facevano pressione nei confronti delle autorità civili e religiose perché agli Zingari venissero proibite pari opportunità.
I forgiatori parigini, per esempio, pretesero in un determinato periodo l'allontamento dei Nomadi dalla città e la stretta sorveglianza di tutte le forge in modo che fosse impedito loro di utilizzarle.
In questo modo, nell' economia di un popolo che prima di ogni altra cosa desiderava poter preservare la propria autonomia e la propria unità etnica all'interno delle aggregazioni basate sui grandi Clan familiari, non potevano non assumere preponderante importanza altri tipi di attività che, per motivi di diverso ordine e grado, irritarono popolazioni e autorità.
Prima fra tutte l'arte divinatoria, esercitata dalle donne. Un'arte che, ovviamente, a loro stesso dire, era solo un espediente per poter sopravvivere e che faceva leva sulle superstizioni tipiche della cultura occidentale.
La moglie del Duca Andrea del Piccolo Egitto, nel 1422 a Bologna, diceva che «... la sapeva indivinare e dire quello che la persona dovea havere in soa vita et anche quello che havea al presente, et quanti figliuoli haveano et se una femina gli era bona o cativa, et s'igli haveano difecto in la persona; et de assai disea el vero e de sai no».
Questa abitudine, che provocò la condanna irremovibile della Chiesa, risultava peraltro essere assai ricercata non solo dalla gente del popolo, ma anche dai cavalieri, dalla nobiltà e, in qualche caso, addirittura da Re e Imperatori. Molto probabilmente, come ha scritto Frascari: «... fu la domanda che aumentò l'offerta, indirizzandosi spontaneamente verso un popolo che, per sua indole naturale, aveva sempre amato avvolgersi nel mistero, stupendo e meravigliando il grigio occidente con ogni sorta di malie e furbizie».
Gli Zingari insomma si adattarono, per necessità, ad impiegare la loro arguzia ai danni di una civiltà che in quei secoli viveva una religiosità contorta e violentemente intrisa della paura del male, proiettata, ancora a metà strada tra paganesimo contadino e mistica cittadina, verso un futuro carico di oscuri presagi. Certamente furono le stesse paure che permettevano agli Zingari di vendere le loro «predizioni», che poi favorirono in modo consistente le persecuzioni.
Insieme alle arti divinatorie le Zingare esercitavano anche quelle della magia bianca e della guarigione, possedendo, almeno nel secondo caso, doti e conoscenze che certo non erano inferiori a quelle dell'epoca. Conoscevano l'uso delle erbe medicinali e gli stessi unguenti, le stesse pozioni che vendevano ai gagé, venivano da loro utilizzate per guarire la propria gente.
L'attività della medicina veniva praticata anche dagli uomini. Parecchi di essi si definivano erboristi e chirurghi: dovettero dimostrarsi assai capaci se, in un certo periodo, i chirurghi olandesi presero a fare tirocinio presso di loro.
Ma anche questa attività, così come i tradizionali mestieri, venne loro proibita.
N on c'è quindi da stupirsi se lo stereotipo più pregnante costruitosi nel corso dei secoli, e rimasto intatto sino ai giorni nostri, sia quello dello Zingaro mendicante e ladro. Per essere ladri e mendicanti, data l'epoca e le ristrettezze a cui erano sottoposti, non ci voleva poi molto: in Europa non furono certo loro ad importare una pratica che era tanto diffusa da essere considerata una vera e propria piaga sociale.
A partire dal '400 diversi opuscoli divulgativi si occuparono specificatamente del vasto mondo dell'accattonaggio e del piccolo imbroglio. Un mondo tanto vasto da richiedere addirittura opportune classificazioni. Teseo Pini, ecclesiastico e giurista di Urbino, nel suo «Speculum Cerretanorum», enumera ben quaranta diverse categorie di mendicanti e truffatori: tra queste quelle dei Cerretani, degli Affrates, dei Falsibordones, degli Acatosi, degli Affarfantes, degli Acapones, dei Felsi, dei Pauliani, dei Bigamizantes etc. Ma, per quanto diffusa, l'attività dell' accattonaggio e della piccola illegalità non venne certo perdonata ai Nomadi.
Così la buona accoglienza riservatagli inizialmente venne ben presto a mancare e, se buona accoglienza era stata, lo era stata solo in virtù del rispetto, o del timore, dovuto a quelle credenziali papali e imperiali che gli Zingari erano stati tanto previdenti da procurarsi.
La loro oscura origine, i loro usi e costumi che si mantenevano ostinatamente autonomi e differenti da quelli circostanti, il loro stesso tipo fisico e la pratica del nomadismo, provocarono condanne, calunnie, miti e leggende mostruose.
Un religioso, Pierre Crespot, dice: «... sono dediti a magie e incantesimi e non hanno religione alcuna. Fanno professione di stregoneria...».
Sancho de Moncada, teologo spagnolo, li considera atei ed eretici. Cattolici, calvinisti e luterani (Lutero in persona), gli erano profondamente ostili. Ai sacerdoti protestanti svedesi venne impedito di battezzare i bambini zingari e di seppellire i morti. Agli stessi Zingari venne proibito l'accesso nelle chiese.
Nel XVII secolo, ma in alcune nazioni assai prima, si proibì alla popolazione civile di avere un qualsiasi contatto con la gente nomade: non si poteva ospitarla, frequentarla, parlarle, venderle generi di prima necessità.
Fra i tanti errori commessi dai «Figli del Vento», ciò che restava imperdonabile ed imperdonato, era l'antagonismo irrinunciabile ai tre massimi poteri dell'epoca: antagonisti agli Stati, perché portatori di proprie leggi; antagonisti alle Chiese, perché capaci di arti divinatorie proprie e perché poco propensi ad una reale conversione; antagonisti alle corporazioni dei commercianti, dei musici e degli artigiani, perché abili commercianti, abili musici, abili artigiani.
Ma a questo non c'era più modo di porre rimedio. Il cerchio si era chiuso:
iniziarono le persecuzioni e l'etnocidio.

Le persecuzioni

Mirella Karpati così ha scritto sulle persecuzioni che si scatenarono soprattutto a partire dagli inizi del XVI secolo: «Per secoli la forca, il rogo, il bando e la frusta accompagnarono la sorte di un'etnia cui la squisita sottigliezza occidentale negò perfino natura e condizione umana, equiparandola alle bestie, ai vampiri e ai lupi mannari, determinando parallelamente quella inquietante angoscia della condizione zingara».
La Karpati non esagera. Ciò che si fece contro l'etnia zingara, e spesso erano le autorità religiose a pretendere che le autorità civili attuassero le repressioni, assomiglia molto ad uno sterminio pianificato e portato avanti senza tentennamenti.
Il primo provvedimento di espulsione degli indesiderati stranieri è quello del 1471 in Svizzera. L'Assemblea di Lucerna ne decretò l'allontanamento. In Spagna la repressione inizia nel 1492, anno emblematico per la cultura europea: Colombo apre la strada agli eserciti cattolici in America ed in patria un editto voluto dalla Santa Inquisizione scatena la soldataglia contro i Marranos (gli Ebrei convertiti), i Moriscos (i musulmani convertiti) e i Gitanos.
Ferdinando il Cattolico promulgò una serie di disposizioni durissime che vennero poi confermate nel 1494 con la Prammatica di Medina del Campo, voluta dall'arcivescovo Cimenez de Cisneros. Gli Zingari si nascosero nelle montagne e dalla latitanza aspettarono, inutilmente, che i tempi sfavorevoli venissero a cessare: le alternative erano quelle di abbandonare la nazione o di essere puniti con cento colpi di frusta (che significava morte certa) e con il taglio delle orecchie, oppure, ancora, di diventare schiavi, come successe agli Ebrei, di padroni spagnoli.
Infine la maggior parte dei Gitani si piegò a queste ordinanze: molti tra i «Figli del Vento» vennero ridotti in schiavitù.
Nel periodo tra il 1499 e il 1748, in Spagna si emanarono 28 Prammatiche reali, o Decreti del Consiglio di Castiglia, contro la popolazione zingara che tentava con ogni mezzo di riacquistare la propria libertà. Altri venti Decreti vennero emessi da altre città della Navarra, dell' Aragona e della Catalogna.
La Dieta di Augusta, promotore l'imperatore Massimiliano I, emette la prima di una serie di ordinanze, nel 1500: gli Zingari che non si fossero allontanati prima della Pasqua potevano diventare soggetti ad una caccia all'uomo e coloro che li avessero uccisi non sarebbero stati perseguiti dalla legge.
Questo tipo di provvedimenti, nei secoli XVI, XVII e XVIII, vennero presi a decine in quasi tutti i Paesi europei: la vita degli Zingari si trasformò in una perenne fuga, costellata d'imprigionamenti, deportazioni, torture ed uccisioni.
In Francia il più importante Editto è del 1504, nei Paesi Bassi del 1524, in Inghilterra del 1530. I Gypsies, secondo la Regina Elisabetta, che emise più avanti altri provvedimenti, avrebbero dovuto abbandonare il nomadismo, dimenticare i propri usi e costumi e mettersi al servizio di padroni inglesi.
Nella zona di Milano la prima di una sessantina di Gride è del 23 aprile 1506: gli Zingari vengono accusati di propagare la peste. Devono essere allontanati, pena la fustigazione, e nessuno può più avere contatti con loro: «... facciamo pubblico comandamento che zingari ed accattoni non possano venire né stare nel dominio sotto pena di tre tratti di corda, per ciascuno ed ogni volta che si trovino a contravvenire, e a quelli che li lasceranno passare e li alloggeranno in questo regale dominio, fiorini venticinque d'applicare come sopra ogni volta...».
Circa un secolo più avanti un'altra Grida incita i cittadini a farsi giustizia da soli: gli stranieri che non si fosse riusciti a fare prigionieri potevano essere impunemente assassinati e i loro averi sarebbero diventati proprietà degli assassini senza che «... s'abbia ad interessare il regio fisco»! .
Nel 1549 il Senato di Venezia ne decretò l'espulsione, più avanti decretò la pena a dieci anni di prigione e più avanti ancora l'uccisione, di uomini e donne, che avrebbe procurato ai carnefici la somma di dieci ducati.
Nella zona di Parma, trecento Zingari che avevano acquistato una tenuta in campagna, vennero tutti sterminati da una folla incitata e guidata da un signorotto locale. Secondo il Colocci, in Scozia, cessata la tradizionale protezione dei sovrani, gli uomini zingari venivano impiccati e i bambini marchiati a fuoco sulle guance.
Nel 1570 il papa Pio V ordinò che gli Zingari venissero imprigionati nelle Galere pontificie che combattevano contro i Turchi. Si fece lo stesso in Francia, in Spagna e in Portogallo, mentre la Svizzera vendeva i suoi Nomadi agli Stati marittimi.
In Svezia, in Danimarca ed in altre nazioni i Rom potevano avere salva la vita se si fossero arruolati negli eserciti, cosa che parecchi di loro fecero.
La Russia fu invece uno dei pochi Stati che risparmiò il Popolo Errante: si tentò a più riprese di fermare il nomadismo ma senza giungere a severi provvedimenti di legge. Nel resto d'Europa invece, man mano che trascorrevano gli anni, la caccia allo Zingaro divenne attività quasi consueta e le uccisioni si susseguivano alle uccisioni.
Agli inizi del XVIII secolo il Governatore delle Province Unite dei Paesi Bassi dette il via ad un' azione di sterminio totale: alcuni decenni dopo non un solo Zingaro, uomo, donna o bambino, rimase in vita. Il De Foletier ha scritto che nel 1725, nella città di Zaltbommel, dieci uomini vennero prima strangolati «a metà», poi sottoposti al tormento della ruota, infine decapitati. Le loro teste vennero esposte al popolol2.
In Danimarca, nel resoconto di una battuta di caccia effettuata da un signorotto locale e dai suoi servitori, tra le prede uccise figuravano «un gitano e il suo piccolo».
In Germania si eressero le forche, in Castiglia, in Boemia e nel Milanese si mutilavano le orecchie sia alle donne che agli uomini. In Transilvania secondo quanto riportato da Kenrik e Puxon, un proprietario terriero, riferendosi a quanto fatto su un suo schiavo si vanta in questi termini: «Alla domanda della mia cara sposa, l'ho fatto picchiare con delle canne sulle piante dei piedi fino a che non colasse il sangue, poi l'ho obbligato ad immergerli in una forte soluzione caustica. Dopo ciò, per farlo punire di parole sconvenienti, gli ho fatto tagliare il labbro superiore, che ho fatto arrostire, e l'ho poi costretto a mangiarlo».
Una cronaca tedesca riporta il risultato di un'altra battuta di caccia: un daino, cinque caprioli, tre cinghiali grandi e dieci piccoli, due zingari, una zingara ed uno zingarello.
A Frauenmark, in Ungheria, nell'estate del 1782, un gruppo di Cziganyok, venne accusato di assassinio. Sotto tortura uno di essi, sospettato di aver fatto scomparire alcune persone che invece più tardi si scoprirono vive e vegete, urla esasperato: li abbiamo mangiati!
Prima che sul posto venisse inviata da Giuseppe II una commissione d'inchiesta che decreterà la piena innocenza dei poveretti, e mentre l'Hamburger Neue Zeitung di Amburgo elevava a 88 il numero delle persone divorate dai nuovi cannibali, quindici uomini vennero impiccati, sei smembrati, due squartati. Diciotto donne vennero decapitate.
Gli Zingari non erano nelle condizioni di potersi difendere dalle leggi dell'epoca, dato che la prima e inconfutabile responsabilità restava proprio quella di essere Zingari. In alcune sentenze emesse in Francia, queste furono le motivazioni delle condanne: «in quanto zingaro e vagabondo», «zingaro confesso», «zingaro secondo la dichiarazione del Re». L'appartenenza alla propria etnia era ormai diventata sinonimo di mostruosità: l'anima più nera dell'Occidente, avvinta nei propri incubi più tetri, aveva decretato la morte, con la violenza o la sottomissione, di un intero Popolo.
Il nomadismo ormai non era più solo una libera scelta, la filosofia di vita si era tramutata in una incontenibile volontà di fuga, alimentata dal sospetto e dalla paura, più che legittima, verso la società sedentaria e inumana dei gagé.

I tentativi di assimilazione forzata

Sul finire del Settecento e nel corso dell'Ottocento, in molte nazioni avvengono significativi mutamenti nel rapporto tra autorità e Zingari. In altre la situazione non cambiò affatto. Nella Francia rivoluzionaria le parole d'ordine di «liberté, egalité et fraternité» di certo non riguardavano i Nomadi: si verificarono ancora le consuete cacce all'uomo e le donne, i bambini, i vecchi e i malati venivano internati in ospizi per mendicanti dove la mortalità era elevatissima.
In Ungheria ed in Boemia invece le autorità decisero di seguire un'altra strada. Maria Teresa d'Asburgo, Imperatrice e Regina di Boemia e di Ungheria, considerata una sovrana «illuminata», nel 1768 e nel 1773 emanò nuove leggi che, almeno nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto «civilizzare» gli Zingari e renderli con ciò cittadini uguali agli altri.
Venne così impedito loro di abitare nelle tende, di spostarsi, di esercitare i mestieri tradizionali. Anche il loro nome venne abolito per legge. Da quel momento in poi si sarebbero dovuti chiamare Nuovi Magiari, oppure Nuovi Coloni.
Ovviamente anche la loro lingua venne vietata.
Nel 1773, nel Palatinato di Presburgo, a Fahlendorf, un provvedimento che basava la sua validità giuridica sulle nuove leggi volute da Maria Teresa, strappò tutti i bambini zingari sopra i cinque anni alle loro famiglie e li affidò a famiglie contadine che si assunsero, dietro compenso, l'onere di educarli a una vita considerata più civile.
Uomini e donne zingare, come impazziti, abbandonarono le case nelle quali si erano faticosamente abituati a vivere, vendettero tutte le loro cose e, prima di rifugiarsi sulle montagne o nelle pianure, si dettero a violenze e saccheggi.
La maggior parte dei fanciulli zingari sottratti con tanta brutalità alle proprie famiglie riuscirono a fuggire.
Nonostante l'evidente fallimento di questo nuovo tipo di repressione, Giuseppe II, il figlio di Maria Teresa che aveva salvato i superstiti di Freuenmark accusati di cannibalismo, nel 1782 promulgò un' altra legge tesa ad assimilare forzatamente gli Cziganyok.
Ecco, tra le altre, alcune disposizioni contenute nella legge:
- tutti gli Zingari, adulti e bambini, dovevano essere istruiti alla religione cristiana;
- i bambini non dovevano più circolare nudi e non dovevano più dormire nelle tende insieme alle bambine;
- il vestire, il mangiare e il parlare dovevano uniformarsi alle usanze locali;
- non potevano più possedere cavalli, né commerciarli;
- dovevano essere costretti all' agricoltura, pena pesanti punizioni corporali;                - dovevano abbandonare 1'abitudine alle feste e alla musica.
Più avanti, tra quelli che rifiutarono di adeguarsi alle nuove norme, diverse furono le sentenze capitali.
Come in Ungheria anche in Spagna si verificò un tentativo di cambiamento.
Carlo III, sovrano illuminato, nel 1778 dichiarò formalmente che i Gitani non costituivano un popolo né ladro, né abietto per natura. Però, a suo parere, non costituivano neanche un popolo, un'etnia: si trattava semplicemente di una congrega di fuorilegge.
Anche in questo caso ne venne abolito il nome originale e si cercò di cancellarne 1'origine, ma, tutto sommato, il tentativo di etnocidio culturale si rivelava meno doloroso del tentativo di genocidio che l'aveva preceduto. Carlo III, in una sua Prammatica, stabiliva così l'obbligo alla residenza fissa: in quaranta città spagnole vennero costruiti degli alloggi, veri e propri quartieri chiamati Gitanerie, riservati esclusivamente ai Kalé. Nell'Ottocento questi tentativi di assimilazione forzata si moltiplicarono, grazie anche agli interventi della. Chiesa che chiedevano, più che una repressione sanguinosa, un progetto di «educazione» generalizzato e, perché no, coatto.
Nel 1843 aveva finalmente termine la schiavitù degli Zingari della Valacchia e della Moldavia, grazie ai primi interventi dei principi Alessandro Ghika e Bubesco, che liberarono quelli assoggettati allo Stato. Dopo una decina di anni tutti gli schiavi Cigains della Moldavia e della Valacchia, sia quelli che appartenevano alla Chiesa e sia quelli che appartenevano ai privati, erano stati affrancati dalla schiavitù.
Il panorama culturale europeo sembrava aver mutato opinione sui «Figli del Vento»: complice il romanticismo lo Zingaro si era via via trasformato nel perfetto prototipo del Buon Selvaggio, libero dai ceppi e dalle costrizioni del vivere civile.
Anche lo ziganologo Colocci, scrivendo sul fallimento dei tentativi d'integrazione forzata, sembra lasciarsi trascinare dall' onda lunga del romanticismo: «Lo Zingaro non si mescola mai con lo straniero da cui lo separa un abisso profondo che nulla saprebbe colmare. Come l'uomo civilizzato risalirebbe la corrente dei taciti sillogismi dell'uomo selvaggio? Il primo parte dal principio che la sicurezza sia condizione fondamentale della felicità, la pace il suo principale elemento, l'abitudine il suo più dolce regalo, il benessere materiale il suo frutto più prezioso, la stabilità il suo indispensabile corollario. Il secondo ride della sicurezza giacché non gli manca mai nelle sue inaccessibili caverne, non sa cosa sia l'abitudine ma intendendo lo ne prova orrore, non si cura del benessere materiale e beffeggia la stabilità esaltando i piaceri della sua vita mobile, incerta, perigliosa e gioconda».
Ma, scrittori e poeti a parte, nella seconda metà dell'Ottocento la questione zingara divenne pian piano un problema di polizia, e non cessò mai di essere un problema razziale.
Nasceva in quegli anni una forma di razzismo più sottile e infinitamente più pericolosa, ammantata delle teorie pseudo-scientifiche che, padri lo scientismo e il positivismo, produssero le aberrazioni antropologico-criminali di Cesare Lombroso, la cui eredità ideologica così ben si coniugò con le teorie del mondo accademico tedesco prima e sotto il nazionalsocialismo.
Francesco Predari, che scrisse a più riprese di cose zingare, e che apparteneva alla scuola del Lombroso, definì gli Zingari «un cancro sociale» e lodò i provvedimenti assunti da Maria Teresa e da suo figlio Giuseppe II, lamentandosi peraltro che tali provvedimenti non fossero stati assunti anche da altrenazioni europee.
Lombroso e i suoi discepoli, le cui teorie scientifiche erano ritenute valide anche in altre parti d'Europa, certo non giudicavano la razza zingara in base a paure ancestrali o alle alterità magico-religiose che tanta paura fecero nei secoli precedenti. Più concretamente cercarono di dimostrare la «naturale devianza» zingara attraverso una serie di dati antropometrici e morfologici ai quali accreditavano una particolare valenza: quella di manifestare esteriormente una tara ereditaria di tipo razziale. Questi dati venivano poi paragonati, alla ricerca di conferme e smentite, con quelli raccolti su altri soggetti in odore di devianza: sardi dell'interno, briganti meridionali, criminali recidivi, negriti e boscimani.
Secondo Lombroso, gli Zingari erano «... un 'intera razza di delinquenti e ne riproducono tutti i vizi e Le passioni: L'oziosità, L'ignavia, L'amore per l'orgia, l'ira impetuosa, La ferocia e La vanità. Le Loro donne sono più abili neL furto e vi addestrano i Loro bambini».
L'antropologo, basandosi sugli studi del Weisbach che aveva riscontrato una forte ridondanza di Zingari dolicocefali in diverse tribù da lui esaminate, non poteva non arrivare alle stesse conclusioni alle quali, lui e altri della sua scuola (come l'Orano e il Niceforo), erano giunti sui sardi barbaricini e del villacidrese: anche i Rom erano da considerarsi, né più né meno, veri delinquenti di natura.
Più avanti, sul venire del Novecento, anche per i molti Nomadi che si erano sedentarizzati o semisedentarizzati, come i Gitani spagnoli, i Rom abruzzesi, gli Zigani ungheresi ed altri, la prova più dura dovrà ancora arrivare: la genetica, alleata dell'antropologia e della psichiatria, preparava, sotto il vessillo della ideologia nazionalsocialista, lo sterminio di tutti gli Zingari.

Capitolo quarto: lo sterminio nazista

(...) Il piccolo era una bellezza. Indossava una sontuosa uniforme bianca costituita da lunghi pantaloni bianchi dalla riga ben stirata, una giacca con i bottoni d'oro, una camicia da uomo e una cravatta. Noi fissavamo come stregate quel bambino stupendo. (...) «Mostra loro come balli il Kozak» disse Mengele e iniziò a battere ritmicamente le mani. Il piccolo allora iniziò a scalciare i talloni pur mantenendo la posizione seduta. Era stupefacente.
«E ora canta una canzone».
Il piccolo cantò un'ammaliante melodia zingara. Noi continuavamo a stare sull'attenti mentre il bambino si esibiva di fronte a Mengele. Era evidente che a Mengele piaceva. (...) È strano, ma in mezzo a tutta questa carneficina noi riuscivamo a chiederei solo una cosa: Mengele aveva intenzione di salvare quel bambino bellissimo dalla camera a gas? Ma il giorno dopo egli sfilò per il Campo senza il piccolo zingaro...

testimonianza da Auschwitz (da Storie e fiabe degli zingari di D. Tong-Guanda)

I sommersi

Il 20 ottobre 1945 iniziò il Processo di Norimberga: imputati i criminali di guerra nazionalsocialisti. Un anno più tardi, nei dispositivi di sentenza, soltanto poche righe ricordavano lo sterminio del Popolo zingaro: « I gruppi di azione ricevettero l'ordine di fucilare gli Zingari. Non fu fornita nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli ha donato al mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, dovesse essere braccato come un animale selvaggio. Pittoreschi, negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l'hanno talvolta stancata con la loro indolenza. Ma nessuno mai li ha condannati come una minaccia mortale per la società organizzata, nessuno tranne il nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di Himmler, di Heydrich, ordinò la loro eliminazione».
In queste poche frasi della sentenza, nella quale si mostra peraltro di ignorare la Storia degli Zingari in Europa e le persecuzioni avvenute in passato, c'è tutta la povertà d'indagine, l'indifferenza è la superficialità con le quali il tentativo di genocidio zingaro è stato sbrigativamente ignorato non solo dai tribunali di guerra ma anche dalla stragrande maggioranza degli storici che ricostruirono il fenomeno hitleriano.
Sicuramente ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che gli Zingari, gente per la gran parte nomade, non ha mai avuto una Storia facilmente ricostruibile e, di conseguenza, anche le operazioni di sterminio che su essi si abbatterono ebbero come unici riscontri o le testimonianze dirette o i pochi documenti nazisti che si salvarono dalla distruzione.
Ma io credo che questo scarso impegno degli storici sia dovuto, anche e soprattutto, al fatto che pochi di essi furono realmente interessati a questa parte della Storia che, ancora oggi, resta in gran parte «sommersa», tutta da «salvare», tutta da ricostruire.

Eppure la ricomposizione di questa parte della Storia, la messa in risalto di ciò che successe ai Rom, potrebbe essere di grande aiuto per un'analisi più completa del fenomeno nazionalsocialista sin dalle sue origini.
Quando oggi si disquisisce dell'ideologia nazista, e dei sui tentativi di genocidio, si accentra l'attenzione sul massacro del Popolo ebreo. E ciò è corretto se, oltre la quantità numerica dello sterminio, si pensa a quanto furore, a quanta spietata volontà di morte, a quanta mostruosa sapienza tecnologica vennero impiegate dai tedeschi nella loro opera che colpì, primi fra tutti, proprio gli Ebrei.
Tuttavia ciò può portare facilmente ad un grave errore: l'odio verso gli Ebrei, che si nutriva degli incubi mistico-demoniaci, politici ed economici della Germania post-Weimar, sembra quasi diventare la motivazione prima di un razzismo che invece aveva ben altre basi ideologiche e scientifiche e che per questo era infinitamente più pericoloso. Questo errore è sicuramente dovuto anche al fatto che ciò che sin ora si è posto in primo piano è stato l'aspetto politico del nazionalsocialismo, interpretato come una macchina di sopraffazione perfettamente organizzata, capace di rielaborare, tutt'al più in maniera rozza e imperfetta, l'ideologia germanica preesistente e di piegare ai suoi voleri la scienza e la tecnologia.
In realtà, e la storia dell' eccidio degli Zingari lo dimostra (poiché esiste un filo continuo tra le persecuzioni avvenute prima e dopo l'avvento di Hitler), la vera essenza dell'inenarrabile, della mostruosità ideologica, sonnecchiava all'interno del mondo culturale e scientifico germanico, pronta a risvegliarsi e a trovare braccia e gambe che l'avrebbero fatta forte e portata lontano.
Come separare il «dopo», da tutto quanto ben «prima» era stato teorizzato? Come dissociare il mito della storica missione della Deutsche Nation di Fichte, i deliri di purezza razziale di Jahn, il fanatismo intellettuale del Circolo di Bayreuth, l'Alldeutschtum (il pan germanismo) di Von Treitschke, l'orrida prevvegenza di Ploetz, da tutto quello che poi successe?
Benno Miiller-Hill, Direttore dell'Istituto di Genetica all'Università di Colonia, muovendosi su un terreno infidamente minato per l'ostracismo manifestato dal mondo accademico tedesco, ha ricostruito dall'interno, dal mondo degli antropologi, degli eugenisti e degli psichiatri, il massacro razziale degli Zingari e delle altre razze, o categorie della propria razza, ritenute inferiori.
L'analisi dello scienziato tedesco non può non riportare alla memoria quanto da altri già espresso sul nostro Lombrosismo, e su quanto esso avrebbe potuto rivelarsi letale, se non si fosse sviluppato all'interno di una cornice culturale che aveva già in sé gli anticorpi scientifici e filosofici atti a contrastarlo.
Benno Miiller-Hill, chiedendosi perché lo sterminio degli Zingari, degli Ebrei e dei malati di mente fosse avvenuto proprio in Germania e non negli altri stati fascisti (se non per contagio), trova questa risposta: «La Germania apparteneva ai paesi che erano guide mondiali nel campo della scienza e dell'industria. La psichiatria e l'antropologia erano ancora le migliori e le più sviluppate. (...) Quando Hitler prese il potere, psichiatri ed antropologi ne furono entusiasti, poiché vedevano in lui il realizzato re e il promotore delle loro idee».
Alla sua cronaca degli eventi, in relazione al primo periodo del Novecento tedesco, mancano però un preambolo e una data importante: la Germania è sempre stata la nazione nella quale gli Zingari sono stati assoggettati, repressi o trucidati più che in altre parti d'Europa e già nel 1899, a Monaco di Baviera, esisteva uno specifico Ufficio di Polizia che si occupava esclusivamente di loro e che poi si trasformò nella Centrale Nazionale delle questioni zingare.
Queste, tra le altre, alcune delle date ritenute fondamentali da Benno Muller-Hill:
- 1900: vengono riscoperti i lavori di Mendel. Gli scienziati tedeschi credono di trovare conferme sull' eredità di intelligenza e patologia attraverso la genetica mendeliana. «Essi pensano che sarebbe loro compito impedire l' aumento sia delle razze inferiori che degli inferiori della propria razza, onde evitare l'imminente tramonto della cultura europea»4;
- 1904: fondazione degli Archivi per le razze e per la biologia sociale;
- 1905: fondazione dell' Associazione per l'igiene razziale;
- 1920: il giurista Binding e lo psichiatra Hoche pubblicano il libro «La liceità di terminare la vita indegna di essere vissuta»;
- 1923: Adolf Hitler, in carcere dopo il putsch di Monaco, legge il libro di Baur-Fischer-Lenz «Eredità nell'uomo e igiene razziale», dal quale trae spunto per l'idea razziale esposta in «Mein Kampf»;
- 1927: viene fondato a Berlino il KWI (Kaiser Wilhelm Institut) per 1'antropologia, la genetica e l'eugenica;
- 1932: si raccomanda una legge (l' Eugenica per il benessere del popolo) tesa alla sterilizzazione degli inferiori;
- 1933: il ministro della Giustizia Guertner sollecita una legge che proibisca i matrimoni interrazziali;
- 1933: l'antropologo Fischer, eletto rettore dell'Università di Berlino, definisce la politica del Governo come politica biologico-demografica, cura dell'importanza vitale dell' eredità e della razza e orientata alla selezione e all'eliminazione;
- 1934/35: presso il KWI si tiene il primo corso in antropologia per i medici delle SS;
- 1936: il ministro degli Interni ordina un rilevamento di biologia ereditaria;
- 1936: lo psicologo e psichiatra R. Ritter inizia, con l'appoggio della Società Tedesca per la Ricerca, presso il Centro di Igiene Razziale e di Ricerche politico-demografiche, il lavoro sugli Zigani;
- 1938: Ritter riceve un contributo di 15.000 marchi per i suoi studi sulla asocialità e sulla biologia degli ibridi (Zigani ed Ebrei);
- 1938: si discute la possibilità di una legge che preveda la sterilizzazione e il Campo di Concentramento per tutti gli asociali;                                                                     - 1939: 10 settembre, Ritler inizia la seconda guerra mondiale.
In tutto questo periodo i contatti tra scienziati e uomini di potere si mantennero ovviamente molto stretti. Scienza e politica, ed era la seconda a trovare nella prima l'oggettività e la credibilità ideologica delle quali abbisognava e per le quali non era sufficiente la sola volontà di potenza, si trovarono unite nel progetto di sterminio.
Un progetto di sterminio che, prima ancora che sugli Ebrei e sugli Zingari, si abbatté sui diversi della stessa razza tedesca: i malati di mente e i disabili gravi vennero uccisi a decine di migliaia grazie ad apposite istruzioni su quello che Ritler chiamava «diritto all'eutanasia».
Sugli Zigani, che non scatenavano nella borghesia nazista incubi di natura mistico-religiosa, né appetiti economici, né tanto meno fobie di tipo politico (Ebrei=comunisti), si perpetrò l'accusa di costituire una razza, sì di origine indo-ariana, ma ormai impura e del tutto inutile e asociale.
Gli studi del prof. Ritter e della sua assistente Eva Justin, dovevano dimostrare che i 30.000 Zigani tedeschi, dei quali solo 5.000 ancora nomadi, erano ormai divenuti un gruppo razziale «ibrido» e perciò destinato all' eliminaZIOne.
Questa la classificazione che Ritter e Justin fecero degli Zigani tedeschi:
- Z = zingaro puro;
- ZM = zingaro meticcio;
- ZM 1 = metà zingaro e metà tedesco;
- ZM2 = metà ZMl e metà tedesco;
- ZM+ = zingaro più che a metà;                                                                           - ZM- = tedesco più che a metà;
- NZ = non zingaro.
Il 20 gennaio 1940 il prof. Ritter scrive che «gli Zigani non erano affatto Zigani, bensì ibridi con il sottoproletariato dei criminali e degli asociali tedeschi». (...) «... si rivelò la possibilità di constatare che più del 90% dei cosiddetti Zigani indigeni siano degli ibridi. Ne segue che per un incrocio razziale indigeno, gli Zigani si mescolano prevalentemente con vagabondi, asociali, criminali ed a causa di ciò si è prodotto un sottoproletariato di Zigani e vagabondi, che è costato allo Stato somme incalcolabili per l'assistenza. (...) Come ulteriore risultato della ricerca, abbiamo osservato che gli Zigani sono del tutto primitivi dal punto di vista etnologico, ed il loro ritardo spirituale li rende incapaci all'adattamento sociale. (...) La questione zigana potrà dunque considerarsi risolta, solo quando il grosso degli ibridi zigani, asociali e fannulloni, sarà riunito in grandi campi mobili di lavoro, e quando l'ulteriore aumento di questa popolazione mista sarà definitivamente impedito. L'istinto di ricerca sull'igiene razziale è già oggi capace di esprimersi oggettivamente sul grado di mescolanza e sul valore ereditario di ogni singolo così detto Zigano, cosicché per la messa in atto di misure di igiene razziale non ci sono più problemi... »

Ma già nel 1936, secondo Mirella Karpati, erano cominciate le misure di igiene razziale.
Convogli di Zigani erano stati inviati nel Campo di Concentramento di Dachau: era iniziata la soluzione finale.
Con l'inizio della guerra le deportazioni si fecero più massicce e, in ogni nazione occupata dall'esercito tedesco, la sorte degli Zingari era segnata: o il Campo di Concentramento o la fucilazione sul posto.
Le popolazioni dei territori occupati, soprattutto quelle dell'Est, vennero suddivise in quattro categorie (in previsione del successivo sterminio dei Polacchi e dei Russi), I, II, III, IV: a quest'ultima, quella destinata ad una morte «sul posto», appartenevano gli Zingari.
La maggior parte delle vittime del massacro moriranno per le strade, nei villaggi distrutti, negli accampamenti dati alle fiamme dai gruppi di assalto.
In Serbia la questione zingara venne risolta definitivamente: nazisti e ustascia, tra quelli che non erano riusciti a fuggire, non ne lasciarono vivo nemmeno uno. Tra i Roma residenti a Cagliari qualche anziano ricorda ancora la fama dell'ustascia Artukovic, noto per la sua collezione di occhi strappati ai bambini e alle donne zingare.
I massacri si estesero anche ai Balcani, in Olanda, in Belgio.
In Norvegia sopravvissero solo alcune decine di Zingari. In Francia vennero allestiti decine di Campi di Concentramento. In Italia alcuni Campi vennero costruiti vicino a Campobasso, nei pressi di Teramo, Bolzano e Cosenza.
Secondo Mirella Karpati un Campo di raccolta venne progettato anche in Sardegna, a Perdasdefogu, al quale sarebbero stati destinati gli Zingari della Venezia Giulia: testimonianze orali lo confermerebbero ma non è stata trovata alcuna traccia documentale.
Si è calcolato che all'interno dei Campi di Concentramento in Germania e in Polonia perirono circa 520.000 Zingari8.
Kenrick e Puxon, che dell' eccidio danno ancora un' altra valutazione numerica, parlano, tra gli altri, di 25.500 deportati dalla Croazia, 40.000 dalla Francia, 20.000 dalla Germania, 100.000 dall'Ungheria, 25.000 dall'Italia, 50.000 dalla Polonia, 300.000 dalla Romania, 80.000 dalla Slovacchia, 200.000 dalla Russia, etc.9 Il numero esatto degli Zingari deceduti nel corso della seconda guerra mondiale probabilmente non si conoscerà mai, ma, cifre a parte (c'è chi ha parlato di 800.000/1.000.000 di morti), il piccolo Popolo degli Uomini rischiò davvero la definitiva scomparsa dal continente europeo.
Nel corso di tutta la guerra parecchi degli sfortunati che finirono nei Campi di Concentramento, prima di essere inviati alle camere a gas, vennero utilizzati per esperimenti scientifici di varia natura.
A Dachau, già nel 1938, 2.000 Zigani tedeschi vennero sottoposti ad esperimenti sul freddo e sul paludismo. A Buchenwald vennero impiegati in esperimenti sul tifo: gli si inoculava la malattia e poi si studiavano le reazioni sino al sopravvenire della morte. A Natzweiler-Stutthof Zingari francesi, cechi, polacchi ed ungheresi furono le cavie per gli esperimenti della società di studi sull' ereditarietà.
Ad Auschwitz un certo prof. Clauberg praticava la sterilizzazione tramite iniezioni intrauterine di formaldeide.
Sempre nello stesso campo di concentramento venne inviato, il 30 maggio 1943, il prof. J. Mengele, dottore in medicina ed in filosofia, proveniente dall'Ufficio principale per la razza e gli insediamenti di Berlino.
Il suo compito era quello di portare avanti due diversi progetti sulle «proteine specifiche» e sul colore degli occhi, dietro ordine ed in collaborazione con il prof. Werschuer, Direttore del KWI per l'antropologia.
Suo assistente era il dottor Nyiszli, un ebreo prigioniero che si salvò dalla morte e che più tardi, al processo di Norimberga, potrà testimoniare contro Mengele: raccontò, tra le altre atrocità, di aver preparato lui stesso gli occhi eterocromatici di quattro coppie di gemelli zingari trucidati poco prima.
Gli studi di Mengele vertevano soprattutto sui gemelli e sui nani.
I poveretti venivano misurati, poi uccisi e dopo ancora sezionati dallo schiavo-carnefice Nyiszli: «Dovevo togliere tutti gli organi di possibile interesse scientifico, in modo che il dotto Mengele potesse studiarli. Quelli che potevano interessare l'Istituto di antropologia in Berlino-Dahlem, venivano fissati in alcool. Tali parti venivano appositamente imballate, per essere spedite attraverso la posta. (...) I Direttori dell'Istituto di Berlino-Dahlem ringraziavano sempre vivamente il dotto Mengele per questo materiale raro e prezioso».
Mengele fece ogni tipo di esperimenti sugli Zigani ed in particolare sui gemelli monozigotici e dizigotici.
Terminata la guerra Mengele fu uno degli scienziati che riuscì a sottrarsi alla giustizia. Qualcun altro venne condannato dal Tribunale di Norimberga, altri ancora, la stragrande maggioranza, ripresero la loro normale attività accademica e qualcuno fece anche fortuna.
Eva Justin, collaboratrice di Ritter, dopo la guerra divenne «addetta di previdenza sociale». H. Grebe, assistente di Verschuer al KWI per l'antropologia, sarà nominato professore incaricato a Marburgo e successivamente diventerà presidente della Lega tedesca Medici Sportivi. Heinze, perito per l' eutanasia, divenne nel 1953 capo dell' Ambulatorio di psichiatria giovanile nell'ospedale di Wunstdorf.
F. Lenz, uno degli autori del libro che ispirò Hider nella sua politica razziale e già Capodivisione del KWI per l'antropologia, divenne professore straordinario a Gottinga. Konrad Lorenz, che nel 1940 aveva auspicato l'eliminazione degli asociali ad opera dei medici popolari, vinse il Premio Nobel per la medicina nel 1973 ed oggi lo si ricorda come uno dei padri dell' etologia.
Il prof. Verschuer, capo di Mengele, divenne ordinario di genetica umana all'Università di Mlinster.
H. Muckermann, prima Capodivisione del KWI, dopo la guerra fu reintegrato nel ruolo e più avanti formò un gruppo di ricercatori che, in ambito antropologico, ripresero i loro lavori. Uno dei temi indagati alcuni anni dopo la guerra fu «lo sviluppo somatico e psichico nei meticci europei-negri».
Il prof. Fischer, direttore del KWI per l'antropologia dal 1927 al 1942, andò tranquillamente in pensione. Sua figlia Gertrud così lo descrive a MiillerHill: «Mio padre era un uomo tenero. Di fini sentimenti. (...) Un pezzo di salsiccia di Lione e un quartuccio, era tutto quello che voleva».
Difficile riconoscere in quest'uomo lo scienziato che nel marzo 1943 così scriveva su Deutsche Allgemeine Zeitung: «È una rara e straordinaria fortuna, per una disciplina di per sé teorica, quando essa si trova a fiorire in un periodo in cui l'opinione generale le si fa incontro con riconoscimenti, anzi, in cui perfino i suoi risultati pratici sono benvenuti, e presi a base di misure statali.
Quando il nazionalsocialismo ha trasformato anni fa non solo lo Stato, ma anche l'opinione generale, la genetica si trovò ad essere abbastanza matura, da offrirgli una base».
Miiller-Hill, di fronte al mondo scientifico tedesco che dopo la tragedia rientrò compatto nei ranghi, negando ogni responsabilità diretta negli stermini di massa, ha scritto che «Il sangue versato è stato dimenticato con un 'intensità proporzionale ai milioni di volte in cui è stato versato. La storia recente dell' effetto di queste discipline umane (1'antropologia e la psichiatria, NdA) che si sono appropriate del pensiero genetico è da capogiro, e piena di crimini come un incubo. Da questo incubo molti genetisti, antropologi e psichiatri sono scivolati nel profondo sonno dell'oblio>>.
Quando lo studioso intervistò i padri scientifici del razzismo nazista ancora rimasti in vita, o i loro collaboratori, la risposta fu unanime: non sapevano nulla dei massacri e si consideravano scienziati «puri».
Il prof. Wolfang Abel, Capodivisione del KWI per l'antropologia, intervistato a Mondsee in merito alla soluzione finale riservata agli Zigani, risponde:
«Ma ce ne sono ancora tanti!».
Il dott. Helmut v. Verschuer, figlio del prof. Otmar, intervistato a proposito del rapporto di collaborazione tra suo padre e Mengele, rispose così: «Me lo ricordo come un tipo amichevole. All'Istituto, a causa della sua bontà umana, le signore gli avevano dato il nomignolo di Padre Mengele».
«Padre Mengele».
Lo stesso che uccideva i piccoli gemelli zingari con un'iniezione intracardiaca per poterne prelevare gli occhi e che al dr. Nyiszli, che gli chiedeva quando sarebbe finito lo sterminio, rispondeva: «Amico mio! Continua sempre, sempre!».

Capitolo quinto: la religione

Il nostro Paradiso zingaro è talmente grande che vi scorrono tre fiumi zingari le cui rive sono fatte di dolci. In uno scorre del latte bianco e dolce.
L'altro è pieno di latticello e il terzo è un fiume di panna. I ponti che attraversano questi fiumi sono decorati con polpette di pasta e le rive sono rinforzate con bistecche di maiale. Quando uno zingaro attraversa questi ponti e li scuote un po' o magari un tantino li addenta, può dirsi completamente soddisfatto come la sua anima richiede.
E quando i nostri cavalli zingari galoppano, le selle scricchiano e il frustino li colpisce una volta e un'altra e un'altra ancora. E dalla nostra anima zingara sgorga soltanto una gran risata e una canzone. (...) I nostri figli zingari mangeranno e berranno e non digiuneranno mai...

fiaba zingara

Il presunto paganesimo e le conversioni

Quando gli Zingari si stabilirono in Grecia le popolazioni locali, che non li conoscevano ma che ancora ricordavano la fama di maghi e indovini degli appartenenti all'antica setta dell' Asia Minore, li chiamarono come loro Atsingani, accreditandoli in questo modo delle stesse credenze religiose. In realtà non è affatto dimostrato che gli abitanti del Piccolo Egitto (Modon nel Peloponneso) avessero abbracciato usi, costumi e fede religiosa degli eretici orientali.
Molto più semplicemente le popolazioni greche seguirono la tentazione alla quale era più facile cedere: di fronte al mistero che avvolgeva i nuovi arrivati tentarono di motivare la loro diversità associandola a qualcosa che era stata conosciuta e quindi, in qualche modo, meno problematica e preoccupante.
Alla stessa maniera, quando le prime carovane nomadi si presentarono in Europa, e nonostante molti di essi si dicessero di fede cristiana, nacque per gli Zingari l'appellativo di Saraceni o, come in qualche Paese del Nord Europa, di Heiden, cioè pagani.
Le dichiarazioni di fede, o i documenti papali e imperiali che essi presentavano quali lasciapassare, gli permisero di contrastare solo in parte e per un breve periodo la diffidenza cui andavano incontro.
Ad un certo punto fu poi chiaro che gli Zingari, se avessero anche posseduto una propria religione appresa in terre e in tempi lontani, non solo non la opponevano a quelle delle nazioni dove andavano a risiedere, ma addirittura si dicevano ben disposti, almeno in teoria, ad abbracciarle senza riserve.
Così fecero anche nei Paesi sottoposti al dominio dei Turchi, dove, a parte quelli che persistettero nella decisione di restare cristiani (fatto anomalo documentato), molti di loro si convertirono all' Islam e non incontrarono grandi difficoltà.
In Europa questa conversione alle diverse confessioni religiose cristiane fu poi accompagnata dal sospetto e spesso ritenuta non veritiera. Secondo il De Foletier gravavano su di loro troppe leggende di maledizione. Nicolas Ventura, nel suo «Tresor politique contenant les relations, instructions, traictez et divers discours appartenants à la parfaite intelligence de la raison d'Estat», del 1611, scrisse che: «Sembra che abbiano qualche maledizione o perché, come comunemente si dice, i loro antenati rifiutarono di alloggiare la Vergine Maria quando fuggì in Egitto con il nostro Salvatore, oppure per qualche altra cosa, visto che non si fermano mai a lungo nello stesso posto».
C'era qualcosa, nell' approccio zingaro alla religione cristiana, che portò moltissimi dotti ed ecclesiastici a non credere assolutamente, anche oltre i miti e le leggende negative, alla loro religiosità.
Secondo quanto disse Miinster nella sua «Cosmographia Universalis», essi, anche se facevano battezzare i loro figli, non avevano «... religione alcuna, ma vivono come cani».
Così la pensava anche Sancho de Moncada, il professore di Sacra Scrittura all'Universita di Toledo che ne chiese la pena di morte considerandoli spie, traditori, vagabondi, indovini e visionari. Il teologo, nel 1619, scriveva che «Persone degne di fede li considerano eretici e per molti essi sono pagani, idolatri ed atei, senza alcuna religione, sebbene in apparenza si conformino alla religione della provincia in cui si trovano, essendo Turchi con i Turchi, eretici con gli eretici, e battezzando a volte un bambino fra i cristiani per essere in regola»4.
Martin Lutero li chiamava Bose Buben (cattivi ragazzi) e li credeva Tartari capaci di falsità, menzogna e pericolosa divinazione.
Il calvinista Gijsbert Voet, olandese, ne proibiva i battesimi e in diverse chiese basche non era concessa loro la partecipazione alle funzioni religiose, che potevano seguire solo dall' esterno.
L'arcivescovo protestante di Stoccolma, Laurentius Petri, ordinò che: «Il prete non si occuperà dei Gitani: non procederà alle loro esequie, né battezzerà i loro bambini».
In Francia la Compagnia del Santissimo Sacramento parlava degli Tziganes come di «...questa razza di vagabondi che non hanno fede né religione»6.
Queste condanne morali così dure da una parte risentivano dell'influenza dei luoghi comuni e dei pregiudizi che si abbattevano sui Rom nel periodo delle persecuzioni e, dall'altra, esse stesse, provocavano nuovo rancore e nuovo pregiudizio, in un circuito chiuso di orrore e di emarginazione che per lungo tempo non si riuscì a spezzare.
D'altro canto era anche vero che gli Zingari, loro malgrado e malgrado gli sforzi che facevano per entrare nelle grazie della cristianità, per la loro gran parte furono davvero tutto fuorché buoni cristiani, per il significato che allora si dava a questo termine, ed effettivamente non si poteva che definirli eretici, poiché questo furono rispetto ad ogni religione che conobbero e che pure, a loro modo, cercarono di condividere e di reinterpretare.
È vero infatti che molti di loro facevano battezzare i propri figli, ma è anche vero che alcuni li facevano battezzare anche dieci volte diverse in dieci diverse località, forse per dare dimostrazione di buona volontà nelle nuove contrade che visitavano, e altri, se non tutti, continuavano ad imporre un nome segreto e gli antichi riti di purificazione, protezione e divinazione dei propri antenati.
È vero che essi chiedevano e si affidavano alla protezione della Chiesa e dei suoi Santi, ma è anche vero che continuavano a rispettare i propri Spiriti Buoni e a temere quelli Cattivi, come, in alcuni gruppi, le Holypi, streghe che dopo essersi unite sessualmente ai Demoni ne diventavano possedute e a loro volta potevano possedere altri esseri umani.
È vero che, a volte, quando gli veniva concesso, si univano in matrimonio secondo i riti delle varie confessioni religiose cristiane, ma è anche vero che per essi l'unica vera celebrazione restava la loro: il manifestarsi pubblico, all'interno di grandi feste e a volte di fronte ad un loro «capo», delle volontà dello sposo e della sposa di unirsi in una nuova famiglia.
Ed ancora, è vero che a volte gli Zingari facevano seppellire i loro morti nei cimiteri cristiani dopo aver ricevuto i santi sacramenti, ma è anche vero che spesso li seppellivano secondo le loro usanze, secondo cioè una serie di riti antichissimi e misteriosi.
Oltre a questo persistere di miti e usanze religiose proprie c'erano poi tanti altri comportamenti che impedivano ai Rom di essere considerati buoni cristiani, primo fra tutti l'esercizio dell'arte della divinazione.
Ma, anche se l'eresia zingara veniva considerata un crimine al pari di tutte le altre eresie sottoposte al morso di ferro dell'inquisizione, le differenze tra psicologia religiosa zingara e psicologia religiosa cristiana avrebbero dovuto lasciar intendere che piccoli trucchi ed esercizi di divinazione non erano altro che un'attività di tipo economico.
Così non fu.
I tentativi di catechizzazione, in forma violenta o meno violenta, si succedettero nel tempo e si alternarono alle manifestazioni di totale rifiuto.
Quando si tentava di convertirli, la conversione che si pretendeva doveva essere totale e verificabile: gli Zingari avrebbero dovuto cancellare il proprio substrato mitico e religioso e uniformare ai dettati religiosi occidentali anche il loro comportamento sociale. Quando si decideva di «civilizzarli», come nel caso dei tentativi di assimilazione forzata promossi da Maria Teresa e da Giuseppe II, la «civilizzazione» passava prima di tutto attraverso una catechizzazione coatta e poi attraverso l'obbligo di omologare il proprio vivere sociale ed economico ai dettati religiosi e morali dominanti.
Si tentò addirittura di cambiare, tramite articoli di legge, anche il loro senso del pudore e del peccato: i bambini e le bambine non avrebbero più dovuto circolare nudi, poiché costituiva peccato, né avrebbero più dovuto dormire nello stesso ambiente, poiché era considerato immorale.
Le comunità zingare, piccole civitates socialmente indipendenti e monadi non decomposte di un'antica cultura ancora ben viva e difesa a volte con disperata segretezza, si difesero come potevano da questi tentativi: si convertirono genuinamente a ciò che rispondeva alla loro idea della vita e della morte e rifiutarono tutto quello che urtava violentemente con la loro filosofia e con il loro senso di autonomia e di libertà.
Ciò che la cristianità non volle o non seppe comprendere fu che la manifesta eresia zingara, il loro accettare parte della religione di Baro Devel (Gesù Cristo), e parte rifiutarne, il loro assorbire ricorrenze, sacramenti e Santi per poi ridefinirli e celebrarli alla loro maniera, nascondeva in realtà un sentimento religioso profondo e forse senza paragoni, capace di apprendere e rispettare ciò che tutte le religioni del mondo venerano sotto forme diverse e che loro chiamano Del, il Grande Dio creatore del mondo e padrone del Bene, opposto a Beng, il Diavolo, padrone del Male.

Le origini della religione zingara

Jacques E. Menard, professore di Storia delle religioni alla facoltà di Scienze Umane di Strasburgo, nella premessa ad una pubblicazione sulle usanze religiose degli Zingari di Francoise Cozannet, ricorda che «... un popolo che non avesse più leggende, avrebbe freddo e il popolo che non vivesse più i suoi miti, sarebbe già morto».
Menard, a proposito delle particolari celebrazioni del nomadismo che vedevano certi gruppi zingari ormai sedentarizzati ricaricare per un giorno sui carri le loro povere cose e compiere un breve viaggio rituale che li riportava poi a casa dalla parte opposta alla quale erano partiti, notava che in questo modo il mito umano del ritorno alle origini veniva riattualizzato.
Queste e altre tradizioni mitiche e religiose degli Zingari sono rimaste, per interi secoli, avvolte nel mistero. Poco si conosceva e poco gli stessi Nomadi lasciavano intendere dei loro riti, mantenuti nel segreto per paura dei pregiudizi e della persecuzione della Santa Inquisizione.
Un segreto che ha smesso parzialmente di essere tale solo quando i tempi sono cambiati e solo quando di questi argomenti hanno cominciato a parlare e scrivere gli stessi Zingari e non solo gli studiosi di ziganologia. Francoise Cozannet, la studiosa francese autrice di un'interessante ricostruzione della mitologia zingara, ha basato il suo lavoro, oltre che sugli scritti degli ziganologi, anche sui suoi contatti diretti con le popolazioni Gitane francesi e spagnole.
Grande importanza hanno avuto nel suo lavoro gli scritti apparsi sin dal 1888 sulla rivista britannica «Journal of the Gypsy Lore Society», soprattutto in relazione alla vita ed alle usanze degli Zingari dell'Europa centrale. È bene precisare che gli studi della ricercatrice francese, proprio perché non abbracciano tutti i diversi gruppi, vanno intesi in senso relativo, seppure comunque interessanti e, per certi versi, rispondenti anche a particolari espressioni religiose dei Roma presenti in Sardegna. Il primo problema che la Cozannet ha dovuto affrontare, essa come tutti gli altri ricercatori che a questo tema si sono dedicati, è stato quello di comprendere quanto nell' atteggiamento religioso dei Rom ci fosse ancora di originale e quanto invece non fosse che il prodotto di un particolare sincretismo creatosi lungo il cammino dall'India.
Si trattava cioè di comprendere se gli Zingari avessero fuso, conciliandoli a volte in maniera arbitraria, elementi mitologici e dottrinari delle varie religioni conosciute lungo la strada con ciò in cui prima credevano, o se invece avessero mantenute vive parte delle credenze religiose orientali ricostituendole all'interno di un nuovo equilibrio basato sulla convivenza autonoma e separata di diverse istanze religiose.
Un problema questo che appare ancora irrisolto: d'altronde i confini tra simbiosi e sincretismo appaiono a volte assai confusi.
La Cozannet, lasciando aperto questo dubbio, è riuscita comunque a ricostruire alcuni frammenti dell' originale cosmogonia, lavorando sui residui in vigore degli antichi riti e sui racconti e le fiabe tipiche di una cultura che si è riprodotta essenzialmente per via orale.
I racconti sulla creazione del mondo testimoniano la credenza in un dualismo originario, il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, dei quali il secondo sottomesso al primo.
Un altro punto nodale è rappresentato da due temi noti nella storia delle grandi religioni, le acque primordiali e l'albero della vita.
Un'antica fiaba raccontata in Ungheria a Vladislav Kornel, che poi la pubblicò sul «Journal of the Gypsy Lore Society» nel 1890, racconta di come Dio lasciasse cadere il bastone che usava per pascolare le nuvole nella grande distesa d'acqua che ricopriva la terra, e di come, da quel bastone, nascesse il grande Albero.
Il Diavolo, che mentendo tentava di convincere Dio della sua amicizia, ma che si rendeva conto di non essere creduto, gli consigliò di creare qualche altra persona per non restare, loro due, soli ed in esclusiva compagnia l'uno dell'altro.
Dio allora mandò il Diavolo in fondo al mare per prendere della sabbia, e con essa, intorno all' Albero, creò la terra. Ma questa piacque tanto al suo nemico che egli si sistemò per bene sotto l'albero e non volle più andar via. Dio allora, furibondo, fece sorgere un grande bue che infilzò con le sue corna il Diavolo e lo trascinò con sé per il mondo. Egli, per la paura e il dolore, gridò così forte che tutte le foglie dell' Albero caddero sulla terra e si trasformarono in uomini e donne8. .
Bruno Levak Zlato, Rom Kalderasa, ha raccontato recentemente una fiaba molto simile:
«Era tutta acqua e c'erano Del e Bengh, insieme come fratelli. Così mi raccontava mio nonno, forse era vero. C'era dunque Del e c'era anche Bengh.
Allora Del dice a Bengh: - Va' in fondo e forse trovi terra. Portamene una branca.
Bengh è andato ed è tornato su con i pugni pieni di terra. Ma inutilmente:
l'acqua la portava via. È arrivato su con le mani vuote. Allora Del cosa fa?
Prende uno stecca, così, e dalle unghie - perché Bengh ha le unghie lunghe ha tirato fuori un po' di terra e l'ha ammucchiata. Fai e dai, ne ha fatta un bel po '. È andato giù tante volte da fare un bel mucchietto di terra. Allora Del cosa fa? Fa una sedia, una seggiolina con questa terra e si mette a sedere sopra; gli ha preso un sonno, un sonno sopra la sedia.
- Mah, dice Bengh, lui sta seduto e io che ho fatto tanta fatica sono qui in piedi.
Bestemmiando ha preso Del per una gamba e ha cominciato a tirarlo per buttarlo in acqua. Ma come lo tirava, la terra si allargava sotto di lui. Allafine Del si è svegliato:
- Uh, dice, quanta terra hai fatto. Troppa, troppo grande, cosa facciamo adesso? Occorre accorciarla.
- Ci penso io, dice Bengh, non dubitare.
Si è messo a saltare di qua, a saltare di là; e salta qua e salta là, è venuto tutte salite e montagne. Così l'ha accorciata e fatta come adesso; prima era dritta come l'acqua. Poi Bengh non sapeva cosa fare. La terra era là e hafatto di terra un uomo, come noi, con bocca, occhi, tutto. Solo mancava che era vivo.
Lo guarda Del:
- Bello, ma adesso che l'hai fatto, fallo vivo.
- Ma non ne sono capace.
- Se lo regali a me, io lo faccio vivo.
- Se lo fai vivo, te lo regalo.
- Ripetilo tre volte.
Ha ripetuto tre volte che lo regala a Dio. Allora Dio, sai, ha fatto una croce e ha soffiato in bocca. Ecco la vita. Così è diventato vivo l'uomo di terra.
Perché siamo di terra tutti noi.
Quest'uomo si è messo a dormire.
- Poveretto, che cosa fa questo qui senza nessuno?
- Almeno facciamo una compagna per lui.
Hanno tagliato una costola di quest'uomo e gli hanno fatto la sua compagnia, la sua donna. È vero, perché la donna ha una costola in più. Allora mi pare che era proprio così, perché il segno c'è: basta contare le costole. Erano Adamo ed Eva.
Un giorno nel loro giardino è arrivata una carovana di Rom. Adamo ed Eva li hanno cacciati via e quello è stato il primo peccato».
A parere della Cozannet il tema delle acque primordiali, così come quello dell' Albero della vita, si ritroverebbero nelle tradizioni indiane e sarebbero quindi all'origine della cosmogonia zingara.
Alcuni riti legati alla nascita confermerebbero poi questa teoria.
Il rapporto tra Dio e il Diavolo, sarebbe meglio dire tra il Bene e il Male, nel ruolo subordinato ma strumentale del secondo rispetto al primo ed in un disegno che esula dalla comprensione umana, è peraltro molto simile a quello espresso dalla storia di Giobbe nel Vecchio Testamento: Dio permette a Satana di provocare sofferenze, disordine e malattie a Giobbe, ma salva l'innocenza dell'uomo in un più ampio piano prestabilito per lui.
Un altro. parallelismo tra cosmogonia zingara e cosmogonia giudaico cristiana lo si può rilevare ponendo a confronto il dualismo cielo-terra presente nella mitologia romanes con quanto esposto, a proposito della creazione, nella Genesi, primo Libro del Pentateuco:
Nella Genesi Dio «...fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. (...) Dio disse: le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un sol luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne».
Secondo certe narrazioni degli Zingari dei Ba1cani, invece, il cielo e la terra originariamente erano un solo insieme combinato in modo tale che al proprio interno stessero rinchiusi il Re Sole, il Re Luna, il Re Fuoco, il Re Vento e il Re Nebbia, che erano i loro figli e che litigavano violentemente tra loro. Per riuscire a liberarsi dall' abbraccio ormai indesiderato dei genitori, i diversi Re ne fecero di cotte e di crude, riuscendo infine nel loro intento ma continuando a litigare per decidere chi doveva stare con il padre Cielo e chi con la madre Terra.
La madre Terra, adirandosi con Re Sole, Re Luna e Re Vento, che l' avevano importunata violentemente per costringerla a separarsi dal marito Cielo, disse loro: «Voi, sole, luna e vento siete stati avversi e dunque allontanatevi da me! Quanto a voi, fuoco e nebbia, non mi avete fatto nulla di male, perciò restatemi vicino» .
Molto più complesso appare invece il racconto che un altro Rom Kalderasa, Zanko, rilasciò nel 1959 a P. Chatard, un domenicano che svolgeva opera di evangelizzazione presso gli Zingari francesi.
Zanko così racconta: «All'inizio c'era Phu, la Terra-madre divina. Da essa sono nati il Puro Del e il Beng, i quali si sfidano a vicenda. Un giorno, mentre passeggiavano sulla riva del grande fiume-mare, il Beng disse: - Sono capace di scendere fino al fondo. Il Beng risalì alla superficie portando della terra e, su comando del Del, foggiò due statuette, prima assessuate e poi distinte in maschio e femmina. Ma dovette dichiararsi incapace, quando il Del gli chiese difarle parlare. Allora il Del tese il suo bastone verso le statuette e dalla terra uscirono due alberi che avvilupparono le statuette, le quali parlavano, perché gli alberi avevano trasformato la creta in carne vivente.
Il puro Del col suo bastone fece fruttificare gli alberi in pero e in melo e ordinò ai due di mangiarne i frutti, rispettivamente Dama - il primo uomo le pere e Yehwah - la prima donna - le mele.
Allora essi provarono desiderio l'uno per l'altro e per ordine del Puro Del si accoppiarono. Ma la donna, insaziabile, richiese all'uomo di ripetere più volte l'accoppiamento. Per le prime tre volte il Puro Del li approvò, ma poi si adirò: - Tre è la misura e la benedizione. Tu, donna, sei uscita dalla misura e dalla benedizione. Tu non sarai mai soddisfatta. Avrai sempre desiderio dell'uomo.
E il Puro Del li abbandonò al loro destino fuori della misura e della benedizione.
L'uomo e la donna generarono molti figli e da qui vennero le stelle in cielo, perché ogni stella è un segno di un uomo: sale quando nasce e cade quando muore. Damo e Yehwah tornarono poi alla loro natura di alberi. Poi il Del, sposo della Terra e nostro padre, fece uscire dalla terra il sole e la luna, il Sherkano o serpente divino e la sua femmina Halla per provare laforza degli uomini; poi le coppie di tutti gli altri animali. Fece pure uscire dalla Terra il grande fiume-lago.
In questo primo mondo il Puro Del Sinpetri aveva dei compagni: Sunto Yacchof, Sunto Abraham, Sunto Moishel e Sunto Crecuno. Erano i Suntse, gli Antenati. Con essi c'era pure il Pharavono, che poi se ne distaccò provocando la scissione degli uomini - fino ad allora costituenti una sola razza nomade e parlanti una sola lingua - in due raggruppamenti: gli Horaxane con a capo Sinpetri e i Pharavonure con a capo Pharavono.
Questo gruppo dapprima si tenne in disparte, ma poi, moltiplicandosi e essendo pieni di intelligenza e di audacia, decisero di conquistare tutta la terra.
Così Pharavono mosse guerra a Sinpetri; ma non sapeva che il re Sinpetri era lo stesso Puro Del, che aveva il potere del Del. Alla testa delle sue truppe Pharavono superò ilfiume-Iago, invocando il potere del Del. Ma, nell'attraversare il fiume-mare, pieno di orgoglio invocò il proprio potere e venne travolto dalle acque. (...) Tutto il paese allora abitato venne allagato. Il Puro Del Sinpetri rifece la terra allargandola e dandola ai suoi Horaxane e portò i Suntse nel Raio, l'altra terra al di sopra delle stelle. I Pharavonure annegati precipitarono nel Hiardo, l'abisso sotterraneo, dove vanno tutti i morti di morte cattiva.
I pochi Pharavonure superstiti - cioè gli Zingari - sono condannati a non avere più né territorio nazionale, né organizzazione politica, né Chiesa, né scrittura, perché tutto è annegato nel mare»!!.
La Karpati, analizzando il racconto di Zanko ne coglie un aspetto molto importante: l'interpolazione di alcuni elementi biblici, che lo Zingaro potrebbe aver inserito per un malinteso senso di rispetto nei confronti di Chatard, domnicano.
A proposito di Della Karpati osserva che: «Egli provoca la vita agendo con il bastone, quasi si trattasse di un mistico coito con la Terra Madre. Infatti di lui è detto "sposo della Terra e nostro padre". Ne risulta quindi una nuova concezione che, (...) pone nel rapporto maschio-femmina il principio vitale e creatore». La separazione e l'opposizione di maschio e femmina, e la loro riunificazione in un sistema più ampio che continua ad abbracciare ambedue, riporterebbe, secondo Ménard, ai principi maschili e femminili dello Yang e dello Yin orientali e agli stessi principi si potrebbero riportare altri dualismi mitologici dei Rom.
Una mitologia nella quale la femminilità, opposta e complementare al suo alter ego maschile, ricopre una particolare valenza che si ritrova ancora in determinate tradizioni.

Spiriti buoni e Demoni patogeni

Secondo la Cozannet nella cultura religiosa zingara quasi tutte le forze soprannaturali, spiriti buoni, spiriti cattivi e mediatori, hanno sembianze femminili. Allo stesso modo le persone ritenute più capaci di ergersi al di sopra delle comuni capacità umane e di avvicinarsi in qualche maniera al soprannaturale sarebbero proprio le donne.
Presso gli Zingari dell'Europa centrale si credeva che esistessero tre classi di spiriti, tutti femminili, che determinavano il destino degli uomini e degli animali: le Ourmes, le Kechali e le Holypi.
Le Ourmes erano le dee del destino, chiamate anche «donne bianche» perché indossavano una lunga veste di quel colore. Legate all'ambiente naturale esse apparivano sempre in numero di tre, una buona, una che portava sventura ed una che fungeva da mediatrice. Quando un nuovo nato rallegrava una comunità, la stessa notte della nascita, oppure quella successiva al giorno del battesimo, intorno alla tenda del nascituro veniva tracciato un ampio cerchio e dentro esso veniva lanciata una manciata di semente di agrifoglio.
Ciò avrebbe permesso alle tre «donne bianche» di non essere disturbate da spiriti cattivi.
In Romania, in Serbia e in Russia, esisteva l'usanza simbolica di porre sul corpo del neonato una tazza colma di grano cotto nel miele, con dentro tre cucchiai, uno per ogni spirito.
Una volta terminati i preparativi all'interno della tenda restavano solo la madre e il nuovo figlio: una maga restava invece in preghiera vicino all'uscio auspicando che sul capo del bambino venissero attirate fortuna e salute. Alcuni giorni dopo, ed esattamente a mezzogiorno, nello stesso luogo dove era avvenuta la nascita, veniva piantato un ago: dal grado di ossidazione rilevato dalla maga dopo altri tre giorni si poteva finalmente comprendere quale sarebbe stato il destino in vita del nuovo nato, quanta fortuna l'avrebbe accompagnato e quanta sfortuna l'avrebbe colpito.
Oltre alle «donne bianche» anche le Kechali, o fate dei boschi, avevano sembianze femminili e potevano determinare il destino degli uomini. Esse abitavano le montagne in gruppi di tre e possedevano lunghi e sottili capelli che, spandendosi per l'aria, formavano la nebbia.
Le fate dei boschi potevano determinare la buona o cattiva sorte del nascituro avvolgendo intorno al suo collo un filo rosso. Le maghe, all'atto della nascita, controllavano così se sul collo del bambino apparisse o meno un qualcosa che potesse ricordare simbolicamente il filo rosso, una piega o una grinza, segno di buona sorte.
Secondo la Cozannet l'affinità di questa credenza con quella delle tre Parche, le Moire presenti nella mitologia greca, Cloto, Lachesi e Atropo (dee del destino che tessevano o recidevano il filo del fato), dimostrerebbe forse una comune ascendenza dei due miti. Resta però il dubbio che gli Zingari, molto più semplicemente, possano aver riciclato il mito delle figlie di Zeus e Temi quando vissero nel Peloponneso.
Come le «donne bianche» e le fate dei boschi, anche le Holypi, le streghe, erano entità femminili, anche se non veri e propri spiriti ma donne trasformatesi nel nuovo stato dopo una congiunzione carnale con il Diavolo.
Esse, considerate dagli Zingari dell'Europa centrale al pari di altre forze soprannaturali negative, erano credute capaci di procurare malattie e sventure e potevano essere combattute solamente attraverso numerosi riti di scongiuro.
Le streghe, essendo capaci di unirsi sessualmente col Diavolo, mantenevano alcune necessità terrene, come quella di nutrirsi: il cibo che si supponeva fosse loro gradito diventava così vietato agli esseri umani; un vero e proprio tabù simile a quelli che ancora oggi, anche se con diverse motivazioni, vietano ai Rom di assumere determinati alimenti.
Il ruolo d'intermediario tra gli spiriti femminili e i comuni mortali veniva affidato alle maghe.
Maghe lo si poteva divenire in due modi: o essendo figlie di maghe, ed ereditando in questa maniera il potere della madre, oppure tenendosi in rapporto sessuale con i Nivaci, spiriti acquatici con sei dita alla mano sinistra.
È più che probabile comunque che oltre alle figure già citate ne esistessero numerosissime altre con numerosissimi altri riti dei quali si è persa ogni traccia.

La malattia e la morte

In passato, ma è bene ricordare ancora una volta che gli studi degli ziganologi si riferiscono sempre a particolari gruppi e che quindi appare difficilissimo tracciare un quadro unitario di certe abitudini rituali e di certe credenze, i Rom hanno spesso accreditato la provenienza della malattia ad un' origine di tipo religioso, ed in particolare demoniaco: un'ingerenza dei Demoni patogeni nel destino dell'individuo.
Gli Zingari, convinti dell'assoluta unitarietà tra ciò che è spirito e ciò che è materia, sarebbero stati altrettanto convinti della profonda complementarità del naturale e del sovrannaturale.
Un sovrannaturale che si sarebbe manifestato spesso sotto forme corporee che vivevano in stretto contatto con gli esseri umani e che, penetrando in essi, ne minavano lo spirito, ciò che noi chiamiamo anima e che essi definiscono come «vita» (vodji, jipen, dùsa).
Contro i Demoni patogeni che potevano impadronirsi di un individuo, combatteva il Butyakengo, lo spirito protettore che proveniva dagli avi defunti e che trasmetteva ai discendenti una porzione dell'anima rimasta sulla terra.
La divisibilità dell'anima sarebbe stata l'anello di congiunzione che legava, generazione dopo generazione, la famiglia zingara alla sua ascendenza.
Il Butyakengo restava comunque distinto dall'anima della persona che proteggeva e, se veniva sconfitto dai Demoni, poteva allontanarsene fuoriuscendo dal corpo attraverso l'orecchio destro.
I Demoni patogeni, figli della regina Ana delle Kechali, provocavano malattie e avevano differenti nomi nei diversi sotto gruppi zingari. La Cozannet riporta i nomi tratti da «Tziganes de Serbia et de Turquie», la cui funzione è stata ben spiegata da H. von Vislocki nel suo «Aus dem inneren Leben der Zigeuner» (1892):


- il Melalo (lo sporco), che portava malattie e calamità di vario tipo;
- la Lily (la vischiosa), che portava malattie del raffreddamento;
- il Tchulo (il grosso), che provocava malattie alle gestanti;
- la Tchridyi (la calda), che portava le febbri da parto;
- lo Schilayi (il freddo), che provocava febbri fredde;
- il Bitoso (il digiunatore), che provocava mal di stomaco, tosse e inappetenza;
- il Lolmisho (il topo rosso), che causava malattie della pelle;
-la Minceskre (moglie del topo rosso), che provocava le malattie veneree;
- il Poreskoro (essere terrificante con quattro teste di gatto e di cane, un corpod'uccello e la coda di serpente), che provocava la peste e il colera.


Quando il Butyakengo entrava in lotta contro uno di questi spiriti si manifestavano le malattie, contro le quali ci si adoperava in diversi modi, ma sempre sperando che lo spirito protettore facesse la sua parte.
Uno di questi modi era l'uso medicinale di una vastissima gamma di sostanze vegetali, animali e minerali. Un uso medicinale che rientrava nell'insieme di operazioni rituali nelle quali tanto le proprietà stesse delle sostanze utilizzate, quanto i simbolismi religiosi tratti dalle religioni positive, quanto, ancora, le capacità magiche delle guaritrici, entravano in gioco.
Quando la malattia si riteneva molto grave poteva infatti richiedersi l'intervento di una maga, la quale cominciava anch'essa la sua personale lotta con i Demoni patogeni presenti nel corpo dell'ammalato: essa, con l'ausilio di parole e polveri magiche (probabilmente altre erbe medicinali), ordinava ai Demoni, in nome di Dio, di lasciare il corpo sofferente.

Oltre la vita

È parere comune di tutti gli studiosi che nella loro tradizionale psicologia religiosa gli Zingari intuivano l'immortalità dell'anima in maniera totalmente diversa da quella teorizzata dalle religioni positive.
Ciò che nella tradizione cristiana era stato proposto col Nuovo Testamento, cioè l'esatta e per la prima volta ben definita finalizzazione della vita terrena e delle sue sofferenze alla vera vita, quella ultraterrena, nella quale avviene la retribuzione di ciò che di bene o di male si è fatto nel corso dell' esistenza materiale, non sarebbe esistita affatto nelle credenze zingare.
L'immortalità dell'anima sarebbe stata da loro concepita come il suo passaggio in un altro stato sensibile, che non rappresentava nel modo più assoluto la finalità o la retribuzione della vita terrena, la premiazione o la punizione causate dai comportamenti tenuti prima di decedere.
L'universo dei morti «... secondo la mitologia zingara non ha nulla di allegro, è sostanzialmente un penoso vagabondaggio dell'anima in un atmosfera di terrore e spavento. Questo regno dei morti non è situato in un luogo speciale, risiede per ogni tribù zingara nella regione in cui essa è stanziata, ma nei luoghi remoti alla frontiera tra la terra e l'immaginario aldilà».
Questa interpretazione orrorifica dell' aldilà per certi versi non sembra affatto corrispondere a quanto da altri riportato. Nei racconti kalderasha, per esempio, su e intorno alla morte, compaiono altri elementi che danno dell'aldilà un aspetto meno drammatico e che smentiscono l'assenza del principio di retribuzione.
Zlato e la Karpati, in Rom Sim, dicono per esempio che «È un tribunale, la kris, che nell'aldilà delibera l'accoglimento nelle praterie beate, dove i Rom continuano la loro vita, ma nella pace e nella gioia. È il morente, che nel momento supremo raccoglie il frutto di una vita».
I riti funerari zingari non sarebbero stati delle vere e proprie celebrazioni, o non soltanto queste: esse da una parte dovevano preparare l'anima del defunto nei suoi vagabondaggi, benefici o malefici, nell' aldilà, e dall' altra avevano un carattere esorcistico verso le sue eventuali manifestazioni nel regno dei vivi.
Il passaggio dell'anima nel regno dei morti, si credeva non avvenisse immediatamente dopo il decesso. Per questo motivo essa andava aiutata in tutti i modi possibili: si vestiva il defunto con i suoi abiti più belli, lo si incoraggiava con i canti e i lamenti funebri, gli si costruiva una bara grande e comoda nella quale a volte si sistemavano le sue cose personali.
In certi gruppi, nel terzo giorno dopo la sepoltura, si ponevano su una tavola imbandita del sale, del pane e dell'acqua per il defunto. Più avanti, durante altre feste, il morto veniva ancora ricordato con altri .riti.
A volte lo si ricordava in modo speciale nel rito chiamato Pomana, che avveniva sei settimane e un anno dopo la morte: nel corso di un banchetto una persona della stessa età del morto ne recitava il ruolo, usando i suoi stessi modi di vestire, di parlare, di mangiare. La Pomana, con tempi diversi, è ancora in uso tra i Roma residenti a Cagliari.
L'atteggiamento generale nei confronti dei morti non era in definitiva la celebrazione o la preghiera, ma la compartecipazione alle difficoltà insite in quello che si credeva il suo nuovo stato.
Nello stesso momento, dato che la malattia e la morte avvenivano ad opera degli spiriti del male, il defunto era anche temuto, quasi potesse ancora contaminare i vivi. Si sa che in certi gruppi gli spiriti cattivi potevano manifestarsi sotto molte sembianze. Venivano, e vengono ancora, chiamati Mulo, o Vampiro, o, ancora, secondo la Karpati, Duxo: in questo caso l'entità di una persona morta accidentalmente che doveva «continuare ad aggirarsi senza pace sulla terra sotto forma di spettro per tutta la durata del tempo che gli era stata assegnata da Dio».

La psicologia religiosa zingara e le religioni positive

Gli Zingari ormai da circa mille anni hanno conosciuto sia il cristianesimo che l'islamismo: resta difficile stabilire in che misura si sia concretizzata la simbiosi tra vecchio e nuovo, quanto del vecchio sia tutt' ora in vita e quanto di questo stia lentamente trasformandosi in un ruolo che si potrebbe definire di superstizione residua, al pari di quelle che sopravvivono nella psicologia religiosa cristiana come substrato di elementi arcaici.
Di sicuro certi usi sono ancora in vita e, anche ad una lettura superficiale, li si può facilmente notare nei gruppi Roma presenti in Sardegna.
La resistenza, per esempio, a parlare dei propri morti; i riti funerari stessi;
i tabù che impediscono di mangiare certi cibi, la paura per i cani primogeniti e per certi gatti che potrebbero assalire i bambini; i tabù sull'impurità o i riti utilizzati per curare certe malattie.
Esiste ancora il terrore dei fantasmi, sui quali ognuno ha storie da raccontare: storie solitamente accreditate ai parenti più anziani.
I fantasmi sono, a loro parere, di due tipi: il Cohano, che si può vedere e che sarebbe il più pericoloso perché assume forme materiali ed è capace di aggressioni fisiche, e la Javista, che non si vede ma della quale essi spesso dicono di sentire l'agitarsi fuori dalle baracche nelle notti ventose.
Quando si sospetta che in un posto possano esservi morti degli esseri umani, gli uomini, da soli, vegliano la notte e si accertano se lì sia possibile o meno costruire il nuovo accampamento: uno degli ostacoli maggiori al trasferimento di un gruppo sul terreno assegnatogli da una amministrazione comunale in provincia di Cagliari, oltre le condizioni davvero infami visto che si trattava di un terreno adiacente ad un ex-inceneritore di rifiuti urbani, fu la paura che nei pressi potessero aggirarsi i fantasmi di neonati morti (gli Zingari sono rimasti molto colpiti dalla «abitudine» di certe donne non-zingare di liberarsi dei neonati buttando li nei cassonetti dei rifiuti). Altri elementi del passato sopravvivono sicuramente nella simbiosi presente all'interno delle ricorrenze religiose: durante la Festa di Primavera si rinnova il rito del Kurbano (il sacrificio dell' agnello), con il quale si prepara la Shastimace, il cibo del ringraziamento per una grazia ricevuta.
La Festa di Primavera si ricollega poi alla concezione animistica della rinascita della natura: cessa l'inverno, con il suo buio e le sue malattie, e inizia la positiva Primavera, il mondo naturale si risveglia e inizia un nuovo ciclo vitale.
Ma al pari di queste credenze, e ad esse ormai intimamente associate, sono ben vive quelle apprese con l'islamismo.
A questo proposito c'è da domandarsi, ma è solo una domanda spontanea alla quale forse potranno rispondere più competenti ricerche, se l'associarsi degli Zingari all'islamismo o al cristianesimo, non abbia in qualche modo rappresentato la naturale evoluzione di un senso religioso fatali sta e non positivo.
Una tesi un po' azzardata: se non altro perché suppone non la simbiosi tra credenze diverse, madre di un qualcosa che comunque resta autonomo e differenziato, ma la piena e totale conversione.
Cosa che, senza dubbio, per tanti di loro oggi non è.

Capitolo sesto: la vita nei campi abusivi a Cagliari

Un uomo ha bisogno di cinque cose: una donna, una tenda, le sue mani, un occhio acuto e qualche cosa per cui combattere

proverbio kalderasha

Organizzazione sociale tra passato e presente

Alessandro Galdi, in un'interessante monografia apparsa sulla rivista «Etnia» nel 1982, scrive che la Kumpania rappresenta l'unica forma di organizzazione sociale conosciuta dai gruppi zingari e che essa sarebbe basata sulla famiglia nucleare.
Secondo J. Pierre Liégeois, più famiglie nucleari legate da vincoli di parentela, formerebbero una Vitsa, secondo altri una Stamma, che potrebbe arrivare sino alle duecento persone.
Più Vitse formerebbero gruppi ancora più ampi denominati Natsie e queste ultime sarebbero alla base dei sotto gruppi fondamentali dei Rom, dei Sinti e dei Gitani.
La Kumpania, che sarebbe struttura estremamente instabile e caratterizzata - oltre che dai vincoli familiari - dalla corresponsabilità economica nello sfruttamento delle potenzialità di un determinato territorio, verrebbe guidata da un capo, il Baro Rom, il Grande Uomo, l'anziano «... che detiene l'autorità nella sua famiglia, e più grande è la famiglia più ampia è la sua autorità, e quindi più grande il rispetto che gli altri Zingari portano nei suoi confronti».
Nei gruppi Roma presenti a Cagliari molte di queste definizioni che sono facili a trovarsi negli studi a carattere antropologico e sociale, sono quasi del tutto sconosciute, segno forse di una modernizzazione rapida ed impietosa che sta velocemente stravolgendo la tradizionale organizzazione.
Sino a pochi anni orsono, all'interno di ogni grande gruppo legato da vincoli di parentela, si poteva riscontrare la presenza di un «personaggio rappresentativo», che solo superficialmente potremo definire un «capo».
Il suo ruolo veniva riconosciuto per elezione delle sue capacità: saggezza, moderazione, buona attitudine nel dare le coordinate di comportamento nell'incontro-scontro con la società dei gagé. Le sue indicazioni venivano di norma rispettate e applicate senza discussioni. Egli stabiliva il luogo della sosta, sanciva le norme di comportamento da tenersi con la circostante popolazione gagé, intratteneva i rapporti con le autorità e dispensava consigli sulle controversie più spinose.
Oggi, a distanza di pochi anni, in alcuni gruppi questo delicato meccanismo sembra essersi in qualche modo inceppato.
Anche se è difficile ipotizzare perché ciò sia avvenuto, mi sembra abbastanza plausibile che l'unitarietà dei gruppi stia entrando in crisi anche a causa dello scontro con la nostra società, con i suoi miti di ricchezza e di individualismo esasperato e con gli altri disvalori caratteristici della nostra civiltà dei consumI.
Un'altra possibile concausa sarebbe forse da ricercarsi nella nascita di un nuovo tipo di povertà, quella urbanizzata e tendente a tracciare la strada per una progressiva sottoproletarizzazione dei gruppi zingari, con tutte le caratteristiche proprie di tale fenomeno.
Emblematica, nella sua semplicità, è l'esperienza di Nusret Selimovic, giovane Zingaro proveniente dal Montenegro e residente a Cagliari da ormai quasi un decennio, che sino ad alcuni anni orsono ricopriva il ruolo di «capo» all'interno di una delle più affollate Kumpanie xoraxané.
Giovane, ma rispettato per la sua intelligenza e per il suo spiccato buon senso, dopo la morte di sua figlia Tiziana, uccisa da una broncopolmonite fulminante e martoriata dai morsi dei topi, entrò in contatto con i volontari di un' associazione che da tempo si batte contro l'emarginazione degli Zingari. Fattosi esso stesso promotore dei diritti della sua gente, divenne in qualche modo la figura mediatrice tra i Roma, l'associazione del volontariato e le autorità locali che, a più riprese, promisero la costruzione dei Campi Sosta e altri interventi che avrebbero dovuto arrestare la falcidia dei bambini migliorandone le condizioni di vita.
La delusione provocata dalle promesse non mantenute dalle autorità locali, alle quali lui aveva invece creduto e delle quali in qualche modo si era reso involontario garante verso gli altri Roma - dai quali continuava a pretendere sia Il rispetto delle tradizioni che comportamenti di buon vicinato con i non-zingari - provocarono lentamente quanto inesorabilmente una caduta di prestigio che più avanti gli impedì di continuare a svolgere il proprio ruolo.
Nessuno poi l'ha sostituito, perché il gruppo originario è andato trasformandosi e oggi appare sicuramente più instabile, disorganizzato, esposto a maggiori rischi di quanto non lo fosse in precedenza.
Una delle tradizioni delle quali è invece rimasta qualche traccia, è quella della Kris, l'organo giudiziario della Kumpania.
La Kris, che significa Consiglio, Tribunale, Giustizia, rappresentava un tempo l'organo deputato a presiedere il buon andamento della comunità e la «giustizia» interna. Essa non aveva potere esecutivo ma esercitava il compito di giudicare, condannare e assolvere la persona imputata di qualche reato.
Questa sorta di tribunale, presieduto da un anziano chiamato Krisnitori (che letteralmente significa giudice o mediatore), era completamente autonomo dalla giustizia amministrata dai non-zingari e si pronunciava su diverse colpe considerate gravi:
- adulterio;
- furto ai danni di uno Zingaro;
- rottura della promessa di matrimonio;
- delazione all'autorità non-zingara;
- violenza fisica su altri Zingari;
- violazione di certi tabù;
- contrasti di vario genere tra singoli o famiglie.
L'incarico di eseguire le sentenze, che erano inappellabili, spettava all'intero gruppo. Le sanzioni potevano essere di quattro tipi diversi: corporali, economiche, sociali e soprannaturali. Queste ultime, quando il colpevole di una determinata colpa non veniva individuato, venivano invocate sul suo capo, nella convinzione che la giustizia divina l'avrebbe prima o poi raggiunto secondo quanto stabilito dagli uomini.
Oggi la Kris, termine che è più utilizzato dai dassikané che non dai xoraxané, è praticato in modo assai informate e per problemi non necessariamente gravi.
A volte capita, più volte è capitato a Cagliari, che qualche Zingaro invece di rivolgersi alla giustizia interna preferisca rivolgersi direttamente agli organi di Polizia dei gagé. In un'occasione capitò che un nuovo arrivato nel Campo abusivo di Selargius, contravvenendo alle indicazioni comportamentali dategli in precedenza, entrasse in un appartamento vicino e rubasse gioielli e preziosi per una considerevole cifra.
Il caso volle che del furto fosse poi accusato un altro Zingaro: la «Kris» decise e mise in pratica la «cattura» dello Zingaro colpevole, la sua «bastonatura» e l'immediata consegna alla Polizia.
Spesso la sanzione decisa dalla «Kris» consiste semplicemente nell' allontanamento del o della colpevole, al quale ci si sottopone senza resistenza e che solitamente non ha lunga durata.
Quando un uomo o una donna si sono comportati in maniera palesemente contraria alle regole del gruppo, o hanno offeso gravemente e in maniera irrimediabile una persona della propria famiglia, allora possono venire espulsi in modo che detta espulsione sia pubblica e appariscente: la persona che si vuole allontanare è costretta ad uscire dal Campo non per la strada principale ma da una via laterale.
In un Campo abusivo che era provvisto di una recinzione metallica, una volta venne aperto un varco nella rete per allontanare, proprio come un ladro, la persona colpevole di un comportamento anomalo.
Quando tra due uomini, o tra due famiglie, viene a crearsi un dissidio, i contendenti possono affidarsi al giudizio insindacabile del «Krisnitori», che in questi casi esercita le funzioni di conciliatore.
Esso solitamente viene scelto tra le persone più anziane del gruppo e non deve necessariamente essere di sesso maschile. In questo modo molti dissidi che potrebbero altrimenti diventare più gravi, vengono ricomposti in modo pacifico ed indolore.

La nascita e l'imposizione del nome

Le antiche credenze del popolo degli Zingari volevano la nascita di un bambino come un evento carico d'impurità e quindi sottoposto a numerosi riti e altrettanti tabù.
In certi gruppi il parto non poteva avvenire nello stesso spazio dove si abitava. Venivano perciò predisposte apposite tende che più tardi venivano distrutte.
In altri gruppi il parto poteva anche avvenire direttamente all'aperto.
Secondo Alessandro Galdi: «Il parto alla luce del sole ed a contatto con la terra non è sconosciuto in altre culture. Esso implica un legame diretto tra la vita nascente e la forza vitale derivante dalla natura».
La partoriente, prima della nascita, era usa sciogliersi i capelli. A parere della Cozannet, questo rito riprendeva «... la credenza ben nota nella storia delle religioni, che considera la capigliatura femminile carica di va lenze magiche; sciogliendo la la madre libera tali forze per rendere più facile il parto».
Oggi le donne nomadi presenti a Cagliari e in tutta la Sardegna solitamente partoriscono in ospedale e, visto il persistere di tutta una serie di ben precisi tabù che circondano l'evento, è assai probabile che esse non lo facciano solo per questioni di igiene e di sicurezza ma anche per trasportare lontano dai luoghi da loro abitati un evento così carico d'impurità.
I riti e le abitudini che seguono il parto hanno duplice funzione: proteggere gli adulti dall'impurità ed il bambino dalla cattiva sorte.
Quando è possibile la madre conserva il cordone ombelicale, il Bureko, del nuovo nato. Dopo che il cordone si è completamente asciugato, esso viene intrecciato e cucito insieme ad alcune fasce di tessuto. Si ottiene in questo modo una specie di corda, la Fasha, che verrà tenuta avvolta intorno all'addome del neonato per procurargli la buona sorte e per proteggerlo dagli spiriti del male sempre in agguato.
Quando non è possibile conservare il cordone ombelicale esso viene sostituito da una semplice fascia di lana arrotolata e ben cucita.
Benché i Roma che vivono in Sardegna siano quasi tutti di religione islamica, a confermare la tendenziale interreligiosità degli Zingari, capita qualche volta che sul capo del neonato venga posta una cuffia stracarica di medagliette e immagini religiose cristiane, soprattutto per proteggerlo dall'invidia e dalle maledizioni. In qualche caso le medagliette ricoprono a decine anche le fasce e gli abitini.
Dopo il parto inizia per la madre un periodo di auto isolamento che può durare mesi e mesi. Essa non esce dalla sua baracca se non nei rari momenti in cui non corre il rischio di essere veduta dagli uomini delle altre famiglie. Per lo stesso motivo, ovviamente, le sono precluse le visite nelle altre baracche e i normali rapporti di relazione.
Sempre nello stesso periodo essa non può cucinare per il marito e per gli altri figli, perché l'impurità, della quale è ancora portatrice, potrebbe trasmettersi ai cibi che tocca, e, per lo stesso motivo, le è fatto divieto di toccare gli abiti o le coperte dei congiunti.
Per le necessità quotidiane la famiglia viene aiutata da una parente, rigidamente femmina, dato che la madre non può assolutamente essere vista dagli uomini del gruppo.
L'uso di questa «quarantena», rispettato ancora in certe famiglie, sta invece scomparendo in altre, specialmente in quelle formate da giovani o giovanissime coppie.
Il mantenimento di queste tradizioni non dipende poi solamente dalla volontà di preservarle o meno: esso presuppone una grande collaborazione da parte delle altre famiglie, perché necessita di aiuto e di sostegno.
Una madre che non viene aiutata da nessun' altra donna nelle faccende domestiche non può oggettivamente uniformarsi alle vecchie tradizioni, quindi cucinerà, laverà gli abiti, andrà in giro per il Campo come sempre ha fatto prima del parto.
La reazione degli anziani verso le giovani coppie che non si adeguano alla tradizione a volte può invece essere molto dura. Se una donna che ha partorito da poco tempo circola liberamente per il Campo, senza che abbia per questo valide giustificazioni, il suo portamento viene ritenuto gravemente offensivo.
È capitato che qualche giovane imprudente, mentre si avvicinava ad un'altra baracca, sia stata bruscamente invitata a tornare sui suoi passi, pena una brutta «lezione» corporale.
La madre, già sottoposta a questa incredibile serie di restrizioni, deve mantenere, per un certo periodo, alcune precauzioni nei confronti del bambino.
Per esempio se il piccolo, o la piccola, piange perché sta mettendo i denti, essa non può assolutamente controllarle la bocca. Capita così che questa incombenza venga magari affidata a qualche amico gagé, che controlla il piccolo e poi tranquillizza la madre, preoccupata ma bloccata sui suoi timori.
Questo tipo di credenza (il timore che controllando la bocca del bambino si possa provocare la caduta dei denti), è presente anche fra le popolazioni non zingare della Polonia e dell'Ucraina.
Anche il padre del bambino è tenuto ad uniformarsi ad una serie di regole, alcune tese a proteggere sé stesso dall'impurità ed alcune tese invece a garantire il benessere del neonato. Esso non può toccarlo o prenderlo per un periodo che può arrivare anche a dieci mesi, un anno. Per lo stesso periodo egli farà in modo di essere presente nella baracca dove il piccolo dorme dal tramontare al sorgere del sole. Questa abitudine ha forse le sue origini nell'antica convinzione che «... è proprio durante la notte che la vita del neonato è minacciata dagli spiriti cattivi, che la presenza del padre tiene invece a bada».
Tra i Roma che vivono a Cagliari non esiste il rito del battesimo, essendo la loro fede musulmana. Il nome, il Romano Lab, viene così imposto in una cerimonia chiamata Babine, alla quale vengono invitati parenti ed amici, tra i quali anche i gagé, che sono ben accetti.
Gli invitati portano in dono una bottiglia di liquore, o un dolce, per i genitori e un oggetto prezioso per il bambino. Quest'ultimo può essere la classica catenina d'oro, o un bracciale e, se si tratta di una bambina, un paio di orecchini.
Poi, seduti sui tappeti, ognuno degli invitati propone un nome di suo piacimento. La scelta finale spetta al padre del bambino che può tener conto o non tener conto dei suggerimenti degli amici.
I nomi zingari possono essere di ogni tipo, slavi, italiani, attinti dalla tradizione o sentiti casualmente alla televisione, nomi di santi, di attori, di parenti o di egregi sconosciuti. Secondo Kochanowski gli Zingari tendono ad assumere, in generale, i nomi tratti dall' onomastica dei territori dove abitano o dove hanno abitato.
Il De Foletier riporta invece quanto asserito da altri numerosi ziganologi:
«... in certi gruppi il nome scelto dalla madre per il proprio figlio resta rigorosamente segreto, finché non è cresciuto, altrimenti gli estranei e anche i geni cattivi, potrebbero avere un potere su di lui e nuocergli»7.
Secondo alcuni Zingari il nome segreto viene tutt' ora usato, e in questo caso si imporrebbe pubblicamente solo il nome «pubblico», secondo altri no.
Di certo la cerimonia dell'imposizione del nome appare di particolare solarità e spensieratezza, ed è, per certi versi, anche molto divertente. Dai classici Omer, Svetlana, Airis, Katiza, amo, Sultano, Zumber, si passa a nomi epico-televisivi quali Tarzan o a stratagemmi come Tersun, nome imposto da Nusret al suo primo figlio maschio semplicemente invertendo l'ordine delle lettere del proprio nome.
Quando il bambino sarà poco più grande, e se si verificano certe condizioni, gli si cercherà un padrino. Solitamente al di fuori del parentado e in una famiglia che sia stimata e potente.
Così la famiglia del bambino si lega a quella del padrino in un vincolo di amicizia e di reciproca alleanza. La Cozannet riporta un brano di Mateo Maximoff su quelle che una volta erano le usanze dei Rom Kalderasa: «Il padre e la madre devono il più grande rispetto al padrino e alla madrina; in loro presenza non hanno il diritto di proferire insulti, anche se hanno buoni motivi per adirarsi. Non possono mentire loro; anche se fosse necessario. (...) Se i genitori sono ricchi, offrono una camicia al padrino e un fazzoletto alla madrina, anche se non si trovano nella stessa regione... Da parte sua il padrino deve aiuto e protezione al figlioccio. Non può né colpirlo, né ingiuriarlo, ancor meno maledirlo. I suoi figli carnali si considerano, nei riguardi del figlioccio, come fratelli e sorelle della croce».
Questa testimonianza, che si riferisce ad un gruppo di fede cristiana, palesa alla perfezione gli stessi ruoli assunti dal padrino, dai genitori e dal figlioccio nei gruppi Roma di fede musulmana.
Dal momento in cui il padrino taglia una ciocca di capelli al figlioccio (e deve essere necessariamente il primo taglio di capelli della sua vita), l'impegno assunto reciprocamente resterà valido per tutta la vita.

I matrimoni

La Cozannet ha scritto che nel vasto universo zingaro il matrimonio, di norma, segue i canali di una struttura «matrilineare», cioè per filiazione uterina.
Questo significa che i legami di parentela si costituirebbero attraverso la madre ed è lo sposo che si assocerebbe alla famiglia e quindi alla Kumpania della sposa.
In questi casi la donna ricoprirebbe un ruolo molto importante: «Il posto della donna in una società puramente nomade è di particolare responsabilità; signora del focolare domestico, essa lo è anche di tutto quanto sia strettamente caratteristico della vita errante, della necessità di fare fagotto senza sosta, di rifare eternamente lo stesso accampamento, di smontare e rimontare in continuazione, tra le preoccupazioni della madre di famiglia ».
Questa interpretazione del matrimonio e della composizione delle nuove famiglie è stata considerata dai più autorevoli ziganologi italiani, come ad esempio l' antropologo Leonardo Piasere, del tutto infondata.
Di certo infondata lo è rispetto agli usi dei Roma xoraxané e dassikané residenti in Jugoslavia e in Sardegna, nel senso che di norma è la donna che si associa alla famiglia e alla Kumpania dello sposo.
Il matrimonio avviene di solito in un' età giovanissima, dai quattordici ai sedici anni per ambedue i coniugi, anche se non è raro che qualche uomo più «vecchio» si unisca con una donna molto più giovane.
L'interruzione precoce di un'adolescenza che tra i non-zingari si protrae ancora per diversi anni è un dato assolutamente normale: tra gli Zingari si cresce in fretta e le difficoltà della vita non lasciano spazio ad una crescita dilazionata nel tempo.
Quando un giovane ha deciso di sposarsi, e ha il consenso della famiglia su quella che è stata la sua scelta, i suoi genitori si recano a far visita al padre e alla madre della futura sposa e qui comincia una trattativa che a volte, a quanto ho potuto vedere, coinvolge anche altri parenti stretti. I richiedenti portano in dono una bottiglia di liquore adornata con nastrini colorati, tra i quali viene inserita qualche banconota.
Quando si parla di trattative, o meglio di «contrattazione del prezzo» del matrimonio si fa riferimento al fatto che la famiglia dello sposo deve risarcire quella della sposa con una certa quantità di denaro.
Ma non si tratta, come superficialmente si sarebbe portati a credere, di una vera e propria vendita della ragazza. Il prezzo della donna sembra essere più un agente mediatore tra le due famiglie che non un costo in assoluto.
Esso può, attraverso una serie di concessioni, ridursi o annullarsi se tra le famiglie esistono rapporti di stima e rispetto, oppure elevarsi in modo sproporzionato per impedire di fatto le pretese avanzate da una famiglia poco gradita.
La trattativa avviene in questo modo.
Il padre del pretendente chiede il «prezzo» della donna. Se la famiglia è stimata il genitore stabilisce una cifra che già sa accessibile e che deve essere versata immediatamente.
Ora, quando i rapporti sono davvero buoni, non è raro che parte di questi soldi vengano restituiti seduta stante, un po' per gli sposi, un po' per il banchetto nuziale, qualche volta in semplice regalo ai genitori dello sposo.
Gli Zingari che ignorano queste «buone maniere», quelli troppo avidi o comunque troppo interessati al denaro, sono disprezzati e tenuti ai margini della vita sociale del gruppo.
Se le due famiglie non vanno d'accordo, e i due ragazzi intendono ugualmente unirsi in matrimonio, il giovane farà in modo di organizzare il «rapimento» della ragazza, ovviamente dietro precisi accordi: si tratta insomma di un rapimento su «appuntamento». I due fuggiaschi, dopo aver trascorso due o tre giorni insieme, rientrano nelle rispettive famiglie che a quel punto, volenti o nolenti, sono costretti a riaprire le trattative.
Dall'incontro fra i genitori alla cerimonia del matrimonio trascorrono pochi giorni, di solito una settimana.
Nel Campo del ragazzo fervono i preparativi per la grande festa, mentre la famiglia della ragazza prepara l'abito nuziale, bianco e con tanto di velo intorno. La cerimonia del matrimonio, l'Abijav, comincia sulla tarda mattinata: un giovane messaggero, il Ciajo, si reca di Campo in Campo per annunciare l'evento.
Successivamente lo Starisvat, solitamente un uomo di prestigio che ha il ruolo di gran cerimoniere, organizza il corteo di auto che porterà tutti gli Zingari verso il Campo della ragazza. Lo sposo invece aspetterà, da solo, che la giovane gli venga portata sino alla soglia della nuova baracca, costruita appositamente per la nuova famiglia.
Il corteo delle auto, agghindate a festa con centinaia di fiori, percorre la città in un frastuono di clacson e urla. L'importanza dell'avvenimento deve essere manifestata anche ai gagé.
Nel Campo della sposa, dopo un breve banchetto e un primo scambio di doni e denaro, la ragazza viene affidata alla nuova famiglia. Essa verrà presa in consegna dallo Jevero, un valletto, ma a volte sono due, che le resterà incollato per tutto lo svolgimento della cerimonia e della festa. Lo Jevero, solitamente un giovanissimo prossimo candidato alle nozze, indossa un'ampia fascia colorata che ne distingue il ruolo. Prima di andar via i parenti del ragazzo, per buona sorte, tentano di «rubare» un oggetto nella baracca della famiglia della sposa, un piatto, un coltello o altro ancora.
Poi, nel viaggio di ritorno, la carovana di auto, alle quali si sono aggiunte quelle dei parenti della ragazza, viene preceduta da un altro messagero, il Bajrakgija, che stringe in mano una bandiera. Questa bandiera verrà poi sistemata sulla baracca degli sposi.
Uno dei momenti più festosi e commoventi della cerimonia si compie quando la ragazza mette piede nel Campo del suo futuro sposo. Essa, tenendo lo sguardo chino in segno di umiltà, bacia la mano di ogni invitato e poi la porta sulla fronte in segno di rispetto: dopo di che si avvia verso la nuova baracca, dove lo sposo l'attende col braccio teso sullo stipite della porta, a formare un arco sotto il quale dovrà passare.
Quando, sempre a capo chino, passa sotto il braccio teso ed entra nella baracca, l'Abijav si è compiuto, i due giovani sono diventati marito e moglie.
Il passaggio della donna sotto il braccio dell'uomo, e la sua entrata nella nuova casa, rappresentano il vero rito del matrimonio. Il vasto cerimoniale che precede e segue questo momento è più legato all'idea della festa che non al rito stesso. Un rito che conclude quanto di più naturale possa esistere: l'unione volontaria e pubblica di due persone in una nuova famiglia.
Alcuni ziganologi, di fronte a questa semplicità rituale che sembra essere la caratteristica di quasi tutti i gruppi zingari, hanno ipotizzato che in un remoto passato non esistesse tra di loro alcuna traccia di cerimonie ufficiali: «Presso popolazioni vicine al ritmo della natura, nelle quali il matrimonio è considerato la realtà umana sociale di base e in cui la sessualità è oggetto di strette regolamentazioni, l'effettiva realizzazione della essenzialità del matrimonio, ossia del vivere maritalmente insieme, sembra essere sufficiente e rende inutile qualsiasi rito che esprima l'atto di volontà reciproca che si suppone sia stato formulato al momento di iniziare la coabitazione».
È certo comunque che, a prescindere dall'elementarità dell'atto, attorno ad esso venga poi a manifestarsi una delle feste più belle e gioiose del mondo zmgaro.
Un grande banchetto accoglie i numerosissimi invitati. Sulla spalla di ognuno di essi verrà appuntato lo Svatu, un fazzoletto colorato che ne designa la qualità di ospite gradito.
Sulle lunghe tavolate il piatto principale, come sempre, è la pecora arrosto, che viene presentata intera, a volte ripiena, e che sempre viene farcita con erbe aromatiche. Nel corso della festa numerosi sono i balli e i canti, nei quali vengono invariabilmente coinvolti anche gli ospiti gagé: balli e canti che durano sino a notte inoltrata e che in alcuni casi possono proseguire anche per diversi giorni.
Durante il banchetto la sposa, sempre affiancata dallo Jevero, è presente ma separata dal gruppo festante. Per consuetudine essa deve restare immobile e a capo chino, sia per manifestare il dolore che prova nell'abbandonare la sua famiglia d'origine e sia per manifestare umiltà e rispetto nei confronti di suo marito.
Sul finire della serata, lo Starisvat, il cerimoniere, dà inizio alla raccolta di fondi per i giovani sposi.
Egli è il primo a deporre, su un grande piatto circolare, una certa somma di denaro. I genitori della sposa dovranno offrire almeno la stessa cifra proposta dal cerimoniere, mentre i parenti del ragazzo solitamente la superano. Poi tutti gli invitati danno il loro contributo. Ultimo a deporre sarà lo Jevero, secondo il detto «Jevere isgore cesa» (il valletto brucia il portafoglio), e solitamente è quello che offre più di tutti.
La prima notte di nozze dei due giovani viene preceduta da un' altra formalità. Alcune donne anziane, solitamente le due madri più qualche altra parente, devono visitare la sposa e accertarsi della sua illibatezza. Il tabù della verginità, un tempo molto importante, sembra aver perso parte della sua rilevanza.
Se anche le donne dovessero verificare che la giovane ha già perduto l' illibatezza prima del matrimonio, questo non sarebbe necessariamente un valido motivo per la rottura del patto matrimoniale.
Se però le donne dovessero accertare che la sua verginità è ancora intatta, allora la festa proseguirà per alcuni giorni ancora, a volte anche per un' intera settimana.
Dopo la prima notte, sempre nel caso la sposa fosse ancora illibata, le lenzuola sulle quali la giovane coppia ha dormito vengono esposte sul tetto della baracca, ma prima ancora devono essere controllate dalla madre dello sposo.
Nei giorni a venire la festa continua, a volte anche con lo svolgimento di gare di corsa divise per categorie: bambini e bambine, donne e uomini.
Alcuni giorni dopo, di mattina presto, si svolge poi un altro rito assai curioso. La giovane coppia, insieme al padre e alla madre dello sposo, si recano sino alla baracca dei genitori della sposa. Qui accendono il fuoco, svegliano marito e moglie e gli portano una bacinella colma d'acqua perché possano lavarsi. Dopo di che preparano la colazione.
In Montenegro, sino a qualche tempo fa, la sposa eseguiva questo servizio anche nelle baracche vicine a quelle dei suoi genitori.

Il divorzio zingaro

Solitamente la coppia zingara è molto salda ed unita dal vincolo di fedeltà, per quanto il ruolo della donna sia subordinato a quello dell'uomo.
In certi casi però è previsto il divorzio che avviene semplicemente per distacco di un coniuge dall' altro.
I motivi che possono portare ad una separazione possono essere tra i più svariati: primo fra tutti quello di un'incompatibilità di carattere che non riesca ad essere ricomposta neanche dall'intervento dei parenti più anziani. In secondo luogo altra causa di rottura, come succede ad ogni diversa latitudine umana, può essere l'infedeltà, che, se qualche volta può essere perdonata all'uomo, come in tutte le società fortemente maschiliste, quasi mai viene perdonata alla donna.
Quando gli usi di una comunità restano ancora ben compositi nel persistere della tradizione, il marito o la moglie infedeli possono essere messi al bando, cacciati dal gruppo senza appello e senza perdono.
Un altro valido motivo per il divorzio resta certamente quello della sterilità della donna: in una società perennemente esposta al rischio dell' estinzione la capacità di riprodurre è considerata la vera base di una buona unione coniugale. La donna, da parte sua, può legittimamente abbandonare il marito quando questo esercita su di lei una qualsiasi violenza fisica: in questo caso l'intervento dei parenti è immediato, la donna viene riaccolta nel proprio nucleo familiare d'origine e l'uomo può venire allontanato, a volte anche assai bruscamente, dal Campo.
Ma, come per tutte le tradizioni zingare, anche quelle del matrimonio e del divorzio, con relativi principi e tabù, sono soggette all'influenza di agenti culturali esterni che a volte si possono prestare alle intenzioni più o meno corrette di uno dei due coniugi.
Ciò a volte porta al manifestarsi di eventi che, almeno per chi li vive dall'esterno, non possono non considerarsi curiosi e divertenti.
Una volta, in un Campo di Cagliari, capitò che Bijaco, giovane zingaro dal portamento assai focoso, tornato da un viaggio in Montenegro, portasse con sé un'altra donna, peraltro neanche più bella e intelligente della legittima moglie, che già gli aveva dato tre figli. Egli con la massima serietà, e con la massima faccia tosta, asserì di averla sposata poiché, essendo loro di fede musulmana, potevano, volendo, avere anche più di una moglie.
Ben presto tutto il Campo fu avvinto da litigi e discussioni: poteva Bijaco fare ciò che aveva fatto senza offendere le tradizioni zingare?
Chi si mostrò assai poco disponibile alle dissertazioni teoriche fu invece Jasmine, la sua prima moglie, le cui reazioni inizialmente non furono propriamente ortodosse.
Le due donne, nei pochi giorni in cui durò questa paradossale situazione, si aggiravano per il Campo sempre più tristi e sconsolate, mentre il giovane Bijaco difendeva con baldanza la sua scelta facendo riferimento a quanto stava scritto su alcuni libretti musulmani che tutti si affannavano a leggere. Poi, come spesso succede, le due donne strinsero una sorta di alleanza. Presero a muoversi sempre insieme, inseparabili, e il loro umore sembrò sollevarsi di molto soprattutto quando avevano l'occasione di maltrattare pubblicamente Bijaco, che cominciò a non essere più tanto convinto della sua scelta. Alla fine preferì cedere. La ragazza venne rispedita in fretta e furia in Montenegro con gran soddisfazione di Jasmine e un sospiro di sollievo di tutti gli anziani del Campo.

La morte, i funerali, i lutti

Gli Zingari che si avvicinavano alla religione cristiana erano usi, quando ciò gli veniva permesso, celebrare i riti funerari nelle chiese cristiane. Il De Foletier ha trovato le tracce di queste cerimonie funerarie in molte nazioni europee.
I registri delle parrocchie inglesi conterrebbero molti atti relativi a queste sepolture.
Oggi gli Zingari convertiti al cristianesimo affidano i propri morti ai riti ecclesiastici cristiani, mentre gli Zingari slavi, convertiti all'islamismo, di norma fanno svolgere i funerali nelle moschee delle nazioni dove risiedono.
Ma sia in un caso che nell'altro, oltre la celebrazione del rito religioso ufficiale, continuano a persistere usanze e specifici riti la cui origine si perde in un lontano passato.
Nei gruppi residenti a Cagliari, quando avviene un decesso, la prima e più appariscente reazione è l'immediata e fortissima solidarietà che accompagna i familiari della persona scomparsa. Attorno alla famiglia si stringe tutto il Campo e non è affatto raro che altri parenti ed amici arrivino da altri Campi lontani anche centinaia di chilometri.
Nella baracca del defunto, che è stato rivestito coi suoi abiti più eleganti da alcuni parenti del suo stesso sesso (per un'ultima forma di rispetto e di pudore nei suoi confronti), inizia una lunga veglia che può trascinarsi, secondo l'importanza che la persona ha avuto in vita, anche per un'intera settimana.
Durante la veglia funebre si parla di ciò che la persona scomparsa ha fatto di positivo nel corso della sua vita. Ognuno ricorda qualche episodio, cercando sempre di porre in evidenza quelli che sono stati i suoi lati migliori e tacendo invece di quelli non proprio positivi, che vengono rimossi dalla coscienza collettiva.
Anche gli Zingari cagliaritani mantengono vive quelle usanze che la Cozannet ha definito come «riti ausiliari della sopravvivenza», nella convinzione che la persona deceduta debba essere aiutata ad affrontare il mondo ultraterreno in ogni modo possibile.
Così all'interno della bara vengono riposti i suoi oggetti personali, salvo quelli che potrebbero costituire un ricordo per i parenti o quelli di reale valore.
Ciò che non si può sistemare all'interno della bara viene solitamente distrutto. A volte la sua stessa baracca viene data alle fiamme e così i suoi indumenti personali, il materasso dove dormiva e le coperte con le quali si copriva. Tutto quello che non si può bruciare, come il suo piatto, o il suo specchio, o altro ancora, viene frantumato e ciò che ne resta gettato in un corso d'acqua: un ruscello, un fiume, o anche un lago.
In questi anni ho potuto assistere ad alcuni funerali, soprattutto, e purtroppo, a quelli relativi ai decessi dei bambini morti per disgrazie o, come quasi sempre è successo, per broncopolmoniti fulminanti.
Uno, quello relativo alla morte di Nedziba Bajiaramovic, una delle donne più anziane e carismatiche del suo Clan, si è differenziato dagli altri non solo per la partecipazione di un gran numero di amici e parenti, alcuni giunti a Cagliari anche dall' estero, ma vieppiù per l'estemporanea partecipazione e collaborazione di un gruppo di musulmani senegalesi.
Questa decina di giovani, provenienti dalla comunità senegalese di Cagliari ed evidentemente più addentro di quanto non lo fossero i Romà nei cerimoniali islamici, funsero da improvvisati mullah. Recitarono le preghiere islamiche atte a concedere a Nedziba l'ingresso in Paradiso: non prima però di aver fatto allontanare di un centinaio di metri tutti gli ospiti gagé cristiani che evidentemente, con la loro presenza, avrebbero potuto compromettere il buon fine della cerimonia.
Dopo la sepoltura, che in Sardegna si effettua nei cimiteri comunali (solo raramente la salma viene riportata in Jugoslavia), comincia il periodo del lutto che può durare anche per un anno intero per i parenti più stretti, mentre per gli altri dura molto meno.
Almeno per quaranta giorni tutti debbono uniformarsi ad un comportamento particolarmente sobrio. Gli uomini indossano un capo di vestiario nero e non si radono più la barba, nelle baracche non si accendono più i televisori e le radio, non si partecipa alle feste e non si può fare né ascoltare musica.
Nel periodo del lutto si svolgono alcune celebrazioni rituali legate alla persona scomparsa.
Anche in questo caso appare difficile separare il significato che gli Zingari danno a queste celebrazioni da quello che un tempo caratterizzava usanze molto simili. È probabile che, come in passato, questi riti si ricolleghino all'idea specifica che gli Zingari avevano del mondo ultraterreno, non un mondo del tutto immateriale, quindi, ma solo un diverso stato dell'esistenza nel quale i trapassati devono affrontare solitudine, problemi di varia natura, sofferenze e disagi anche pratici.
Per questo motivo un tempo, all'interno dei numerosissimi riti ausiliari della sopravvivenza, alcuni erano finalizzati al sostentamento alimentare del defunto nel difficile mondo che egli andava ad abitare.
In Germania alcuni gruppi usavano porre nella bara un po' d'acqua e un po' di cibo, in altri gruppi esisteva invece l'usanza di banchetti funerari veri e proprI.
La Cozannet dice invece che in altri gruppi ancora, di fede cristiana, in occasione di qualche festa (Ognissanti, Natale, Capodanno, etc.), in ogni pasto o libagione era «... riservata una parte al morto, o almeno si fa un'ovazione sulla tomba su cui si versa una bella quantità di grappa»!! In altre parti d'Europa si organizzava invece la Pomana, un banchetto nel quale un'altra persona recitava la parte del defunto e mangiava e beveva secondo i suoi gusti.
Sicuramente è in queste antiche usanze che si trovano le radici di quelle che i Romà residenti a Cagliari sono soliti porre in essere anche ai nostri giorni.
Innanzitutto dopo la cerimonia di sepoltura i partecipanti non possono rientrare direttamente al Campo, ma devono assolutamente fermarsi in qualche trattoria e consumare almeno un po' di cibo. Se non gli è possibile recarsi in una trattoria, molti soddisfano l'esigenza del rito bevendo e mangiando qualcosa in un bar della zona.
All'ora prestabilita tutti devono rientrare al Campo per partecipare ad un pasto in comune durante il quale, ancora una volta, si lodano le doti del defunto.
Sette giorni dopo la sepoltura si organizza un altro banchetto in onore della persona scomparsa. Per questo pasto devono essere preparate non meno di tredici differenti pietanze e particolare cura si porrà nel cucinare quei cibi che più rientravano nei gusti del morto.
A quaranta giorni di distanza si tiene un altro pasto simile al primo:
questa volta però il numero delle portate non dovrà essere inferiore a undici.
Dopo sei mesi e dopo un anno lo stesso rito viene riproposto ai parenti e agli amici. In queste due occasioni il numero delle portate scenderà prima a nove e poi a cinque.
Il cibo che non viene consumato in queste occasioni va diviso tra tutti i partecipanti, che poi finiranno di consumarlo nelle loro residenze. Gli avanzi dei pasti non possono essere buttati nella spazzatura, ma vanno accuratamente raccolti sino all'ultima briciola e poi gettati in un corso d'acqua.
Un'altra usanza che richiama alle antiche credenze dei padri è quella che vede i parenti del defunto, recatisi in visita al cimitero, deporre ai piedi della tomba un po' di cibo e un po' d'acqua.
Di fronte al persistere di queste usanze è legittima una domanda: gli Zingari slavi di fede musulmana come immaginano l'aldilà: come il paradiso islamico o come l'Oltretomba pagano e animista di altra tradizione?
Questa la risposta del vecchio marito di Nedziba: «... certo il Paradiso esiste, ma sarà qui sulla terra, quando tutte le sofferenze che ci sono ora non esisteranno più. Niente case, niente baracche, niente fabbriche, niente città, niente ricchi e niente poveri, niente Zingari, niente Gagé, niente Polizia. Ci saranno fiumi, prati, boschi e cibo quanto ne vuoi. E tutto questo sarà per sempre».

Il Gurgevdan

Roger Bastide, nel volume «Ethnologie Général, EncycIopedie de la Pléiade», dice che ogni rito «... è un ricominciare ciò che è accaduto nei tempi primordiali, ma non è una semplice commemorazione, abolisce il tempo profano per fare penetrare l'uomo nell'eternità. Il mito rivive, il tempo mistico viene restaurato, ridi viene presente, con tutta la sua forza attiva. Cosicché tutte le feste, tutte le cerimonie, non sono altro che il ricominciare di ciò che è accaduto... La natura e la storia vengono rigenerate mentre sono reintegrate in questo "illo tempore ", che in effetti ha fondato all'inizio del mondo sia la natura che la storia».
Il rivivere di questo mito, la restaurazione di questo tempo mistico, esplode con incommensurabile vitalità quando i Roma cagliaritani festeggiano alcune ricorrenze di carattere religioso, delle quali la più importante e la più sentita è certamente la Festa di Primavera, che si svolge il 6 Maggio e che viene anche chiamata Gurgevdan, cioé Festa di San Giorgio.
È parere di alcuni ziganologi che gli Zingari festeggino le ricorrenze in qualche modo assimilate dalle popolazioni cristiane e islamiche che hanno incontrato lungo la strada dall'India.
Di questa assimilazione sarebbero un esempio i festeggiamenti più noti tra gli Zingari di fede cristiana, quelli cioè relativi al pellegrinaggio che ogni anno essi fanno sino al Santuario di Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue, dove la leggenda vuole che nel 40 d.c. fossero approdate tre donne, insieme a San Lazzaro resuscitato, a Massimino e a Sidone, su una barca abbandonata in alto mare dagli Ebrei.
Delle tre donne, le cui reliquie sarebbero state riportate alla luce da Re Renato di Provenza nel 1448, gli Zingari ne venerano in particolare una, Santa Sara l'Egiziana, la santa di pelle nera che essi hanno adottato come loro patrona e che dicono fosse della loro stessa razza.
Secondo il De Foletier è probabile che questo culto abbia avuto inizio solo in tempi non troppo remoti e grazie all'identificazione in una santa che come loro era «Kalé», cioè di pelle scura.
Nel caso del Gurgevdan invece le origini sono probabilmente assai più lontane nel tempo e se assimilazioni vi sono state è altrettanto probabile che esse si siano innestate alla perfezione su ricorrenze ancora piu antiche.
Il San Giorgio, la Festa di Primavera, come cadenza temporale, si collega ad un periodo che per gli Zingari ha un'importanza fondamentale: viene a morire l'inverno e la Primavera dà inizio ad un nuovo ciclo vitale, le tenebre vengono sostituite dalla Luce, cessa il sonno della natura che si risveglia nella sua nuova esistenza.
Può essere un fatto casuale, o da ricollegarsi ad altre usanze rituali, ma appare opportuno ricordare che anche nel Peloponneso, e parliamo di più di seicento anni fa, gli Zingari del Feudo degli Acingani, nel mese di Maggio, si recavano in festante corteo sino alla residenza del feudatario e qui, tra balli e canti, rizzavano l'Albero di Maggio.
E sono proprio l'albero e l'acqua, come vedremo più avanti, i simboli primordiali della vita, che ritornano con puntualità nelle celebrazioni della Festa di Primavera e in quella, per gli Zingari cristiani, del San Giorgio Verde (altra ricorrenza che si svolge in primavera).
Nel San Giorgio Verde un ragazzo viene «vestito» con rami e foglie di salice, quasi a diventare un albero vivente il cui compito sarà quello di esorcizzare, tra le altre cose, i corsi d'acqua.
Nel Gurgevdan invece i corsi d'acqua e gli alberi trovano una diversa collocazione. Prima di descrivere nei particolari lo svolgersi della festa occorre dire due parole sulla figura di San Giorgio, che nella mistica cristiana è il simbolo della lotta del bene contro il male e di cui si sa, ma con poca certezza, che potrebbe essere stato un guerriero martire a Lydda, in Palestina, sotto l'impero di Diocleziano.
Ma San Giorgio è un santo particolare anche per un altro motivo: egli è l'unico riconosciuto tale sia dai cattolici, sia dagli ortodossi e sia dai musulmani. Viene festeggiato anche nella ex-Jugoslavia e più in generale in tutti i Balcani. Nel Kosovo, il 6 Maggio di ogni anno, i pellegrini si recano alla Roccia di Drahovco, luogo in cui, secondo le leggende locali, San Giorgio arrestò il proprio cavallo sul finire di una dura battaglia. Perito ed assetato venne salvato dall' animale, il quale, battendo gli zoccoli su una grande roccia nera, ne fece sgorgare l'acqua che lo dissetò.
Nei Campi di Cagliari i preparativi per la ricorrenza cominciano solitamente alcuni giorni prima. Tutte le famiglie, anche quelle più povere nelle quali di norma i pasti non sono certo abbondanti, si sono costrette al risparmio perché per il giorno della festa niente venga a mancare.
Gli uomini hanno provveduto per tempo ad ordinare una o più pecore, il piatto più importante dei banchetti, presso i pastori che pascolano le greggi nelle campagne circostanti la città.
La mattina presto, appena sorge il sole, le donne, gli uomini e i bambini più grandi, preparano i fuochi. Mentre il Campo prende vita e il fumo dei fuochi si confonde con la bruma, tutti si scambiano i saluti augurali: un abbraccio e un bacio sulle labbra ripetuto alcune volte.
Poi, mentre le auto sono state agghindate con fiori e pezze di tessuto colorato, ci si prepara ad un breve viaggio: la sua meta è un corso d'acqua, un fiumicciatolo, sito ad una ventina di chilometri dalla città. Quando la carovana di auto giunge sul posto è ancora molto presto e le acque del piccolo fiume sono molto fredde.
Nonostante questo tutti fanno in modo di bagnarsi almeno le gambe; per alcuni minuti, tra grida di gioia e grandi risate, si cammina o si corre nell'acqua, poi ci si avvicina agli alberi che cingono le rive del fiume e ognuno prende alcuni ramoscelli.
Anche i ramoscelli vengono immersi nell'acqua.
Prima di andar via si effettua un brindisi e si scambiano altri saluti augurali. Rientrati al Campo i ramoscelli vengono offerti a quelli che non hanno potuto recarsi al fiume (gli anziani, i malati, le donne rimaste a custodire i bambini più piccoli) e altri vengono posti sulla porta di ogni baracca. L'intera mattinata verrà poi trascorsa nei preparativi per la festa vera e propria, che comincerà nelle prime ore del pomeriggio.
Le pecore vengono uccise, appese sui pali o sui rami degli alberi e accuratamente scuoiate. Poi, ripulite, vengono infilzate su lunghi pali e lasciate un paio d'ore ad asciugare al sole.
Sulla tarda mattinata gli uomini, che hanno già preparato i tappeti di brace, sistemano le pecore sui fuochi e ne curano la cottura, girando ogni tanto i pali per far sì che essa sia ben uniforme. Nel pomeriggio, quando anche gli ospiti gagé sono ormai arrivati al Campo, si dà inizio alla festa.
Non si tratta, in questo caso, di un unico grande banchetto: ogni famiglia prepara nella sua baracca il proprio personale pranzo, che viene sistemato o su lunghi tavoli o su grandi piatti circolari chiamati Tevsie e direttamente poggiati sui tappeti: la pecora arrosto, E Bakri, riveste un significato particolare. Il suo sacrificio, secondo i Roma più anziani, ricorda l'episodio di Abramo e Isacco presente nel Vecchio Testamento ed in qualche modo funge da ringraziamento per le grazie ricevute. Se queste vengono ritenute particolarmente importanti allora il Kurbano (il sacrificio), assume un significato più solenne e con la carne della pecora viene cucinata la Shastimace, il cibo della guarigione.
Esso viene poi offerto a tutte le famiglie del Campo perché ognuno possa partecipare alla gioia del ringraziamento.
Il fatto che ogni famiglia abbia preparato il suo tavolo imbandito non significa affatto che la festa venga celebrata in forma privata.
Infatti, mentre tra le baracche cominciano a risuonare le musiche slave emesse ad altissimo volume dagli altoparlanti, l'intero gruppo si muove compatto e dà inizio ad un'interminabile teoria di visite che lo porterà, di baracca in baracca, a rendere reciproco omaggio a tutte le famiglie del Campo.
Sulla porta di ogni baracca tutti vengono accolti dal capo-famiglia, al quale entrando si rivolge il saluto «Bahatalò givé» (felice giornata) e dal quale si riceve l'augurio «The avé sasto taj bahatalò» (vieni salvo e fortunato).
Il capofamiglia porge poi ad ognuno dei nuovi arrivati un bicchierino di liquore, che viene bevuto tutto d'un fiato prima di accomodarsi sui tappeti. Poi, incrociando le gambe, ci si siede e si fa veramente festa.
Rispetto alla povertà dei pasti di ogni giorno la quantità di cibo messa in mostra appare addirittura spropositata. Oltre alla pecora arrosto, che a volte viene presentata ripiena con patate e riso, vengono offerti altri piatti tipici, come la Pita, un torti no a base di farina, uova e formaggio, o la Sarma, un involtino di foglie di cavolo verde con un ripieno di riso, cipolle, salsa di pomodoro e altre spezie. Altri piatti che veramente vale la pena di assaggiare sono il Suguko, una salsiccia di carne bovina, i Peré Paprike, peperoni scottati al fuoco e poi infarciti con carne macinata, spezie e riso, e la Baklava, un dolce a sfoglia i cui ingredienti sono farina, zucchero, strutto, noci e uva passa. Nel corso di ogni visita tutti badano bene a non esagerare: si assaggia qualcosa per rendere omaggio alla famiglia ma non si dimentica che si è attesi da altre visite e da altri banchetti: tanti quante sono le baracche del Campo.
Più di un vero e proprio pasto si tratta insomma di una forma di convivialità che si esprime nei canti, nelle chiacchiere, nelle risate, nella gioia di un'intensità rara a trovarsi e che traspare con forza dai visi segnati da rughe precocI.
È in questo momento che l'ospite gagé, frastornato e reso partecipe della stessa gioia, capisce con quanta forza gli Zingari vivono la propria vita oltre tutte le difficoltà alle quali sono sottoposti nella quotidianità.
Tra una visita ad una famiglia e ad un' altra, ma a volte anche durante i banchetti, si svolgono i Celipé: uomini e donne, gli uni vestiti spesso di bianco e le altre coi loro migliori e più sgargianti abiti, danzano il Kolo (molto simile al Su Ballu Tundu sardo) o l'Ingra Indja. A volte, ma solo per pochi intimi, viene ballato un ballo che ricorda la danza del ventre turca e che appare di rara bellezza e plasticità di movimenti.
Così la festa va avanti per ore e ore sino al tramonto del sole.

Altre feste

Le altre principali ricorrenze religiose dei gruppi zingari residenti in Sardegna sono il Vassili e la Pasomilàj, la Festa di Mezza Estate.
Il Vassili è una ricorrenza che si celebra il 14 Gennaio e rappresenta il vero Capodanno Zingaro. La mattina del giorno di festa gli uomini si alzano di buon'ora e si portano fuori dalla città, alla ricerca di un bosco. Una volta l'usanza prevedeva che si tagliassero tanti alberi quanti erano i figli maschi di ogni famiglia; oggi, anche perché il verde rimasto è assai poco, ci si accontenta di prendere qualche grosso ramo.
Su questi rami, una volta che i capo-famiglia li avranno riportati al Campo, le donne gettano chicchi di riso, di caffè o, ancora, di granturco. I rami vengono poi sistemati in capaci vasi e portati all'interno delle baracche: ogni famiglia ha il suo e, con grande gioia dei bambini, questa sorta di alberello viene decorato con festoni e qualche volta con luminarie. Assumerà l'aspetto, né più né meno, di uno dei nostri alberi di Natale.
Il giorno successivo la festa si ripropone con buoni pasti, visite di amici e parenti e auguri di buona sorte.
Il Pasomilàj, la Festa di Mezza Estate che si celebra il 2 Agosto di ogni anno, ricorda invece molto da vicino, a parte i riti relativi agli alberi e all'acqua, la Festa di Primavera.
Di nuovo ardono i fuochi e di nuovo le pecore vengono preparate per i tanti banchetti allestiti da ogni famiglia. Anche l'intensità dei balli e dei canti è la stessa del Gurgevdan, forse anzi l'atmosfera più solare la rende ancora più bella e suadente. Gli unici che non partecipano alla conviviale allegria della ricorrenza festiva sono quelle persone colpite da un lutto ancora recente.
Oltre queste ricorrenze esistono poi altre occasioni di festa e sono quelle nelle quali si ringrazia Del per una grazia ricevuta: una guarigione da una brutta malattia, il ricongiungimento con persone care rimaste a lungo lontane, lo scampato pericolo occorso in un incidente stradale e altro ancora.
Si tratta, in questi casi, di feste private alle quali vengono invitati a partecipare solo i parenti più stretti e gli amici più cari. Spesso questo genere di feste diventano le personali ricorrenze di una famiglia: ogni anno, in quel dato giorno, si continua a celebrare il ringraziamento, quasi che il non farlo potesse attirare sui congiunti una nuova disgrazia, poiché vorrebbe dire mostrare superbia e indifferenza verso Del che ha concesso la grazia.
Questo è il vero senso della religiosità zingara: la manifestazione della propria gioia di vivere, della ostinazione contro le difficoltà della vita, del ringraziamento genuino e modesto per quel poco di buono che all'esistenza quotidiana si riesce a strappare.

Capitolo settimo: immagini fotografiche

Capitolo ottavo: la letteratura orale

Non si pone un cartello con scritto: - Non soffiare qui -, poiché il vento non sa leggere...

proverbio kalderasha

Un vasto movimento internazionale (in Italia soprattutto il Centro Studi Zingari) sta oggi lavorando per associare la lingua zingara, la Romani cib o Romanés con le sue tante varianti, alla tecnologia del segno scritto.
La Romani Union, che raggruppa una settantina di associazioni nazionali e che dal 1979 è titolare di un seggio permanente alle Nazioni Unite, starebbe focalizzando i suoi sforzi sulla normalizzazione delle regole ortografiche.
Ma, nonostante studi e ricerche e nonostante siano ormai abbastanza numerosi gli autori zingari di opere scritte di varia natura, la letteratura zingara era e resta di tipo «orale». Il che apre una questione squisitamente di metodo: la stessa dizione «letteratura orale» appare in qualche modo impropria e figlia unica di un escamotage che a ben vedere è un paradosso in termini.
Letteratura infatti, tanto a livello di origine etimologica che a livello semantico, significa «produzione di segni scritti». Poetica o prosastica, ma indubbiamente e definitivamente «scritta».
Il concetto di «letteratura orale» appare quindi come uno slittamento, una concessione semantica elaborata per trattare, e scrivere, del diverso manifestarsi di determinati patrimoni, di determinate civiltà, che non si sono associate alla tecnologia del segno scritto o che ad esso si sono associate seguendo un percorso ritenuto tanto graduale quanto ineluttabile.
In questo senso si parla di civiltà preletterate, quelle cioè che, lungo la strada, si sarebbero evolute dotandosi di un proprio alfabeto, di una propria struttura, di una propria filologia e di una propria esegesi.
Le letterature orali, che secondo Mircea Eliade si confonderebbero alle origini con le religioni, trattavano di «... leggende in cui si mescolano animali, comuni mortali, eroi, forze della natura, dei, racconti di grandi imprese guerriere o di prodezze contadine, cicli di canzoni destinate ad essere cantate». Si tratterebbe insomma delle manifestazioni di quelle civiltà che si nutrirono di miti e primordi concettuali, destinate a diventare maggiorenni solo con l'acquisizione della scrittura: culture, appunto, pre-letterate.
Lo stesso ragionamento, se applicato agli Zingari, assume l'insopportabile sapore di un etnocentrismo culturale esasperato e corrosivo. La cultura zingara sarebbe cioè preletterata, cioè primordiale, cioè destinata per forza di cose a trovare una propria emancipazione nella scrittura: un pregiudizio, avvisa Giulio Soravia, «... che si nutre dell'intima convinzione che non solo una cultura orale sia un punto di partenza e mai una modalità non tanto d'arrivo quanto diversa rispetto alla civiltà della scrittura, ma anche che lo scritto abbia una sorta di prestigio maggiore ed assoluto, di validità e di perfezione, tanto che solo il testo scritto è testo».
In realtà la cultura zingara, termine che racchiude tutto e niente, non è affatto preletterata, né la si può considerare tale anche se oggi corre apparentemente verso la scrittura.
Essa da sei secoli convive con le civiltà letterate per eccellenza, quelle occidentali, assorbendone magari quel «vocabolario incompleto» teso vieppiù a comprendere e comunicare col mondo dei gagé in modo direttamente proporzionale alle sue esigenze ma senza per questo trasfigurare sé stessa. In questo senso, se anche per convenzione si accettasse la dizione «letteratura orale», ma sarebbe assai più corretto coniarne una nuova, non c'è dubbio che essa sia stata sempre esaustiva dei bisogni della comunità, senza perciò soggiacere, almeno per motivi interni, al bisogno di associarsi alla scrittura.
Un'estraneità che ha senpre avuto il carattere della difesa ad oltranza della propria Weltanschauung, quasi come se gli Zingari davvero si rendessero conto che il sistema di comunicazione scritto è insieme figlio e padre di un altro modo di intendere la vita, sé stessi e le relazioni sociali.
Leonardo Piasere ha scritto che «... antropologi cognitivisti e psicologi dello sviluppo sono abbastanza concordi nell'evidenziare (...) cambiamenti che il modo di comunicare scritto provoca nel modo di pensare in rapporto al modo di comunicazione orale»4.
Tra questi, la decontéstualizzazione della conoscenza, la rigidità del discorso, un diverso tipo di memoria, lo sviluppo dell'individualismo: tutti aspetti dell' essere e del comunicare che non appartengono alla civiltà nomade.
La trasmissione orale del patrimonio culturale zingaro, comprese le creazioni fabulatrici tese a rigenerare la Weltanschauung specifica, va quindi intesa come esperienza a sé stante e non necessariamente omologabile ad altri percorsi seguiti da altre civiltà.
Ciò risulta fondamentale al fine di costruire, nell' accostarsi a questo patrimonio, un corretto punto di vista, ossequiosamente esterno e non invasivo di concetti, e strumenti stessi d'indagine, che restano estranei ai concetti e agli strumenti di comprensione di una diversa civiltà.
Certo non è facile: quando si analizzano i racconti, o i proverbi, o i canti zingari, lo si fa con tecniche e punti di riferimento concettuali della nostra storia letteraria.
Qualcosa insomma potrebbe non quadrare: è un approssimarsi che resta necessariamente imperfetto, un metalinguismo spurio e in buona parte di facciata.
Nonostante ciò la tecnologia del segno scritto, utilizzata per e sulle cose zingare, non è rimasta esclusivo appannaggio di quegli ziganologi gagé che hanno elaborato una letteratura «riscritta» più che scritta, «riprodotta» più che prodotta. Da qualche decennio a questa parte si è infatti fatta più concreta una produzione letteraria scritta da autori zingari, soprattutto all'interno di un rapporto di difesa politica della propria etnia rispetto alle violenze e alle sopraffazioni di quelle circostanti: una mediazione culturale che agisce su un bilinguismo il cui grande fruitore resta ancora oggi il mercato letterario gagé ma che si apre in prospettiva in ambedue le direzioni.
È difficile dire quanta influenza abbia oggi la produzione scritta in Romanés sulle diverse comunità nomadi.
Certo riveste molta importanza, e trova maggiore fruibilità, presso quelle comunità la cui alfabetizzazione è un processo già risoltosi o in via di risoluzione, cresciuto di pari passo con un'integrazione sempre più pregnante nella società dei gagé (ad esempio tra i Gitani spagnoli).
Molta meno importanza gli scritti in Romanés rivestono sicuramente presso quelle comunità la cui oralità è ancora regina assoluta.
Nei gruppi Roma residenti in Sardegna, ai quali ancora si adatta alla perfezione quanto scritto da Piasere sull'uso strumentale dell'alfabeto incompleto, il libro resta oggetto sconosciuto, o comunque non utilizzato necessariamente per i suoi fini «istituzionali».
Anche in questo caso però si possono notare i primi sintomi, se non di cambiamento in assoluto, almeno di un nuovo interesse.
Alcuni libri in Romanés vengono gelosamente e orgogliosamente conservati: parlano di cose zingare, possono anche spiegare agli amici gagé quelle «cose antiche» che qualcun altro ha scritto sulla loro vita. In diversi casi questi libri sono stati utilizzati per cercare conferme o smentite sulla validità di certi comportamenti inusuali rispetto all'odierna convenzione sociale, come nel caso del giovane che dopo un viaggio riportò a casa una seconda moglie e scatenò così grandi discussioni nel suo Campo.
È probabile che l'esigenza di scrivere, o di cercare nei libri le origini e i perché della propria vita zingara, si farà sempre più pressante man mano che le attuali strategie di sopravvivenza verranno meno e man mano che l'integrazione, o la sopraffazione, nella società dei gagé, nel bene come nel male, si farà più importante.
Estendendo forse in modo un po' fazioso la stessa ipotesi a tutte le diverse comunità, si potrebbe anche supporre che la letteratura scritta zingara cresce, paradossalmente, quanto più la letteratura orale, e con essa la stessa vita zingara, tende ad estinguersi e a diventare ricordo di cose che furono e che non saranno più.
Non è detto comunque che ciò che verrà sarà peggiore del passato ed è probabile che, se cambiamento deve essere, esso possa trovare buone armi di autodifesa e di progresso proprio nella coltura attenta e fattiva di una memoria storica veicolata in una letteratura scritta.

Letteratura scritta e riscritta

Angela Tropea, nota per i suoi studi analitici sulle fiabe zingare, opera una distinzione tra produzione letteraria scritta e produzione letteraria «riscritta».
«Quale sia la differenza appare subito chiaro, giacché saranno compresi nel primo gruppo gli autori zingari che hanno scritto - per lo più poesia - nella loro lingua; nel secondo gruppo si parlerà invece di autori che hanno cercato di mantenere vivo il patrimonio orale narrativo - fiabe e canti - raccolto e trascritto nel corso degli anni».
Il patrimonio letterario riscritto, composto da Paramica (leggende, fiabe, racconti) e da Gilja (canti), abbraccia un campo assai vasto e non sempre ben riportato nelle diverse lingue nelle quali è stato tradotto.
Si tratta per lo più di difficoltà organiche: le modalità di esposizione orale sono necessariamente differenti da quelle scritte, e quella degli Zingari in particolare spesso risulta ostica e incomprensibile se trasposta fedelmente su una pagina stampata. Così le fiabe e i racconti trascritti, e in qualche modo un po' ammaestrati, sono un qualcosa di molto diverso dalla loro versione originale, anche se ugualmente interessanti e significativi.
Diane Tong ha trascritto e pubblicato un buon numero di fiabe raccolte praticamente in tutto il mondo: trattano degli argomenti più disparati, dalle origini del mondo alla felicità coniugale, dallo scontro eterno con i gagé al timore dei morti.
La maggior parte di esse sono creazioni fabulatrici tendenti a trasmettere una morale e ben manifestano la Weltanschauung zingara: l'amore per la libertà dall'affanno esistenziale del lavoro salariato, l'adattamento alle difficoltà della vita, l'accomodamento parziale e strumentale a particolari espressioni di altre civiltà, il senso di appartenenza al gruppo, il rapporto quasi ani mistico con la natura.
Certo, come sempre, è difficile generalizzare, né si può pretendere di riportare tutte queste espressioni narrative all'interno di un unico quadro unitario: le fiabe e i canti, proprio come i loro creatori zingari, sono sparsi per tutti i continenti ed in qualche modo figli dell'incontro con diverse civiltà.
In certi casi, forse in molti casi, le fiabe zingare traggono origine, o hanno dato origine, ad altre fiabe patrimonio di altri popoli e altre culture.
Protagonisti, simboli e schemi si rivelano simili e a volte speculari: basti pensare alla fiaba zigana greca raccolta dalla Tong a Salonicco (Lo Zingaro e il Gigante) e all'antica fiaba raccolta da Afanasjev (Il serpente e lo Zingaro), nelle quali gli schemi e lo svilupparsi della storia sono del tutto simili.
In questo caso ciò che più fa pensare è che il serpente - che nella psicologia zingara avrebbe valenze simboliche particolamente significanti - è presente nella fiaba russa ma viene sostituito in quella zingara dal gigante.
Oltre a questo tipo di racconti ne esistono altri più intimamente legati alla vita quotidiana, nel senso che sono narrati e vissuti come vere e proprie lezioni di vita e che fungono da collante tra esperienza ed esperienza e soprattutto da veicolo di precetti comportamentali anche di natura pratica.
lane Dick Zatta, analizzando i racconti dei Rom sloveni, ne ha messo in evidenza la funzione prettamente didattica: «Essa serve a trasmettere le esperienze e gli atteggiamenti del gruppo e ad influire sul comportamento dell'individuo, piuttosto che semplicemente divertire».
La principale caratteristica di questi racconti sarebbe quella di dire «la verità».
«I Rom garantiscono la verità dei loro racconti in due modi. Il primo è l'abitudine di accompagnarli con un giuramento ritualistico che afferma la verità di quello che sta per essere raccontato, di solito Ti Muli Mavra Mri (che la mia Mavra sia morta!), Mavra essendo il nome del figlio più piccolo del narratore, o Sa Mre Mule (tutti i miei morti) o Te Khalavv Ti Meru (possa io morire se dico bugie».
Il fatto poi che il narratore racconti anche cose del tutto inverosimili non ha nessuna importanza: il «willing suspension of disbelief», la sospensione totale delle facoltà critiche, diventa addirittura un atteggiamento di vita, lo stesso che si manifesta, secondo Zatta, anche nei confronti delle storie «narrate» dalla televisione (che immaginiamo in questo modo mille volte più pericolosa e invadente).
I racconti dei Rom sloveni manifestano soprattutto l'emozione della paura rispetto ai mille pericoli della vita zingara, tra i quali quello più pressante sarebbe la minaccia alla sopravvivenza della propria cultura.
I racconti sui serpenti, simbolo dei gagé (ci sono più serpenti nelle case che non fuori), rappresenterebbero la riflessione «... a livello del pensiero simbolico sulle implicazioni dell'opposizione fra Rom e gagé».
Alcune caratteristiche stilistiche, le stesse che mettono in difficoltà il traduttore zelante, sono strettamente connesse alla funzione didattica. Ciò che per iscritto solitamente stona, la ripetizione, l'iperbole reiterata, l'improvviso mutamento del punto di vista, l'inserimento di una serie di particolari apparentemente fuori tema, sono tutti aspetti strutturali del racconto che servono a favorire l'identificazione dell' ascoltatore col fatto narrato, il suo essere fagocitato dalla storia narrata e portato sin dentro lo svolgersi degli avvenimenti.
Il narratore di una Paramica, solitamente il Phurano Dat, l'anziano del Campo, infarcisce l'avvenimento principale (quello che racchiude la lezione della storia narrata) di luoghi, persone, avvenimenti del tutto secondari o addirittura estranei: l'importante è che tramite essi chi ascolta possa associare agli eventi la sensazione di verità.
Nel raccontare una storia, improvvisamente, il narratore cambia tempo verbale e punto di vista, accentuando l'attenzione e trascinando l'ascoltatore dentro il racconto: «tutti volavano giù dalla strada e ti correvano dietro, Bum! Bum!», oppure «Mia madre ha visto, che io non ho visto nessuno. Mi voleva bene, no? Dal gran bene che mi voleva, è tornata da te, e ti ha detto addio».
Il patto narrativo, così come lo consideriamo di norma nella nostra letteratura, risulta dal tutto infranto, o meglio ancora del tutto disconosciuto, nel senso che il «point of view», l'angolo di ripresa della storia, non è proprio del cosiddetto «narratore omodiegetico» (quando il narratore è presente nella scena narrata), né eterodiegetico (quando il narratore è assente dalla scena narrata): esso salta a pie' pari dall'uno all'altro, poi corre tra chi dice e chi ascolta, trascina il primo e il secondo all'interno dello stesso universo, crea un patto narrativo inedito e specifico.
Allo stesso modo, nella narrativa zingara, altri canoni vengono infranti: un diverso uso dello spazio e del tempo, ammaestrati e finalizzati allo scopo didattico, stanno a smentire l'immutabilità degli schemi classici della nostra letteratura.
Secondo Zatta «... sia i riferimenti pronominali che i tempi verbali sono usati per funzioni che non sono soltanto quelle di indicare il tempo o il soggetto grammaticale».
Cercare di interpretare la narrativa degli Zingari attribuendo ad essa stessa struttura e stesse valenze semantiche della nostra, sarebbe davvero un errore madornale.
Ancora una volta insomma si arriva alla conclusione che ciò che si conosce, o si pensa di conoscere sugli Zingari, è in realtà tutto da verificare, tutto da comprendere.
Le fiabe che seguono, anche se indicative ed interessanti, non hanno comunque la pretesa di essere esemplificative della oralità zingara. Si tratta, a parte il racconto «I due fratelli», di fiabe riscritte e ammaestrate nella nostra lingua e con la nostra tecnica letteraria.
Il canto, così come i proverbi scelti per questa pubblicazione, e tratti da altri studi, sono indicativi più di antica saggezza e sofferenza che di altro ancora; le poesie, in particolar modo quelle di Rajko Djiuric, pur nella traduzione in italiano, mi sono sembrate di assoluto valore e di grande spessore formale: merito anche di Angela Tropea che le ha tradotte.

Capitolo nono: fiabe, canti, poesie, proverbi

Parliamo della felicità 

Con parole straniere 

E il giorno smarrito il nome 

Per un discorso litiga

Rajko Djuric

Storia di Son e di Danitza

(da Rom Sim di Semzejana-Zlato)

Una volta, quando c'era poco mondo, poco popolo, Dio e i suoi compagni facevano consiglio; quei pochi che c'erano, e non c'erano femmine. Discutono di Son che vuoI prendere in moglie sua sorella Danitza, la stella, quella che gli è sempre vicina.
Là al consiglio c'era anche il diavolo con il suo cavallo. Quando il diavolo ha sentito che si sposano fratello e sorella, si è arrabbiato molto. Va fuori, prende il cavallo e via. Era arrabbiato forte. Gli altri guardano se c'è anche lui, non c'è più, è scappato via.
Allora cosa fa Dio?
Si rivolge all' ape: tu devi andare dietro di lui, finché non senti che cosa dice.              - Va bene.
Allora l'ape gli va dietro e non si fa vedere. Il cavallo del diavolo era tutto sudato, perché dalla rabbia lo guidava forte. Davanti a lui c'era un canale grande, come il Danubio, il diavolo porta il suo cavallo a bere e gli dice:
- Bevi acqua finché puoi, perché adesso si asciugheranno le acque nei fossi e dappertutto, perché fanno un peccato grande, se Son prende Danitza per moglie.
Come lui parlava, l'ape è volata vicino al suo orecchio per sentire meglio.
Allora il diavolo prende la frusta e paff! contro l'ape; l'ha tagliata quasi a metà in vita. È rimasto solo poco attaccato, quasi come un fiammifero.
L'ape allora fila indietro. La vede Dio e le domanda:
- Beh, che cosa ha detto?
Lei ha vergogna, poveretta, tagliata così quasi in due pezzi.                                        - Dimmi che cosa ha detto!
- Ho vergogna. Mi ha detto cose che ho vergogna a dire.
- Dille pure; non vergognarti. Dimmi!
- Che cosa ha detto? Lo vuoi proprio sapere? Ha detto che chi mi ha mandato dietro a lui, mangi la mia merda.
- Ma tu hai paura per questo? Mai paura, perché io farò in modo che gli uomini, né da vivi né da morti saranno capaci di stare senza la tua merda.
Ed è vero, perché dalla merda dell'ape viene il miele e la cera.
Gli uomini da vivi mangiano il miele e da morti adoperano la candela accesa. E questa storia è proprio verità, perché il taglio nell' ape si vede, il miele si mangia e le candele si accendono quando uno muore, perché così è bene.
Dio ha sentito che sposare San e Danitza è un peccato, perché il diavolo sa quasi più di Dio sul peccato.
Erano innamorati forte. Allora Dio li mette distanti uno dall' altro, non molto, e dice:
- Quando vi incontrerete, quando vi abbraccerete e vi bacerete, allora vi sposerete. Prima no.
E tu vedi che sono sempre lontani. San va sempre dietro a Danitza e non la prende. Qualche volta vengono più vicini, soprattutto in estate; allora c'è meno acqua.
Ma non manca mai, perché non riescono a congiungersi.

La nascita

(da Rom Sim di Semzejana-Zlato)

Questa storia è bella ed è vera, per quelli che vogliono capire. Ora ti racconto. Ero un ragazzo più o meno di dodici anni. Era sera tardi, perché mio nonno Guka ci raccontava delle storie che erano proprio una melodia a sentirle, proprio simpatiche, proprio belle.
Stavamo vicino al fuoco e lui ci raccontava. Viene l'ora di andare a dormire. lo e mio fratello Tosa, che aveva diciotto anni, dormivamo a destra, entrando nella tenda, lungo il «pogi», uno con la testa di qua e l'altro con la testa di là. Mio padre Abramo e mia madre Terka dormivano sotto il «vuluv» e con loro il mio fratellino Mile, che noi chiamavamo Moso.
Mio nonno Guka dormiva «maskaré», in mezzo, vicino al carro. Ho preso sonno e ho dormito. Un certo momento sento qualche cosa, mi sveglio e mi alzo. Cosa vedo?
Nella tenda dappertutto tutti con la barba. Uno era all'ingresso vicino al «vuluv», vicino a là dove mio padre, ascolta, dove mio padre dormiva. Un altro nel carro sedeva sul «lovitro», con le gambe giù e mi faceva cenno con la testa.
Proprio così, mi faceva cenno con la testa. Un altro ancora sotto il «vuluv», dietro a mio padre, mi guardava, come pure quello dalla porta, che diventava sempre più grande, capisci, grande, grande signore, e parlava come uno spirito, lo spirito che sta negli uomini. Intorno a Moso era buio, non vedevo niente.
Subito dopo c'è stato come un lampo ed è diventato tutto chiaro, chiaro come cento di queste lampade.
E chi faceva tutta quella luce? La testa di quel bambino, che era riccio;
era bello e pieno di capelli. Intorno a lui era tutta un'aureola.
Guardo mio fratello più vecchio, che non si muoveva; allora mi infilo sotto la coperta e passo dalla sua parte. Hai capito? Vado vicino a lui e lo sveglio.
- Che c'è?
- Non vedi niente?
- No, non vedo niente. E tu che hai visto? Forse la fortuna?
- Non vedi, fratello mio, quello che siede sul letto, vicino al piccolino, vicino a nostra madre? Non vedi l'aureola?
Ascolta, poi ho visto che allungava la mano su di lui e poi sono scomparsi. Ho scosso e ho chiamato più volte il bambino: Mose, Mose! Ma quello non si muoveva e mi guardava fisso. Poi mi sono messo a letto, mi sono addormentato e non ho saputo più niente.
Forse erano quelli del destino, i Vrsitori, che vengono a dare a ognuno il suo destino. Solo qualcuno può sentire. lo ero bambino e non ho raccontato neanche a mio padre, neanche a mia madre. Solo mio fratello sapeva.
Se sapevo, dicevo una messa, andavo in chiesa a dare candele a questi santi. Ma un bambino di dodici anni non capisce niente.
Moso l'hanno ammazzato a Jazenovac con la moglie e il figlio.

San Pietro e Dio

(da Rom Sim Di Semzejana-Zlato)

San Pietro è il compagno di Dio; sono due colleghi e vanno sempre insieme. Ti racconterò anche questa storia, ma non è tanto bella; i «rasai» (i preti NdA) non sono tanto contenti, quando si racconta, perché allora tutti dicono che neanche Del fa bene. Capisci?
C'era un povero e un ricco, molto ricco. Sai come fanno in campagna per lavorare? Vanno via la mattina e ritornano la sera, perché hanno i campi lontani.
Il povero aveva solo un cavallo, poveretto, e tanti figli sul carro. Quell'altro aveva tre cavalli attaccati e niente figli; solo lui e la moglie.
Bene! Finito il lavoro, tornano. Prima viene quello con tre cavalli. Sulla riva del fiume ci sono due, tutti stracciati, con la barba lunga e dicono:
- Ci fai un piacere? Fai passare anche noi il canale con il tuo carro?
- No, no. Non faccio passare nessuno.
- Che cosa facciamo? dice San Pietro a Dio.                                                            - Quando passa il fiume, che il suo terzo cavallo non vada più avanti e batta con la zampa così, come fanno i cavalli, e venga fuori un recipiente di sterline d'oro!
Così succede: il cavallo si ferma, batte nella caldaia dove c'erano le sterline dentro: pum, pum, pum. Ce ne sono molte, perché un tempo nascondevano così i soldi. Il ricco la vede, la tira fuori e via.
Ecco che viene il povero.
- Mi fate passare il canale di là? Mi fate questo piacere?
- Sì, con la volontà di Dio, dove passano cinque bambini e io sei, passeremo anche in otto. Con la volontà di Dio passeremo. Montate.
- Cosa facciamo con questo qui? dice San Pietro.
- Con questo qui, quando arriva a casa, che trovi il bambino morto, quello che è rimasto a casa, e il vitello che ha a casa, che lo ammazzi per fare la «pomana».
Ecco così è finita.
È proprio vero: con i buoni Dio è cattivo, con i cattivi è buono.
Non so se anche lui ha paura dei cattivi. Chi può dire che Dio ha fatto bene? Non ha fatto bene: al povero, invece di aiutarlo, fa morire il suo bambino e ammazzare il vitello per la «pomana». Al ricco dà ancora più soldi.
Anche in mezzo ai Rom i cattivi stanno bene e quelli che pregano sempre sono i poveri. Ma io non sono mai stato cattivo.

I due fratelli

(Da Lacio Drom - trasposizione letterale di Angela Tropea)

C'erano due fratelli identici l'uno all' altro come due mele. Giorno per giorno crebbero fino ad età da sposarsi. Allora dicono alla madre:
- Mamma forse avevamo qualcuno vivo, avevamo noi una famiglia? Allora la madre dice:
- Eh, figlio, voi avete... Vostro padre se n'è andato da molto tempo... Se n'è andato nella notte e ancora non è tornato a casa.
- Mamma dacci qualcosa che andiamo a cercarlo, nostro padre, a vedere dov'è nostro padre. .
- Eh, ragazzi, andate ma è difficile che voi possiate trovarlo, mi dispiace per voi, che voi ve ne andiate e mi lasciate qui sola: come farò senza di voi?
- Niente, tu non devi preoccuparti per noi, dacci piuttosto la tua benedizione, dacci la tua preghiera, daccele e noi andremo a vedere dov' è nostro padre, nostro padre.
- Bene, ragazzi, se volete così, ecco a voi tutto ciò che vi serve e andate.
La loro madre li benedì:
- Andate, figli, che la vostra strada sia fortunata, che siate sempre fortunati, che siate sani e vivi.
Prendono, i due fratelli, montano a cavallo, mettono sopra tutto ciò che gli serve, e prendono per la strada. Prendono le loro sciabole, le loro spade, prendono i loro coltelli, tutto ciò che gli serve per la strada, e andarono.
Quando arrivano ad un incrocio, arrivano ad un incrocio, dove vedono un'indicazione: - Chi va a destra va al Regno, chi va a sinistra va alla Morte -.
Allora dice il fratello più anziano:
- Fratello, qui dobbiamo dividerci, poiché tu devi andare per una strada ed io per un' altra strada. Tu vai per quella strada dov' è scritto «Verso il Regno» ed io andrò per quella strada dov' è scritto «Verso la Morte», perché tu sei il più giovane. Pianteremo i nostri coltelli qui, in questo incrocio, li pianteremo in terra e come un coltello si arrugginirà, colui che va in quella direzione sarà stato ucciso. E chi resta vivo che venga in questo posto per guardare i coltelli.
Bene, prendono i due fratelli, piantano i due coltelli per terra, il giovane andò dov'è scritto «Verso il Regno», il più anziano andò dov'è scritto «Verso la Morte».
E questo fratello, il più giovane, come se ne andò nel regno subito là lo accolsero tutti davanti a lui (...).
Allora davanti a lui portarono una corona d'oro e subito lo posero come zar e lui si meravigliò di tutto questo. E poi gli diedero una fanciulla, così diventò zarina perché suo padre zar era morto e lei era rimasta al suo posto e lo aveva preso. Allora i cannoni tuonarono e capo diventa zar. Perché a quel tempo c'era chi veniva in quella terra, e venivano uomini e vecchi uomini e donne, chiunque, arrivarono stranieri in quella terra, in quel tempo, e così quel giorno diventò zar, lo accolsero, fu fatto capo e così visse in quel tempo.
Vivendo là aveva un palazzo, e di tutto, poiché ha zar.
Allora dice a sua moglie che era la zarina, dice:
- Me ne vado a caccia.
Come se ne va a caccia, ecco che arriva davanti a lui una lepre, una lepre davanti a lui, vanno, vanno, vanno, vanno, la insegue, lui a cavallo, con il suo cavallo, quando la lascia andare perché davanti a lui c'è un' anatra. Nuotava nell' acqua.
Egli si propose di prendere quell' anatra, la uccide, prende quell' anatra, così egli, mio Dio, la mise da parte; se ne va lontano, come in un deserto, non c'era niente, quando vede una capanna. Arriva, Dio mio, aveva fame, dice:
- Me ne vado, vado a vedere in quella capanna che cosa c'è.
Se ne va e vede che là c'è una padella, che il fuoco era acceso e che non c'era nessuno. Prende, in fretta e furia, spenna l'anatra (...) la mette a cuocere.
Quando fu cotta si mise a mangiare, e appare alla porta una ragazza (...) dice:
- Forse non posso mangiare con te?
- Perché no? Mangia, chi te lo proibisce, tu mangia liberamente, siediti e mangia con me.
Come disse ciò, la ragazza cominciò a gonfiarsi e trafisse il ragazzo.
Dopo di che lo invitò e lo tramutò in pietra.
Giorno dopo giorno... sua moglie lo aspetta, la zarina, e lui non viene. Lei piange tristemente e il popolo e tutti e quel popolo che (...).
Niente, suo fratello, che era andato dov'era scritto «Verso la Morte», viaggiò notte e giorno, tre mesi. Tre mesi viaggiò finché giunse in quel paese, e quel paese era a lutto e tutti gli stendardi reali e il popolo era triste, non c'era gente felice in nessun luogo.
Così quando arrivò in quel paese, dice:
- (...) Perché la gente è così? Tutti tristi e le bandiere nere, e cantano canzoni tristi.
E chiese che cosa c'era in quella terra, che la gente non era felice:
- Eh - dice - qui c'è un drago, e ogni giorno deve mangiare una persona, così ci lascia 1'acqua. E ora è il turno della famiglia dello zar ed è stata legata una figlia dello zar, è stata legata in terra fino al collo (...). Finché verrà il drago a mangiarla. E così, così.
Allora lui subito salta a cavallo, va, va, va, arriva al mare e dopo che è arrivato al mare vede la ragazza legata, sotterrata. Allora, prende, subito libera la ragazza, le scioglie le mani, la tira fuori da quel buco e le dice di sedersi. E come il drago viene per mangiare la ragazza, non la trova. Allora, lui subito prende la sua spada e il drago respinge, respinge, colpisce, colpisce; allora la spada si arroventa, non si può tenerla in mano, allora le dice (alla ragazza):
- Principessa, metti il tuo scialle nell' acqua e tiramelo per avvolgere l'elsa.
Quando ebbe tagliato la testa del drago, l'acqua diventò scura ed egli era così stanco che cadde addormentato profondamente.
Il fuoco si spense. A mezzanotte lo zar dice: Ehi, tu, zingaro, prendi il tuo boccale. E il rom era 1'acquaiolo del re e va.
- E vai a raccogliere le ossa della mia ragazza, raccogli bene, e riportale a casa.
Allora lo zingaro prende il boccale, tutto ciò che gli serve, il calesse, i cavalli, si siede e va. E pensava che lei era ormai uccisa, che l'aveva mangiata il drago e che le sue ossa le aveva gettate via. Quando arrivò e vide la ragazza viva, se ne andò, prese la cote per affilare il suo coltello e dice alla ragazza:
- Che cosa fai? Sai che cosa? (voglio fare che) ti ucciderò se tu non dirai che sono stato io a salvarti.
Allora la ragazza ebbe paura:
- Bene - dice - dirò così.
La mise a sedersi sul carro e se ne vengono a casa e la ragazza parla al padre. Quando il padre vide che era viva (ne fu contento), gli fu caro. Allora dice lo zar a sua figlia:
- Chi ti ha salvato? Ti ha salvato lo zingaro?
- Certo, certo.
Allora i cannoni tuonarono, forse non più (...).
Il genero dello zar... quello che 1'aveva salvata, l'acquaiolo, lo zingaro, è il genero dello zar, tzarezet, tzarezet, dicono. Niente, così. Mio Dio (...) e allora il rom prese le camicie dello zar, prese tutto ciò che gli serviva perché era genero dello zar. Eh, mio Dio, la ragazza (n.) era triste, non le era caro (gradito), ed era triste.
Dice la sua serva:
- Perché sei triste? Perché piangi? Perché non sei qui? (.n) Tu sei salva, sei la figlia dello zar, devi essere felice. Perché sei spaventata? Tuo marito è un grande eroe, quello che ha ucciso il drago, e cosÌ.
- Niente - dice - sai che cosa? Parlerai tu a mio padre di ciò che io non posso parlargli: qualunque anima (viva) passi sotto la nostra finestra (...).
- Bene, lo dirò. Vado.
Lei parla allo zar e lo zar ordina che gli portino qualunque anima debba passare sotto la finestra dello zar, quando verranno.
Più tardi, passò quel giovane che aveva ucciso il drago.
- Ecco - dice - io l'ho salvata.
- Ecco lo scialle, che ho preso dalla mia testa, che gli ho gettato mentre combatteva, che lui ha avvolto sull' elsa della spada. Perché quell' altro zingaro ha mentito.
Allora lo prendono e lo avvolgono nel catrame, lo imbrattano nel concime e lo bruciano. Bruciarono lo zingaro. Allora, lui, l'altro, diventa il genero dello zar, tsarezet, tsarezet.
Quello, il giovane, prende là, ecco tutto pronto ciò che gli serve dallo zar e là visse felice e contento. E aveva di tutto.
Poi un giorno indugiò su suo fratello:
- lo andrò a vedere in quel posto se mio fratello è vivo.
Quando venne in quel posto, dove aveva messo il coltello, vide che era arrugginito.
- Eh - dice - mio fratello è stato ucciso. Devo andare a cercarlo.
Va, va, va, giunge in quel paese dov'era suo fratello, dove era diventato zar. Quando giunse in quel paese, chi lo vedeva diceva:
- Ecco, è venuto lo zar!
Lui assomigliava a suo fratello, era proprio uguale, come due mezze mele.
Allora, come giunse, lasciò i suoi cavalli che lo presero i servi, lo legarono e così (e vide) trovò sua moglie. Sua moglie, e pensò che il rom fosse suo marito.
Voleva baciarlo, voleva spogliarlo, e lui non gliela permette.
- Ah - dice -. Lasciami che sono stanco, lasciami dormire.
Prende e cadde nel letto per riposarsi, a dormire. Viene sua moglie, vuole carezzarlo, vuole baciarlo. Lui prende la spada, e vuole colpirla. (Perché non mi lasci? lo che sono tua moglie... dice).
- Lasciami dormire, sono stanco.                                                                        Bene.
- Eh - dice - me ne vado, decido così, me ne vado a caccia.
Prende, se ne va a caccia quando davanti a lui arriva una lepre.
Quando vuole ucciderla ecco un'anatra davanti a lui. Prende e uccide l'anatra. Quando l'ebbe uccisa, scorge la capanna, se ne va là, dove vede il fuoco, vede tutto. Prende, - Eh - dice - me ne vado a farmi da mangiare: ho fame.
Quando ebbe preparato (...) voleva mangiare (...). C'era una ragazza bella. E allora cosa dice la ragazza:
- Posso mangiare con te? Posso....
- Sì, perché no? Mangia, siedi e mangia.
Quando lui prende e si meraviglia di (...) ma il cavallo la prende per il collo:
- Ah, tu sei quella che... che... (...) la gente che poi trasforma in pietra.
Allora lui cosa dice (...) Allora lei cosa dice:
- Non mi uccidere - dice - ecco una bacchetta. Per la strada prendi questa bacchetta e (...) in una bottiglia. Dentro vi è dell' olio (...) e tuo fratello si sveglierà. Egli prende quel, trova quella bacchetta, la bagna nell' olio, (...) la prima statua, la colpisce (tocca), e suo fratello balza su vivo, rinato. Quando è resuscitato, allora lui colpisce, colpisce, colpisce...
Dio mio, balza su gente, tanta, tanta gente... Allora, non appena suo fratello si alzò:
- Oh, ho dormito tanto.
- Eh, fratello, hai dormito per il tocco magico!
Allora prendono, vanno di là, dove (...) per il suo regno, dove sua moglie vede che i due fratelli che vengono erano uguali.
- Eh, per questo, per questo egli non voleva baciarmi - baciarla - quello era suo fratello.
Allora... lo venne a sapere. Prende, lui (...) festeggiare, si è rallegrato:
- Eh, fratello, adesso tu governerai nel tuo regno, ed io governerò nel mio regno.
Devo andare dal mio popolo, ma nostra madre si deve unire a noi, noi insieme andiamo da nostra madre e lei deve vivere insieme a noi.

 

La casa incantata

(fiaba spagnola)

Nella vecchia Castiglia un temporale estivo sorprese tre famiglie zingare mentre viaggiavano insieme per guadagnarsi da vivere. Videro un piccolo gruppo di case sparse, una delle quali sembrava disabitata, così decisero di prendervi rifugio. Tutti contenti per aver trovato un riparo, prepararono le stuoie e andarono a dormire.
Nel cuore della notte, però, si svegliarono inaspettatamente con uno strano senso di fame.
- Metti sul fuoco un po' di zuppa, per favore, che mi sembra di svenire - disse lo zingaro alla moglie.
- Che notte lunga - si lamentò uno dei ragazzi con la voce che gli tremava.
La zingara allora si mise a cucinare una povera zuppa che aveva soltanto un po' di pane, un poco d'olio, dell'aglio, pomodoro, prezzemolo, una foglia d'alloro e il sale. Ma guardando sopra il fuoco vide che un uomo, molto vecchio e con la barba di un candore abbagliante stava scendendo le scale.
- Povero vecchio payo (non-zingaro NdA), è proprio come noi - disse la zingara con compassione pensando che fosse un ladro rifugiatosi come loro nella casa abbandonata. Sospettosi perché non l'avevano notato prima, gli zingari chiesero al vecchio dov'era stato.
- Vivo di sopra - rispose lo sconosciuto e chiese loro un po' di sale.
Come ebbe avuto la saliera, il vecchio risalì nella soffitta da dove era venuto. Quando scomparve, prima ancora che gli zingari potessero fare alcun commento, un lampo illuminò la stanza e ci fu un forte tuono. Atterriti, corsero alla porta e aprendola si accorsero che fuori il temporale era cessato. Insomma, dentro casa tuonava mentre fuori tutto era calmo e brillava il sole dell' estate.
Venne da loro una vicina payo e, quando sentì quel che era accaduto, esclamò:
- L'avete scampata bella!
Poi spiegò loro che, quando li aveva visti avvicinarsi alla casa, aveva pensato di avvertirli di non entrare, ma che poi aveva preferito non farlo temendo che gli zingari potessero pensare che voleva semplicemente impedir loro di ripararsi dalla pioggia. La casa, infatti, era frequentata dai fantasmi, e vi dimorava lo spirito di un payo morto: il payo che avevano visto.
Senza dubbio il sale che aveva chiesto gli era servito per rompere l'incantesimo di cui era prigioniero e i tuoni dimostravano che aveva finalmente trovato la pace eterna.
Prima degli zingari, si sa che altra gente era entrata nella casa, ma nessuno li aveva più visti. Probabilmente perché non avevano potuto o voluto soddisfare la richiesta dello spettro che gli zingari avevano invece esaudito con tanta ospitalità.

 

Il contadino sciocco

(di Nusret Selimovic)

C'era una volta un anziano contadino sciocco ma fortunato. Viveva con la moglie e dieci asini che gli servivano per andare a raccogliere la legna nel bosco. Una mattina si alzò ben presto, salì in groppa al suo asino preferito, chiamò a raccolta tutti gli altri somari e s'incamminò verso il bosco.
Giunto a metà strada si girò e, colto da impulso, prese a contare gli asini:
uno due tre quattro cinque sei sette otto nove! Dio mio, pensò, ne ho perso uno!
Riprese a contare: uno due tre... nove!
Il poveretto, ogni volta, si dimenticava di contare quello sul quale era in groppa, così, sconsolato, riprese la via di casa e con molta vergogna si ripresentò alla moglie: senza legna e, pensava lui, senza un asino.
Scese dalla groppa dell'animale e sua moglie contò di nuovo: uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci! Detto fatto la moglie rimproverò il marito e lui, non sapendo con chi prendersela, se la prese proprio con gli asini:
l'indomani mattina ne prese cinque, li portò al mercato (poiché era sabato e ogni sabato si faceva mercato) e provò a sbarazzarsene. Ma prova che ti riprova non riusciva affatto a venderli: alla fine si risolse a barattarli con una bella mucca grassa e con quella tornò a casa.
La mucca faceva tanto latte e la moglie per un po' ne fu contenta.
Più avanti però si accorsero che non si poteva vivere di solo latte e purtroppo la legna che i cinque asini rimasti potevano trasportare, anche se ben venduta, non bastava a sfamarli come Dio comanda e stomaco pretende.
- Vai al mercato e vendi la mucca - disse la moglie.
Il contadino prese e partì verso il mercato.
Ma prova che ti riprova questa volta non riuscì né a vendere né a barattare la propria merce.
Sul finire della sera, stanco e sconsolato, ed anche un po' ubriaco, riprese la via di casa.
Lungo la strada cinque cani presero a seguirli, lui e la vacca, ed egli prese a parlare con loro:
- Volete comprare un po' di carne?
E i cani abbaiarono.
- La volete subito? E i cani abbaiarono. - E subito ve la do!
Afferrò un gran coltello, uccise la vacca, la tagliò a pezzi e la distribuì fra i cinque cani. Conservò solo la pelle dell' animale, che si mise sulle spalle per ripararsi dal freddo della notte.
- Badate bene - disse prima di andar via - che domani tornerò a prendere il denaro che mi spetta.
Cammin cammina il contadino passò sotto un albero dalle lunghe braccia frondose: il ramo più lungo trattenne la pelle della vacca indossata dall'uomo.
- Bene! - disse - domani passerò a prendere i soldi.
Rientrato a casa il contadino ne sentì tante, e tante bastonate prese dalla vecchia moglie che non riuscì a dormire per tutta la notte.
Cominciò così a bisticciare coi suoi stessi pensieri: pensò agli asini, pensò alla vacca, pensò alla vecchia moglie. Giurò a sé stesso che avrebbe recuperato il denaro che gli dovevano, che avrebbe ricomprato i cinque asini venduti, un'altra vacca più bella e grassa e tante provviste per superare l'inverno.
L'indomani, di buon'ora, si mise per strada: in un modo o nell'altro avrebbe avuto quello che gli spettava. Cercò i cani per lungo e per largo, frugò nel bosco, guardò sopra le colline e sotto le colline, si avventurò sulle rive del fiume e più lontano ancora.
Ma dei cani nessuna traccia.
Così giunse sino all'albero.
- Dammi quanto mi devi - disse l'uomo.
E l'albero niente.
- Dammi quanto - mi devi - minacciò l'uomo.
E l'albero niente.
- Dammi quanto mi devi concluse l'uomo - o ti distruggerò pezzo per pezzo.
Così disse e così fece.
Prese un grosso piccone e cominciò con lo scavarne le grosse radici.
Prima l'una, poi l'altra, poi altre ancora, finché proprio sotto quella più grossa trovò un grosso baule. Lo aprì, vide che conteneva una montagna di monete d'oro e per niente sorpreso disse:
- Te l'avevo detto! Ti sarebbe convenuto darmi subito quanto mi dovevi!
E visse, con la moglie, ricco, sciocco e contento.

 

Cenere diventarono i grandi fuochi

Cenere diventarono i grandi fuochi, 

le nostre cenciose tende furono squarciate dalle bufere.

La spiaggia deserta dei senza patria è il nostro approdo, non abbiamo amici.

Nella lunga notte del nostro peregrinare, 

spegnemmo le sfavillanti faci delle nostre anime,

 piangiamo e temiamo l'oscurità, 

perché i bavosi mastini del tempo continuano a ringhiare sotto le nostre finestre,

 ci strappano la loro luce.

Ahimè, perché ho dovuto giocare con luride bambole di stracci, 

perché, o madre mia, mi insegnasti le ninne nanne?

perché gioisti al notare dalla mia sporca sottoveste il turgore dei miei seni?

Tu ancora non sapevi che anche il sole si è oscurato?

Nella nostra querula lingua non sappiamo che lamentarci.

Gemono i nostri violini sul muro, 

grattate stridule hanno spaccato le nostre corde

 e noi singhiozziamo e temiamo la notte

 perché amici non abbiamo, ma soltanto miseria.

di Anka Lakatos

Tra due mura dorate

Vesti una veste di morte 

Il vento spira allo spasimo

 La lontananza faceva sberleffi 

La luce spiegava ad arco

 La luna ruzzola 

Gli spiriti si cullano 

Mi spingi ad un tenebroso silenzio 

Solo due pareti dorate 

Richiami alla mente

 Della mia trepidazione

 Ti curi di un bacio

 Tessi a fatica un filo

 Infili il grigio tra l'azzurro 

Tra due pareti Spieghi le ali 

Stupito spalanco la bocca 

In una grotta deserta si sentono i vestiti 

Spiani la via alla favella 

Una rivolta contro sé stessa 

Bruci la causa 

Signore sei della fortuna e dell'incertezza 

Tra due mura dorate 

La mia lingua si annida.

 di Rajko Djuric

Prima via

Spalanca le porte del cielo 

E osserva le parole dinanzi alla morte

La brama totale non desiderare

 Non ascoltare turbato 

La voce del pensiero 

Non tremare di ansia 

Sino ai piedi 

I fiori come filo 

Ti indicano la strada 

La prima senza numero 

Sulla collina dei Rom 

Innalza una preghiera 

E una bestemmia 

Fino alla casa del fuoco

Porta e deponi l'anello ed entra 

Offri la lingua al silenzio 

Quando il sorriso verrà 

Chiudi gli occhi 

Cambia discorso 

Trasforma l'oro in pietra 

Finché crollino gli Imperi.

di Rajko Djuric

Presso il Bugus* la casa è grande

Grande città è questo Oswiecim.

 Là il mio amato è prigioniero,

 Sta, sta là lamentandosi 

E di me non si rammenta più.

M'ha abbandonato qui nello strazio, 

Non m'ha detto arrivederci!

Dio, Dio mio, lo muoio qui, povera me.

Il mio piccolo uccellino 

Mi porta da lontano una letterina, 

La porta, la porta ai Tedeschi, 

Qui, dove mi ha imprigionato Oswiecim.

Dio, Dio mio, Dove batterò la testa?

Non riesco a liberarmi da qui, 

La mia testa già muore.

Qui sono diventata secca senza pane 

E senza una goccia d'acqua pura.

Qui perdo tutta la mia giovinezza.

Ahimé, il mondo non lo vedrò più.

E non sarò al mondo,

 I tedeschi mi uccideranno.
Dio, Dio mio, mi struggo, 

Perché il mondo non lo vedrò più.

* Il Bugus è un fiume che scorre presso Oswiecim, in tedesco Auschwitz.

 

Proverbi kalderasha

- Se non sai siediti tranquillo e fissa intensamente nel fuoco;
- Veder l'uomo dal di dietro è veder l'uomo come ubriaco;
- Un uomo saggio ride quando può. Sa bene che ci sarà da piangere molte volte;
- Dormi quando puoi. La notte forse sarà breve;
- Dopodomani, domani è ieri;
- Cammina leggero sull'erba; i tuoi cavalli possono averne bisogno;
- Sta attento quando il diavolo sorride;
- Guardati da un villaggio dove i cani non abbaiano;
- Un cane affamato dà fastidio alla pace dell'uomo;
- Il fumo di un fuoco può accecare l'uomo che lo ha acceso;
- Se vuoi vedere i pesci, non turbare l'acqua;
- Per partecipare un segreto, sussurralo ad un sordo;
- Un cane, che corre da solo, pensa di essere il più veloce del mondo;
- Un uomo che si vanta è come una tenda con l'apertura rivolta verso il temporale carico di vento;
- Un topo con una rosa all'orecchio è sempre un topo;
- Quando non vuoi vedere, a che serve una stella?;
- Un uomo ha bisogno di cinque cose: una donna, una tenda, le sue mani, un occhio acuto e qualche cosa per cui combattere;
- Un cavallo, che sta fermo troppo a lungo in un posto, avrà prurito alle zampe;
- Le donne sono come oro: dure e scintillanti, ma belle e preziose;
- Una foglia d'autunno non è più parte dell'albero;
- Non si pone un cartello con scritto: Non soffiare qui, poiché il vento non sa leggere;
- Solo i gadze non sanno vedere il vento o sentire le nuvole;                                      - Se Dio avesse voluto che i gadze non venissero tosati, non li avrebbe fatti pecore;
- Vedere un sorriso da un gadzo è più raro che vedere un uovo da una vacca;
- La gente spartirà ogni cosa con te tranne le tue difficoltà;
- La morte è solo un altro posto con Dio come padrone;
- Ogni nuovo uomo è un sasso nel fiume della vita.

 

Capitolo decimo: la musica

Lo zingaro Bachtalo, il Fortunato, rinchiuso nei sotterranei del Re dei Boschi, pensava e ripensava a come fare per liberarsi e poter così sposare la principessa: solo creando una cosa tale che nessuno avesse mai visto, sarebbe stato liberato.
Improvvisamente, nel buio dei sotterranei, apparve la Lucente Matuja, l'amica del Faggio, protettrice del Fortunato ancora prima della sua nascita.
Matuja chiese al giovane se ancora possedeva la scatolina magica che essa stessa aveva dato in dono per lui a sua madre.
- Prendi una ciocca dei miei capelli - disse -, attaccali alla scatolina e a questo bastoncino di faggio.
Detto fatto, Matuja prese la scatolina dalle mani di Bachtalo, vi rise dentro, e poi vi pianse, lasciandovi cadere alcune lacrime, e poi scomparve.
Bachtalo prese a strofinare sui capelli argentei un rametto sottile e dalla scatolina cominciarono a fluire suoni tristi di autunno inoltrato e suoni allegri di festosa estate.
Il Re dei Boschi, uditi i suoni, smise per una volta di ascoltare il fruscio del vento tra gli alberi, liberò il ragazzo zingaro, gli diede sua figlia in moglie e si lasciò incantare per sempre dal magico suono della scatolina incantata.
Era nato il violino.

fiaba tradizionale

La musica della Luna

Franz von Liszt, compositore e pianista ungherese, nonché filosofo della musica, scrisse che «... fra tutti i linguaggi che è dato all'uomo intendere e parlare, lo Zingaro non ha amato che la musica».
Il grande musicista, autore del saggio «Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie» (Degli Zingari e della loro musica in Ungheria), fu quello che più di altri diede razionalità e spessore ad uno degli stereotipi più classici sugli Zingari: quello del Bohémien musicista «di natura e grazie al suo rapporto con la natura», secondo i canoni più genuini del romanticismo ottocentesco.
Liszt, che con i musicisti zigani aveva un assiduo rapporto di frequentazione, colse nelle sue opere quella specificità della musica zingara ungherese che ad altri sembrava incomprensibile e fuori dalle regole sino allora conosciute:
«Per la maggior parte dei casi i dilettanti europei, gli insegnanti di musica e soprattutto i maestri dei conservatori cominciano a non capire nulla di codesto sistema, per il quale ci si immerge, con un tratto brusco, nel fluido immateriale che la musica sprigiona con un grado così intenso. Non tutti possono capacitarsi di come un uomo ragionevole possa passare senza preambolo alcuno da una tonalità di sentimento, rappresentata in arte da una tonalità musicale, in quella che è la sua opposta, e che possa passare d'un tratto da una forma ad un'altra, con cui la prima non ha nesso, così come il Rom si getta da uno stato dell'animo ad uno contrario, senza alcun perché, senza aspettare la lenta decrescenza del primo sentimento e la successiva formazione del nuovo».
Sembrava che i musicisti zingari magi ari davvero potessero essere definiti, così come Thomas Dekker chiamò nel 1709 i Gypsies inglesi, «Moone Mens», Uomini della Luna, mutevoli e folli, in preda agli umori e alle passioni come una terra assolata spazzata da improvvisa tempesta.
Su questa «musica della luna», scriveva ancora Liszt: «... monotona come le loro giornate, ardente come i loro amori o nervosa come i loro gesti, ma più spesso lamentevole e mesta come i loro spiriti che da tanti secoli soffrono l'indifferenza e lo sprezzo ».
È stato sicuramente anche grazie agli Zigani ungheresi che lo stereotipo zingaro/musicista ha poi accompagnato, nel bene e nel male, tutti i diversi gruppi sparsi per il mondo, compresi quelli che non manifestavano nessuna particolare attitudine per la musica.
Ma, stereotipi e sublimazioni romantiche a parte, la domanda che i musicologi più spesso si ponevano, e tutt'ora si pongono, era di carattere assai più speculare: erano gli Zingari i veri creatori di questa musica o erano più semplicemente i rifacitori e gli abili esecutori di stili e melodie preesistenti nei luoghi dove essi andavano a stabilirsi?
Un quesito, come infiniti altri, probabilmente irrisolvibile.
Alcuni provarono comunque a dare delle risposte.
Secondo Béla Bartòk la musica degli Zigani magiari era autentica musica ungherese. Secondo il musicologo Balint Sarosi, gli elementi della «puszta», «...che si crede essere autenticamente zingari, e che sono turco-arabi, sono stati assunti dai musicisti zingari sia direttamente alla corte dei pascià e dei bey, sia direttamente presso i signori ungheresi del XVII secolo. Il resto - la maggior parte degli strumenti, la tecnica, l' orchestrazione, l' armonizzazione fu un apporto dell'Occidente che essi assimilarono».
Lo stesso dilemma si pose, e risposte simili si dettero, in merito al Flamenco dei Gitani spagnoli.
Scrive B. Leblon, in «Les Gitanes dans la Péninsule ibérique»: «I Gitani hanno probabilmente adattato alloro genio particolare, materiale raccolto sul posto (...). Il ruolo dei Gitani in Spagna è dunque sia conservatore che innovatore, perché tutta la musica riedita da essi porta immancabilmente la loro impronta».
Ma tutto questo, in fondo, non sembra avere molta importanza. Di certo però allo stereotipo cullato nel romanticismo ha corrisposto e corrisponde certa realtà, caratterizzata non soltanto dalla fitta cronistoria di piccoli e grandi eventi musicali dei quali gli Zingari si resero protagonisti.
Basti pensare alla favolistica zingara: l'amore per la musica è cantato innumerevoli volte ed innumerevoli volte l'origine del singolo strumento musicale viene accreditato a volontà divina, in un turbinio di eventi che legano il «valore musica» ai moti delle passioni più intime dell'uomo e della natura.
In nessun' altra produzione letteraria al mondo vi è una presenza tanto ridondante dell'importanza della comunicazione musicale e, semmai, ogni altra produzione è invasa dallo stereotipo zingaro/musicista.
Ciò non comporta affatto, però, che sia possibile circoscrivere la cosiddetta «musica zingara» all'interno di un'unica cornice, così come risulta improponibile teorizzare le origini di tale specifica attitudine.
Bruno Nicolini, e altri, hanno provato a tracciare alcune caratteristiche che risulterebbero fondamentali in queste melodie: «Fulcro dell'eccellenza musicale zingara è il ritmo, che è sempre nuovo, libero, fluido, incrociato per corrispondere alle esigenze più diverse dei sentimenti. Il tema melodico si sviluppa secondo una linea sottile, delicata, elusiva, con uso dei microtoni - cioè quarti e terzi di tono - scivolando impercettibilmente, scomparendo quasi per poi ricomparire, mentre i virtuosismi vi disegnano attorno come un arabesco in un gioco fantastico di fioriture selvagge, di perifrasi insospettate, di trilli originali, di arpeggi dolci e riposanti, di scale furiose, di sprazzi brillanti in un itinerario guidato dalla ispirazione del momento».
Un'ispirazione colta, a volte, con 1m misto di stupore e di superstizione.
Scrive Gorki:
«- Suoni bene Loiko, chi ti ha costruito un simile violino?
- L'ho fabbricato io stesso, non con il legno, ma con il petto di una giovane che amavo! Le corde le ho prese nel suo cuore... »8.
Una leggenda più o meno simile veniva sussurrata con compiacimento su Nicolò Paganini, del quale si diceva anche che «... tutte le sue acrobazie strumentali, armoniche pizzicanti in doppia o tripla corda, i trilli d'uccello... sono gli artifici naturali dei musicisti zingari che si ritrovano nel gioco malefico... ».
Ancora sul Paganini: «... oltre al fatto che fosse senza dubbio Satana in persona le cui dita maledette muovevano l'archetto sullo strumento incantato», egli di sicuro doveva «... il suo prodigioso virtuosismo a segreti che gli erano stati rivelati da musicisti tzigani».
Insomma, a ben vedere, non si comprende se gli Zingari siano stati gli epigoni di altri musicisti, orientali ed occidentali, o se siano stati invece più numerosi gli artisti gagé che hanno assimilato e fatto propri motivi e tecniche della musica zigana.
Più probabilmente, com'è nell'ordine delle cose, i linguaggi musicali, laddove si sono incrociati, si sono arricchiti vicendevolmente, anche perché la musica zingara è sempre stata lungo i secoli uno dei più utilizzati prodotti di scambio con le società non-zingare, così come appare nella documentata ricostruzione del De Foletier.
Una ricostruzione che ci ricorda che il violino, per quanto diventato strumento emblematico della musica zigana, non fu, e non è, l'unico utilizzato dagli zingari. Oltre gli strumenti a corda, violino, chitarra, arpa, cembalo, essi utilizzarono anche la zampogna in Persia e in Gran Bretagna, il flauto in Russia, il tamburello in Turchia, le nacchere in Spagna, il clarino, l'ottone, il violoncello ed il contrabasso in Ungheria e in altre nazioni.
Esiste poi una vasta gamma di strumenti popolari poco indagati e poco conosciuti, come, per esempio, quelli slavi sui quali ha condotto diverse ricerche Traiko Petrovski.
Tra i Rom di Skopje, in Macedonia, ci sarebbero tutt' oggi numerosi e validissimi artigiani zingari che si dedicherebbero alla costruzione di questi strumenti: Tapani (tamburi), Zurli (strumenti a fiato), Tarabuka (piccoli tamburi), Gaida (zampogne), Kaval (specie di flauto), Defi (tamburello), Duduk (flauto da pastore).
Secondo Petrovski: «I gruppi strumentali turchi di origine arabo-persiana chiamati Calgii (che in turco può significare strumento, musica o orchestra) visitarono le maggiori città macedoni (Skopje, Bitola e altre), svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo dei complessi musicali in Macedonia. Sotto la loro influenza i Rom a Skopje formarono simili gruppi strumentali: i calgagii formati da violino, grnata (tipo di clarinetto), lauta, kanon (piatti), tarabuka e tamburello».
Sempre Petrovski ci racconta i sistemi di costruzione di alcuni di questi strumenti popolari: «Il tamburo è chiamato nella lingua romani davuli o goci:
è composto da un cilindro di noce e sopra ambedue i lati aperti del cilindro viene stesa la pelle di capra o di pecora. Il legno di noce viene bollito prima di essere trasformato in un cilindro; la pelle, che copre i lati aperti, viene tirata con degli anelli di legno coperti di pelle. Lo stiramento sul cilindro viene fatto con una corda, che, ben tirata, forma dei triangoli; l'estremità della corda è attaccata ad un anello di metallo unito al bordo del tamburo. A questo anello sono uniti altri due cerchi, ai quali è fissata una cintura di pelle usata per sostenere lo strumento quando si suona. Le dimensioni normali di un tamburo sono 500-550 millimetri di diametro. Il suono viene prodotto colpendo la pelle tesa con una speciale bacchetta fatta di legno: sano kas. Quando si suona, la cintura poggia sulla spalla e il tamburo rimane così inclinato in modo da poterlo suonare su ambedue i lati».

I musici erranti

La genesi degli Zingari musicisti, così come l'abbiamo conosciuta in ambito storico-letterario, comincia proprio con la musica: musici, secondo Hamzah d'Hispahan nella sua Storia dei re di Persia, erano i dodicimila Zott arrivati alla corte di Behram-Gor.
E qui si parla, beninteso, di parecchi secoli prima che gli Zingari si diffondessero in Europa.
La storia dei musici erranti per le corti europee è stata invece ben documentata e ben riassunta dal De Foletier, secondo il quale essi avrebbero incontrato i maggiori successi nei Paesi dell'Europa centrale ed orientale.
Tuttavia la loro presenza è stata rilevata praticamente dappertutto, dall'Islam alla Cristianità, con caratteristiche assai comuni. Offesi e perseguitati gli Zingari parevano capaci di costruirsi piccole oasi di sopravvivenza «vendendo» il loro prodotto più apprezzato: la musica, appunto, accompagnata spesso anche dalla danza.
Si suonava e si danzava per re, regine e nobili, ma anche nelle feste paesane e in quelle private. Diversi gruppi di musici nomadi vennero inglobati negli eserciti, a formare estemporanee bande militari.
Nel 1469, in Italia, uno Zingaro che suonava la «citola» (uno strumento a corde), venne ricompensato dal Duca di Ferrara.
Secondo il De Foletier i Rom stanziatisi nel meridione d'Italia erano i costruttori e i suonatori dello «scacciapensieri» (la tromba degli Zingari).
Sono molti gli aneddoti e le curiosità riguardanti questi particolarissimi orchestrali e queste ammalianti danzatrici.
In Ungheria Panna Czinka, una violinista molto nota, continuava, durante la bella stagione, a vivere sotto la sua tenda sulle rive del fiume Sajo: alla sua morte, sulla sua tomba, venne inciso un epitaffio in latino e la sua vita fu celebrata in versi ungheresi e latini.
Barna Mihaly, chiamato anche l' «Orfeo ungherese», divenne primo violinista alla corte del Cardinale Emerich Csaky, che ne ordinò un ritratto a grandezza naturale.
Ogni signorotto magiaro pare avesse la sua piccola orchestra zingara, che di solito era composta da due violini, un contrabbasso e un cimbalo (uno strumento a corde percosse da due martelletti).
Il cimbalo era anche lo strumento di Simon Banyak, alla corte di Maria Teresa. Un parente di questo musicista, Janos Bihari, compose la «Kronungs Nota», o «Bihari Nota», per l'incoronazione dell'imperatrice Maria Luisa. Sempre in Ungheria le orchestre zigane accompagnavano i reggimenti degli Ussari, con arie, secondo Mérimée che aveva potuto udirle nelle feste paesane, che facevano «... perdere la testa alla gente del paese. Comincia con qualche cosa di molto lugubre e finisce con una gaiezza folle che conquista tutto l'uditorio, il quale batte i piedi, spacca i bicchieri e balla sulle tavole».
Anche in Moldavia e in Valacchia, i Lautari, si emancipavano dalle strette della schiavitù assoggettandosi al più gradito ruolo di musici. Un gran boiardo, Costantino Sutzo, compose un' orchestra zingara di cento elementi. Il tamburino, il violino, la «cobza» (una sorta di mando lino a nove corde) e il «naiu» (flauto di Pan), erano gli strumenti di numerose bande militari, come quella che nel 1821 accompagnava a Dragasani il «battaglione sacro» composto da Greci e Rumeni che venne massacrato dai Turchi in battaglia.
Una piccola orchestrina magiara, chiamata Gli Zingari (in italiano), raggiunse nel 1840 Parigi.
«Vestiti nel costume tradizionale ungherese, con pantaloni a sbuffo di tela bianca e stivali con gli speroni, suonarono centosettanta volte nei teatri, nelle sale di concerto e nelle case private, come in quella di Lord Granville, ambasciatore d'Inghilterra, e del Conte Apponyi, ambasciatore d'Austria. Da allora eccellenti orchestre zingare ritornarono frequentemente in Francia sotto il secondo impero... ».
Non tutti però apprezzarono questi Zigani che penetravano in Francia armati dei propri strumenti, a dimostrare che un buon musico zingaro era e restava comunque sempre e soprattutto «uno zingaro». Alexander Privat d'Anglemont, cronista parigino, descrivendo uno di questi musicisti erranti, così scriveva nel 1854: «Un vecchio abbronzato con gli abiti picareschi che grattava su un mandolino bizzarro, una specie di gusla...è uno zingaro vigliacco, un girovago nato a Bucarest, schiavo di un qualsiasi Boero».
Anche nella Russia degli Zar non esisteva corte o festa senza canti e danze zingare.
Scrisse Liszt, dopo un viaggio a Mosca, che le Zingare «Hanno il loro posto negli archivi delle prime famiglie dell'Impero... Sono diventate il terrore delle madri e dei tutori. Si narra di più di un principe che avrebbe divorato con loro nel corso di qualche estate tutto il suo patrimonio di milioni in feste e festine, danze e bevande, gioie e delizie».
Non sembra davvero un caso che anche moltissimi scrittori russi frequentassero gli Zingari e poi trasportassero sulle loro pagine ombre, colori e suoni di questi musici e di queste danzatrici. Aleksandr Puskin, il grande poeta rivoluzionario che a causa dei suoi epigrammi venne mandato al confino, viaggiò con essi, dormì con essi e su essi scrisse tra il 1821 e il 1823 il poema «Zingari».
Un nipote di Tolstoi sposò una cantante zingara e di Zingari parlò anche il grande Leone nelle sue opere (I due Ussari).
Anche la letteratura spagnola venne ammaliata dall' arte musicale gitana, che assunse forme e contenuti sicuramente originali.
La «Gitanilla» di Cervantes resta una figura emblematica di come la letteratura in genere ha recepito la figura della Zingara: un po' artista, un po' innocente e un po' ladra.
La musica gitana, più delle altre espressioni musicali zingare, è legata intimamente con la danza. Il Flamenco, che si dice di antichissime origini andaluse, avrebbe in sé elementi orientali, moreschi ed ebraici e, secondo altri, non avrebbe forme ben definite ma solamente differenti istanze: la «saeta» (solo cantata), la «seguidilla» (accompagnata dalla chitarra), la «malaguefia» (la vera e propria danza).
Secondo il De Foletier «Se la musica degli Zingari è soprattutto una musica strumentale in Ungheria e una musica vocale in Russia, in Spagna essa è in stretta relazione con la danza».
Danza, musica, canto: tre espressioni, tre veicoli di comunicazione, forse i più potenti nelle mani degli Zingari, che per interi secoli hanno invaso la vita e l'arte dei gagé: stupiti, sedotti, spesso spaventati ed in preda a improvvise pulsioni sgorgate alla luce dai recessi profondi dell' anima.
Così dice il prete don Claudio ad Esmeralda, la Zingara torturata e condannata a morte per causa sua: «Un giorno ero appoggiato alla finestra della mia cella (...) leggevo. La finestra dava sulla piazza. Odo un suono di tamburo e di musica. Irritato di essere in tal modo distratto dalla mia meditazione guardo sulla piazza. Quello che vidi molti altri lo vedevano oltre me, tuttavia non era uno spettacolo per occhi umani. Là, in mezzo al selciato, una creatura danzava. Una creatura così bella che Dio l'avrebbe preferita come madre e avrebbe voluto nascere da lei, se fosse esistita quando egli si fece uomo (...).
Stupito, atterrito, inebriato, incantato, mi lasciai andare a guardarti. Ti guardavo tanto che ad un tratto fremetti di spavento, sentivo che il destino mi afferrava (...). Mi ricordai i tranelli che Satana mi aveva già teso. La creatura che avevo sotto i miei occhi aveva quella bellezza sovrumana che può venire solo dal cielo o dall'inferno (...). Frattanto l'incantesimo operava a poco a poco, la tua danza mi turbava il cervello, sentivo il misterioso maleficio compiersi in me. Ad un tratto ti mettesti a cantare. Che potevo fare miserabile? Il tuo canto era ancora più affascinante della tua danza. Volli fuggire, impossibile ero inchiodato, ero radicato al suolo».

Django Reinhardt

Diane Tong, nell'introduzione al suo «Storie e fiabe degli Zingari», racconta di come nei campi di sterminio tedeschi durante la seconda guerra mondiale, alcuni Zingari che vi erano imprigionati tentarono di salvarsi spacciandosi per Django Reinhardt.
Nessuno può dire con sicurezza se poi qualcuno di questi tentativi sia stato baciato da buona sorte.
Di sicuro però non si trattava di tentativi campati per aria: forse era davvero legittimo sperare che anche il mostro nazista avrebbe risparmiato lo Zingaro Reinhardt, il più grande jazz man europeo, il chitarrista analfabeta «dalle otto dita».
Reinhardt, il cui vero nome pare fosse Jean Baptiste, era nato a Liverchies, in Belgio, nel 1910.
Era nato in un carrozzone manouche accampato alla periferia della città e certo nessuno, tra la sua gente, avrebbe potuto immaginare che un giorno la sua storia sarebbe diventata una delle leggende più nitide e significative della mUSIca jazz.
Imparò, sin da bambino, a suonare sia la chitarra che il violino, ma abbandonò quest'ultimo dopo che un incendio del suo carrozzone gli provocò una grave menomazione alla mano sinistra: perse l'uso di due dita, un incidente che avrebbe decretato la morte musicale di tanti altri ma non del ragazzo manouche che accentrò i suoi sforzi sulla chitarra.
Per lungo tempo Reinhardt continuò a vivere la solita vita che il destino sembrava aver tracciato per lui: la vita nomade, fatta di continui spostamenti e di improvvisati concerti di piazza.
Fu proprio in uno di questi concerti, alla periferia di Parigi, che venne notato da un gruppo di musicisti francesi.
Arrivò in questo modo il primo ingaggio: il musicista analfabeta (non sapeva leggere le note sul pentagramma), venne assunto nell'orchestra di André Ekyon, un sassofonista francese di una certa notorietà.
Nel 1934, insieme ad un altro giovane musicista particolarmente dotato, il violinista Stephane Grappelly, costituì il «Quintette de l'Hot Club de France», un gruppo composto prevalentemente da strumenti a corda.
Secondo il parere dei più accreditati musicologi l'immediato ed enorme successo dell'Hot Club de France, ma in particolare di Reinhardt che del gruppo era il vero trascinatore, stava tutto nelle sue invenzioni a metà strada tra il lirico e il barocco, nelle sue volate a note singole e negli episodi «ad ottave parallele».
Tra il 1935 ed il 1939 il chitarrista «dalle otto dita» suonò ed incise con tutti i grandi jazzisti americani in tournée per l'Europa: Rex Stewart, Dickie Wells, Coleman Hawkins, Benny Carter, Barney Bigard, Eddie Shout, Bill Coleman.
I suoi dischi si vendevano dappertutto, anche in quell' Italia fascista nella quale, a causa dell'ostracismo del regime alla musica jazz, l'Hot Club de France venne ribattezzato col nome «l cinque diavoli del ritmo».
Allo scoppio del conflitto mondiale il gruppo si scioglie, per poi venire rifondato dallo stesso Reinhardt con una diversa composizione strumentale:
clarinetto, due chitarre, contrabasso e batteria.
Nel 1946 il musicista zingaro venne invitato negli Stati Uniti, per una serie di concerti con Duke Ellington. Negli ultimi tempi, morì nel 1953, si era parzialmente avvicinato al bebop e aveva preso a suonare con la chitarra elettrica: alla sua morte lasciò un vastissimo patrimonio musicale destinato ad influenzare a lungo sia il jazz europeo che quello d'oltre oceano.
Su di lui restano numerosi aneddotti che, più ancora del parere tecnico dei musicologi, testimoniano delle sue origini zingare: l'assoluta incapacità di accumulare denaro, la generosità verso tutti coloro che si trovavano in difficoltà, la resistenza ad imparare il linguaggio del pentagramma, la coscienza del trascorrere del tempo non vincolata alle lancette di un orologio (perdeva facilmente la coscienza del tempo ed una volta arrivò in ritardo persino ad un concerto con Duke Ellington).
Probabilmente non è un caso che il più famoso musicista di origini zingare di questo secolo abbia trovato tutta la sua grandezza nella musica jazz:
forse solo essa, musica dei ritmi interiori dell'anima, poteva accogliere pienamente quanto Reinhardt aveva da insegnare; non tecniche, probabilmente, e neanche stereotipi musicali già datati e assimilati, ma sicuramente, un atteggiamento verso «il fare musica» che era proprio della sua gente.

Capitolo undicesimo: la medicina

La buona pietra

Una delle caratteristiche reputate tra le più «zingaresche», la stessa che colpisce in profondità la fantasia della gente, è rappresentata dall'usanza dei cosiddetti «denti d'oro».
In un pomeriggio di alcuni anni orsono, nel Campo di San Lussorio a Selargius, mi capitò di assistere alla messa in opera di questi denti: proprio così, non in una clinica specializzata, né negli studi di qualche odontoiatra, ma proprio in una qualsiasi baracca, quella, nell'occasione, dell'anziana Nedziba.
I due improvvisati dentisti, armati di valigetta e scarsa attrezzatura, erano due giovani marocchini che allora giravano per tutti i Campi di Cagliari: il mercato pare fosse abbastanza ampio.
Dopo le trattative sul prezzo, che richiesero parecchio tempo e che si conclusero sulla cifra di trentamila lire «a dente», i due giovani si diedero da fare sul loro armamentario, costituito da un fornellino sul quale fondere la materia prima e su altri, pochi, strumenti medici.
Davvero non fu per niente un buon spettacolo.
I due non usarono anestetici, né si premunirono di disinfettarsi le mani.
Quanto poi al materiale usato si trattava di una lega di oro e rame, con moltissimo rame e pochissimo oro fusi in una patina molto leggera che rivestiva il dente.
Il tutto, procedimento approssimativo, materiali usati e nessuna igiene, sembrava fatto apposta per provocare infezioni di varia natura e probabili paradentosi. Cosa che poi puntualmente avvenne.
Questa è la storia dei «denti d'oro» degli Zingari, così come io l'ho vista, ed anche se probabilmente si trattava solamente di un episodio, ciò può lasciar intendere quanto in certi casi i rapporti con la «medicina» siano diventati per i Nomadi contraddittori e non sottoposti a controllo.
Ancora una volta il passato parlava un'altra lingua, una lingua smarrita della quale sono rimaste poche ma significative tracce che raccontano di una medicina gestita in proprio e basata sull'uso di determinate piante e di altre sostanze animali e minerali.
«Trifoglio, verbena, erba di San Giovanni; aneto / respinge le streghe di loro volontà / È bene per coloro che possono / digiunare il giorno di Sant'Andrea / Santa Brigida e il suo bastardo / Santa Colomba e il suo gatto / San Michele e la sua spada / tengano la casa libera, prospera e fortunata».
In questa filastrocca di scongiuri contro le minacce che potevano recare pericolo ad un'abitazione, della quale testimoniò Walter Scott per averla udita da una Gypsye, si può comprendere di quanto potere magico venissero accreditate alcune erbe nella tradizione zingara.
Un potere magico che indubbiamente si ritrova anche nell'uso che di determinati vegetali, e altre sostanze di tipo animale e minerale, si fece e tutt'ora in parte si fa nella medicina popolare zingara.
Il che certo non è una specifica prerogativa di questa etnia: in tutte le tradizioni popolari la medicina dei cosiddetti guaritori ha sempre avuto particolare importanza e spesso è vissuta nella simbiosi tra elementi magico-rituali ed effettive proprietà curati ve delle sostanze utilizzate.
Nello specifico, secondo la Cozannet «L'idea su cui si basa tutto ciò è quella dell'origine religiosa - demoniaca, per maggior precisione - della gran parte delle malattie che assillano l'uomo. E non solo delle malattie infettive o interne, la cui origine può sembrare misteriosa ad una persona incolta, che tenterà di spiegarle con un intervento sovrumano, ma anche delle ferite, dei colpi, ecc., che possono essere attribuiti ad un intervento diabolico che si inserisce nell'azione umana definita allora piena di sfortuna».
In realtà appare poi molto difficile stabilire in che misura, nel trascorrere del tempo ed anche in relazione agli usi ed alle esperienze fatte dai diversi gruppi, siano rimasti intatti i presupposti mitico-religiosi dei quali parla la studiosa francese, e in che misura invece si sia data sempre più importanza ai buoni risultati ottenuti empiricamente da determinate sostanze.
Certo lo stereotipo Zingara/guaritrice è sempre stato uno dei più ridondanti nella cultura europea e su di esso si trovano numerose testimonianze storiche che vale la pena di ricordare.
Gli Zingari che penetravano in Europa si fecero conoscere da subito come maestri nell' arte di guarire. Che poi, almeno in parte, questa arte si sia espressa a metà strada tra medicina e sortilegio, appare più come un segno dei tempi che non come una specifica attitudine zingara.
L'Europa, dopo tutto, brulicava di superstizioni, stregoneria vera o presunta, magia bianca e magia nera: il tutto ben rinfocolato dall'attività degli inquisitori, sempre più che propensi ad accreditare a forze sovrannaturali tutto quanto non altrimenti comprensibile.
Già un membro della Compagnia del Conte del Piccolo Egitto pare fosse uso presentarsi come Pietro il medico. Reginald Scott, in un trattato di magia del 1584, scrive che gli Zingari avevano il potere di guarire e di ferire. Guarire, beninteso, da molti mali: tanto da emicranie che da cattiva ventura, tanto da raffreddori che da mal d'amore.
Dice Otello a Desdemona, a proposito del fatale fazzoletto: «Mia madre ebbe quel fazzoletto da una zingara egiziana (...). Nel suo tessuto c'è virtù magica; una sibilla che aveva contato sulla terra duecento volte il corso annuo del sole, lo ha ricamato durante un'estasi profetica. E i bachi che ne avevano fatto la seta erano sacri. Ed esso fu tinto con i colori che esperti dell'arte ricavavano da cuori mummificati di vergini».
Ma gli amuleti utilizzati dagli Egiziani erano solitamente di altra natura, come ancora racconta il De Foletier.
In Germania e in Transilvania erano composti di pasta di lievito seccata, con sopra incisi dei segni misteriosi. A volte invece essi usavano pietre poco comuni, o, come nel caso dei Gitani, la calamita, che veniva da loro chiamata «la buona pietra» (Bar Laci).
Superstizioni?
Non c'è alcun dubbio, come non c'è alcun dubbio che di riti e scongiuri di altro tipo fosse assai ricca la civiltà contadina del tempo.
Così se agli scongiuri degli Zingari era concesso, ad esempio, di domare gli incendi, altri, tra i quali molti religiosi, non avevano remore nell' accreditare ai propri scongiuri altri straordinari effetti.
A Konisberg, nel 1745, un manifesto affisso sui muri della città dà grande risalto agli scongiuri con i quali un non meglio identificato Re degli Zingari fece assopire un incendio:
«Ti ordino, o Fuoco, per la forza di Dio onnipotente e creatore di tutte le cose, di arrestarti in questo stesso istante e di non avanzare di un passo.
Gesù di Nazaret, re dei Giudei, guarda questa casa e la sua cinta dall'incendio e dalla peste. Così, o Fuoco, che tu sia chiuso e scongiurato... ».
Niente di particolarmente diverso dagli scongiuri del domenicano J. Sprenger: «Per allontanare i fenomeni atmosferici avversi, si gettino nel fuoco tre chicchi di grandine, invocando la Santissima trinità, recitando il Pater, la salutazione angelica, il principio del Vangelo di San Giovanni, e tracciando il segno della croce avanti e indietro in ognuna delle direzioni cardinali. Alla fine si replica per tre volte la frase iniziale del Vangelo di Giovanni con la formula fugiat tempestas ista».
Che dire poi di certe filastrocche che ancora oggi si recitano nei Campidani sardi, come quella di «Santa Barbara e Santu Iaccu» contro i fulmini? Come stupirsi insomma del fatto che in passato gli Zingari si fossero così ben inseriti in questo contesto generale?
Le donne zingare, inoltre, possedevano davvero qualche cognizione di fitoterapia, dato che curavano sé stesse e i propri familiari con l'aiuto di erbe medicinali, coniugandole magari a volte con altri elementi dalle dubbie proprietà, come quella carne di «serpente cotto» con la quale in Transilvania si tentava di porre rimedio alla scabbia.
Se il ruolo di guaritrice solitamente veniva riservato alle donne non per questo gli uomini disdegnavano di specializzarsi in queste attività. Nella storia è rimasta traccia di questi personaggi, che si dicevano, pare con qualche credibilità, anche buoni chirurghi.
Prévost d'Exiles, detto l'Abate, in «Le pour et le Contre», scrive che «Le visite che fanno ai contadini non sono senza gradimento e nemmeno senza utilità», dato che essi «... si intendono bene di medicina e di chirurgia... I più fini hanno un segreto che fa talvolta l'ammirazione dei fisici e dei chimici».
I chirurghi zingari divennero poi famosi nelle Province Unite, tanto famosi da offrire i propri servigi ai chirurghi olandesi che presero a fare tirocinio presso di loro.

Fitoterapia ma non solo

«Anche per i cavalli sapevano fare, quando ad un cavallo prendeva mal di pancia. Allora ci vuole qualcuno che ha le dita così che indice e mignolo si toccano dalla parte del dorso della mano senza sforzarli. Prendeva la paglia, che era sotto il cavallo, con quelle dita così e la buttava sopra il cavallo. E la prendeva ancora e la buttava tre volte. Poi passava. Ma solo quelli che potevano prendere la paglia con quelle due dita. Avevano anche una testa di volpe, solo l'osso. Anche da quella passavano l'acqua e la davano da bere ai bambini. Mai dottore, mai dottore».
Queste, raccontate da Bruno Levak Zlato in Rom Sim, erano alcune recenti tradizioni dei Rom Kalderasa. Tradizioni che ancora, almeno in parte, continuano ad essere tenute in vita, specialmente per quel che riguarda la cura delle malattie nell'uomo.
Riuscire a conoscere realmente queste pratiche è particolarmente difficile, data l'estrema riservatezza degli Zingari in merito a questo aspetto della loro vita. Certo qualcosa ancora rimane, specialmente nelle abitudini delle persone più anziane.
Omo Selimovic, uno dei grandi vecchi dei Roma xoraxané che vivono in Sardegna, diverse volte ha tentato di «curarmi» alcuni leggeri disturbi di digestione manipolando il mio braccio sinistro: si trattava, nelle sue intenzioni, di individuare una «pallina» che si annidava tra i muscoli facendo poi forza su di essa per placare il disturbo. Qualche volta, forse per mia autosuggestione o perché diventava assai più forte il dolore al braccio «manipolato» che non allo stomaco, la cura ha funzionato perfettamente: l'unico inconveniente stava tutto nel mio povero braccio martoriato, poca cosa comunque rispetto alla soddisfazione che traspariva dal viso rugoso del vecchio Orno. .
Il rimedio consigliato da Levak Zlato contro il malocchio che colpisce i neonati è simile a quello in uso nei campi Roma sardi: «... allora prendevano acqua e carbone acceso e lo mettevano nell'acqua. Allora si sapeva chi aveva fatto il malocchio al bambino e passava subito».
Nei Campi cagliaritani il bicchiere colmo d'acqua nel quale viene lasciato cadere il tizzone ardente viene passato e ripassato sul capo del bambino piangente, in questo modo il vapore che da esso si sprigiona assolve la funzione curativa.
È questo un rito che si ripete infinite volte al giorno a causa del tabù sull'impurità che impedisce al padre di toccare i piccoli appena nati per un certo periodo di tempo.
Il padre, constatando anche involontariamente la bellezza del proprio figlio, ma non potendolo toccare, provoca la nascita del malocchio: a questo punto l'unico rimedio resta quello del tizzone ardente nell' acqua.
Qualche donna zingara raccoglie ancora poche erbe: attività assai difficile da eseguirsi nelle degradate periferie urbane. Tra gli altri sistemi curativi gestiti in proprio convivono anche alcune pratiche tanto moderne quanto nefaste.
In caso di bruciature, per esempio, non viene solo utilizzata la classica fetta di patata: in diverse occasioni ho potuto constatare personalmente l'uso di olio per motori «bruciato», cioè già utilizzato negli automezzi.
La tendenza generale è comunque quella di rivolgersi, quando è possibile, alla medicina gagé, ritenuta, soprattutto fra i giovani, più capace e sicura: un po' come hanno rilevato i ricercatori Ciravegna e Maroni nel corso di un'interessante ricerca effettuata su un campione di famiglie zingare nell' area torinese:
«Presso gli Zingari convivono infatti due modalità differenti di cura: l'una legata al farmaco-medicina tipica della società post-industriale, l'altra basata suformule e rimedi naturali. (...) La loro convivenza, a prima vista, è motivata da un'altra convivenza: quella di giovani e adulti, nel senso che i primi sono all'oscuro di pratiche fitoterapiche e tradizionali e ripongono in esse scarsa fiducia, affascinati piuttosto dai prodotti che si acquistano in farmacia, pubblicizzati come sicuramente efficaci; gli adulti, invece, memori dei «miracoli» operati dalle erbe o dalle donne delle erbe fino a non molti anni fa, disdegnano la medicina occidentale, a favore di quella indigena e naturale».
Anche secondo Ciravegna e Maroni la conoscenza della fitoterapia è oggi patrimonio di poche donne il cui bagaglio scientifico è stato loro tramandato per via orale, da madre e figlia. Insieme alle proprietà delle erbe sono state tramandate anche alcune regole generali: ogni erba deve essere raccolta in determinate stagioni e mai, in nessun caso, le donne devono raccoglierle se si trovano nel periodo mestruale, cioè in stato d'impurità, pena la perdita dei principi attivi delle piante.

Alcune ricette

La Cozannet riporta una ricetta di antiche origini contro gli incubi, l'asma, l'oppressione sul petto: «... si impasta un composto a base di polvere di mostarda e di succo di radici, di cui si fanno pallottoline che il malato deve inghiottire prima e dopo il sonno, dicendo: Gesù è stato colpito, gli ebrei si sono assisi sul suo petto, Dio li ha scacciati. Un demone è assiso sul mio petto, donne bianche, scacciate lo e mettete su di lui una grossa pietra»
A prescindere dalla formuletta magica, che ci indica più che altro in che modo siano penetrati anche tra certi gruppi zingari i nefasti pregiudizi sugli Ebrei (sicuramente di pari passo con la penetrazione del cattolicesimo), poco o niente la Cozannet ci spiega sulle proprietà chimiche delle sostanze utilizzate (quali radici?), salvo mettere poi in evidenza non meglio precisate proprietà vescicanti.
Sulle ricette di medicina zingara non esistono molte pubblicazioni, anche se appare lecito supporre che la gran parte di esse, tra quelle non conosciute, non debbano poi essere molto dissimili da quelle patrimonio di altre medicine popolari, sia per la composizione degli elementi utilizzati e sia per la loro applicazione in determinate patologie.
La riscoperta della fitoterapia, come medicina alternativa o complementare a quella classica, fenomeno che appare sempre più in espansione, accredita anche i vecchi rimedi popolari di una dignità e di un' efficacia che erano state messe fortemente in dubbio: oggi la conoscenza di questi rimedi è invece assai diffusa e ci permette perciò una valutazione oggettiva di alcune ricette zingare, tratte, in questa specifica occasione, dalla ricerca di Ciravegna-Maroni.

 

- Bronchiti, Irritazioni Respiratorie, Raucedini.
1 litro d'acqua, 50 gr. di foglie di eucalipto, 50 gr. di foglie di ginepro, 10 gr. di foglie di lobelia, 20 gr. di foglie di salvia, 15 gr. di foglie di valeriana.       Disporre i vari ingredienti in un recipiente, versare acqua bollente, lasciare raffreddare, filtrare e bere in ragione di 2 tazze per giorno.


Questo infuso contiene erbe universalmente utilizzate nella cura di affezioni respiratorie di vario tipo. Le foglie dell' eucalipto sono ricche, tra gli altri, di principi attivi sulle febbri, i catarri, le polmoniti. Le foglie di ginepro sono forti eccitanti delle secrezioni, quelle della salvia da sempre utilizzate per la cura dell' asma e della bronchite, mentre la lobelia è una pianta erbacea ricca di «lobelina», un eccitante dei centri respiratori. L'unico uso difforme da quelli più noti e consigliati è quello delle foglie di valeriana, essendo questa una pianta della quale solitamente si utilizza solo il rizoma (e mai associato all'acqua bollente che ne vanifica i principi attivi).

 

- Bronchiti, Affezioni polmonari, Crisi d'asma.
40 gr. di gemme di abete

l l. di acqua, 1/2 l. di miele. Ottenere un infuso con le gemme d'abete e l'acqua, filtrare e aggiungere latte caldo zuccherato con miele. Bere sei tazze per giorno di tale infuso.

L'associazione tra il miele e le gemme di abete è un classico della fitoterapia. Le gemme di abete, delle quali viene però solitamente consigliata una proporzione d'uso almeno doppia in un litro d'acqua, sono ricche di principi attivi balsamici, espettoranti e antisettici.

 

- Contro la febbre.
30 gr. di corteccia di salice. 1 l. di acqua. Fare un infuso utilizzando l'acqua bollente e la corteccia di salice. Lasciare raffreddare e berne a ragione di tre piccole tazze di caffè ogni giorno.


La corteccia di salice, che contiene sostanze tanniche e salicina, un glucoside che per ossidazione produce acido salicilico, viene utilizzata in Occidente, come febbrifugo, sin dal XVII secolo.

 

- Contro l'insonnia 

Raccogliere la lattuga al mattino, prima che il sole abbia illuminato la pianta. Fasciare la lattuga con un foglio di carta. La sera, mettere le foglie di lattuga in una casseruola con acqua pio vana; far bollire per circa 25 minuti, colare e aggiungere un pizzico di sale. Bere il liquido ogni sera prima di andare a dormire.

La lattuga, a prescindere dalla raccolta mattutina consigliata dagli Zingari, ed anche dal pericoloso uso dell' acqua piovana, è una pianta utilizzata a scopo medicinale da alcuni millenni. Galeno, il filosofo e medico greco noto per i suoi studi di anatomia e fisiologia, era solito curare la propria insonnia mangiando ogni sera un po' di lattuga.

 

- Contro l'ipertensione.
Una manciata di foglie d'ulivo, 1 l. d'acqua Far bollire nell'acqua una manciata di foglie d'ulivo. Continuare l'ebollizione sino ad arrivare a circa metà del suo contenuto originale. Filtrare, lasciare raffreddare. Berne una tazza il mattino e una alla sera, a settimane alterne.


Le foglie di ulivo, si usano tradizionalmente in un decotto che è attivo sull' ipertensione e che non causa depressione cardiaca.

 

- Per i reumatismi 

250 gr. di foglie di frassino, 150 gr. di corteccia di sambuco, 20 gr. di radice di saponaria 2 l. di acqua piovana. Far bollire in due litri di acqua, filtrare e lasciare raffreddare. Berne non più di tre tazze al giorno.

Il principio attivo del frassino, la frassinite, ha ottime capacità di combattere i reumatismi. La corteccia di sambuco, oltre essere un discreto antireumatico, contiene anche principi antinevralgici. Le radici di saponaria, pianta universalmente utilizzata (gli Arabi l'usavano contro la lebbra e nelle ulcere), contengono anch' esse principi attivi contro i reumatismi.

 

- Per il diabete 

3 gr. di pervinca. 1 l. di acqua piovana. Fare un infuso utilizzando la pianta di pervinca in un litro d'acqua. Filtrare e lasciare raffreddare. Berne un bicchierino tre volte al giorno.

La pervinca, nome che deriverebbe secondo la Borio dal latino «vincire», che vuoI dire legare, avvincere, sarebbe stata utilizzata sin dal Medioevo per le sue proprietà terapeutiche, ma anche come componente essenziale nei filtri d'amore.
Di fatto le sue foglie hanno ottime proprietà antidiabetiche.

 

- Per il Diabete: Caffè di noci.
Tostare delle noci, sminuzzarle e procedere come per un normale caffè.

Anche il noce è una pianta alla quale in passato si accreditavano forti poteri magici. In fitoterapia, solitamente non si utilizza la parte interna del frutto ma solamente la foglia, il mallo e, più raramente, il fiore e la corteccia dei rami giovani. L'uso antidiabetico di questa pianta appartiene anch'esso alla tradizione occidentale.

 

- Per le ferite 

Per pulire le ferite si usa la plantago major fresca. La foglia viene appoggiata sulla ferita per qualche minuto.

Le foglie di plantago major, nota, insieme alla «lanceolata» e alla «media», col nome di piantaggine, vengono comunemente utilizzate come ottimo medicamento non solo per le ferite ma anche per le ulcere.

- Contro l'epilessia e le convulsioni.
Due manciate di foglie di vischio, 1 l. di vino bianco secco. Mettere in un vaso di argilla coperto da un tappo di sughero i due composti, lasciare macerare il tempo di una luna. Berne due bicchieri a digiuno ogni giorno sino a terminare il contenuto.

Il vischio, arbusto semiparassita considerato sacro in tutto il Nord-Europa, dove secondo il Poletti entrava nelle liturgie dei sacerdoti druidici che lo coglievano con una falce d'oro nelle notti di plenilunio, contiene principi attivi sedativi e antispasmodici che interessano il sistema nervoso centrale.
Insieme alle ricette suddescritte, che appaiono indubbiamente efficaci e molto simili ai tradizionali rimedi fitoterapici conosciuti, la ricerca di Ciravegna e Maroni ne riporta altre la cui utilità appare dubbia. Vale comunque la pena di conoscerle.

- Contro la tubercolosi.
Prendere uno o due serpenti, purché non velenosi. Li si ammazza, li si pone su una griglia al sole. Il grasso del serpente cade e viene raccolto. Generalmente viene mangiato spalmato su una fetta di pane. Si esegue l'operazione per 40 giorni.

- Per rafforzare le unghie.
3 kg. di ossa di bue, 2 cipolle, chiodi di garofano, timo, lauro, prezzemolo. Prendere 3 kg di ossa di bue, metterli in una capace pentola con acqua, far bollire senza sale per 4 ore con gli altri ingredienti.
Durante la cottura aggiungere pian piano altra acqua bollente. Dopo circa 4 ore ritirare, lasciare raffreddare, filtrare. Salare e riporre in piccoli vasi di arenaria. Lasciare raffreddare e tenere al fresco. È necessario berne 3 cucchiai al giorno.

- Contro il mal di pancia dei bambini.
Stendere sulla pancia del bambino un panno imbevuto di grappa e acqua.


In conclusione di questo breve capitolo sui rimedi della medicina popolare zingara è bene ricordare che anch'essa varia, così come è nell'ordine delle cose, da gruppo a gruppo, da nazione a nazione. Contro ogni cedimento alla tentazione di trovare in essa aspetti esotici o folkloristici, resta da dire che, tutto sommato, i suoi rimedi ricordano, nel bene e nel male, la gran parte di quelli utilizzati in ogni altro approccio popolare al problema della malattia.
Rimedi che oggi, spurgati da aloni magico-religiosi e da ritualità di contorno, siamo abituati ad acquistare in erboristeria, imparando, noi stessi, a scegliere ciò che riteniamo più utile per la nostra salute.

 

Capitolo dodicesimo: gli Zingari in Italia

Un cane affamato dà fastidio alla pace dell'uomo

Dal Nord e dal Sud

Oggi è possibile disegnare con sufficiente precisione la mappa della presenza zingara in Italia, anche se ancora esistono differenti ipotesi su alcuni gruppi considerati da tal uni studiosi ancora nomadi e da tal altri seminomadi o semi sedentarizzati, anche se questi termini hanno valori assai relativi.
Sembra invece assai più difficile ricostruire con esattezza date e tappe delle prime immigrazioni.
Secondo Leonardo Piasere, noto antropologo che ha vissuto in alcuni gruppi zingari e che quindi ha potuto studiare dall'interno la vita nomade, approfondendo più avanti anche altre tematiche relative alla storia di questo popolo, «... il primo popolamento zingaro in Italia si è sviluppato lungo almeno due direttrici, una in provenienza da nord e una da sud, in un periodo all'incirca contemporaneo tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV».
Non è da escludere comunque che la data di arrivo sia addirittura precedente, ma le poche tracce documentali non offrono alcuna certezza su questa ipotesi.
Alcuni gruppi zingari che oggi vivono nel Sud dell'Italia (Abruzzo, Molise, Puglie, Basilicata, Campania e Calabria), pare siano arrivati via mare dalle zone della penisola balcanica di lingua greca.
Lo storico Masciotta ha scritto, in relazione agli Zingari molisani, che «Gli Zingari nostrani detti pure un tempo gizzi o egizi, denunciano l'origine levantina e sono indigeni del tutto da secoli. (00') Ielsi, nei più vetusti diplomi feudali, è detta Gittia o Terra Giptia in quelli del secolo XV».
Sulla direttrice Nord la data d'arrivo della prima carovana è invece datata con precisione: nel 1422 il Duca Andrea entra a Bologna e precede, coi suoi numerosi spostamenti nella penisola (fra i quali quello che forse l'ha condotto a Roma), gli altri gruppi armati di lettere e raccomandazioni imperiali e papali che si propagarono in tutta l'Italia settentrionale. Col passare dei secoli il flusso immigratorio degli Zingari (così come gli spostamenti dei gruppi «italianizzati») seguì il corso degli eventi repressivi, dei bandi che ne provocavano la fuga, delle guerre e delle carestie che li spingevano a cercare territori più adatti alla sopravvivenza.
Sul finire dell'800 alcuni gruppi di Calderai, provenienti forse dall'Ungheria, attraversano il confine tra Italia e Francia: in epoca moderna è stato certamente più agevole stabilire la provenienza e l'origine dei nuovi gruppi che si addentravano nel nostro Paese.
Un altro consistente flusso è quello che si manifesta alla fine della Prima Guerra Mondiale, da Nord e da Est arrivano gli Zingari tedeschi e slavi che si stabiliscono, con forme di nomadizzazione circoscritte a territori non molto ampi, nelle regioni del Nord Italia.
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, quando in qualche modo l'esercito italiano riuscì a- strappare ai tedeschi e agli Ustascia croati un gran numero di persone destinate ai Campi di Concentramento (con furibonde diatribe politico-burocratiche che gli italiani usarono, una volta tanto, a proposito), si viene a creare un altro flusso, definito da alcuni studiosi «di deportazione».
Nello stesso momento, secondo le statistiche compilate da Kenrick e Puxon, 25.000 Zingari vengono deportati dall'Italia verso la Germania e le altre nazioni dove il nazionalsocialismo ha decretato, con i campi di sterminio, l'eliminazione delle «razze inferiori».
A partire dagli anni '60 si sviluppa ancora un'altra ondata migratoria, questa volta dal Sud della Jugoslavia. Un' ondata che non si è mai arrestata e che, a partire dai primi mesi del 1992, si è fatta molto più intensa a causa dello spappolamento della ex-repubblica federale e della guerra in corso.
Secondo Jovanovich Misho, delegato per l'Italia alla Romani Union, già nel gennaio 1992 quindicimila Zingari avevano abbandonato precipitosamente la terra d' origine4.
Le testimonianze dirette di questi ultimissimi immigrati dicono di un esodo di notevolissime proporzioni: Zingari montenegrini e serbi spaventati dall'ipotesi di essere richiamati alle armi in una guerra fratricida, così come Zingari bosniaci, croati e sloveni, si stanno riversando in Italia.
Spesso, pur trattandosi a tutti gli effetti di profughi di guerra, le autorità italiane non riconoscono loro questo «status», anche perché la maggior parte di essi non si è fatta registrare negli appositi punti di controllo organizzati alla frontiera slovena.
Anche se questi arrivi dovessero continuare a farsi via via più numerosi, resterà difficile ipotizzare se e in che modo essi potranno variare la geografia degli insediamenti in Italia.
Una geografia che ancora oggi sembra rispecchiare, per grandi linee, le direzioni di marcia dei grandi flussi dal Nord e dal Sud di antica data. A questi insediamenti, ma sarebbe meglio dire a queste zone d'interesse, l'ondata sovrappostasi a partire dagli anni' 60 si è caratterizzata invece con un diverso modo di nomadizzare all'interno di tutta la penisola. Meno circoscritto, quindi, a determinate regioni e, secondo Piasere, più caotico e generalizzato.
Questi Zingari di recente immigrazione proverrebbero, a detta di Mirella Karpati, oltre che dalla Jugoslavia, anche dalla Romania (i Rudari) e dalla Polonia (i Lovara)5.
Oggi, secondo Carla Osella, il numero complessivo degli Zingari in Italia sarebbe di 60/80.000 unità. Secondo Mirella Karpati invece arriverebbero ad un massimo di 60.000 persone, delle quali almeno 35.000 di antico insediamento nel Sud.
È probabile che - questo è il parere di Leonardo Piasere - il numero degli Zingari insediati nelle regioni meridionali, ma anche di quelli insediati in altre parti d'Italia, sia superiore a quello indicato dalla Karpati e in ogni caso un nuovo aggiornamento andrà fatto dopo gli ultimissimi arrivi dalla ex-Jugoslavia.
Piasere ha costruito una mappa precisa della geografia zingara nel nostro Paese, anche se avverte che «La pochezza delle ricerche svolte in Italia presso queste popolazioni non permette nemmeno di dare un quadro rigoroso di come esse stesse si auto-denomino».
Queste le denominazioni proposte dallo studioso (vedi le dislocazioni sulla cartina costruita dallo stesso Piasere e rielaborata graficamente per questa pubblicazione):
- Antico insediamento:
a) Sinti piemontesi b) Sinti l0mbardi c) Sinti mucini d) Sinti emiljani e) Sinti Veneti f) Sinti markigiani g) Sinti gackane h) Sinti estrexarja i) Sinti kranarja j) Sinti krasarja k) Rom abrutsezi l) Rom kalabrézi m) Romje celentani n) Romje bazalisk o) Romje puljézi                                                                                                                        - A partire dalla fine del XIX sec.:
p) Rom kalders q) Rom lovara r) Roma curara                                                         - Dopo la I guerra mondiale:                                                                                    s) slovénsko Roma t) h(e)rvansko Roma u) istrjani Roma o Romine                          - Arrivo recente:                                                                                                      v) dassikané Roma w) xoraxané Roma x) Rumuni o Rudari y) Kaulfa - D'origine autoctona z) Kamminanti.

I Kamminanti sarebbero un gruppo di origine siciliana di cui si sa molto poco.
I Rudari, chiamati anche Rumuni (rumeni), sono un gruppo particolare perché non parlano alcun dialetto zingaro. I Kaulfa proverrebbero dall'lrak e sarebbero giunti in Italia attraverso l'Africa del Nord, la Spagna e la Francia.
Oltre questi gruppi l'antropologo cita poi altri Nomadi che non si riconoscono come gruppo e che viaggiano individualmente. Essi vengono chiamati dai Sinti «Pirdi» o «Pirde».
Tra i diversi accorpamenti esistono poi relazioni di affinità o di estraneità assai varie. I gagé farebbero parte del mondo dei Sinti più dei Rom e più dei Roma, come, per i Roma, essi sarebbero più importanti dei Sinti e dei Rom.
Certi gruppi si distinguerebbero da altri di cui portano ]0 stesso nome con l'aggiunta di un etonimo non zingaro che non sarebbe un vero e proprio toponimo (es. Sinti «lombardi»), ma che farebbe invece riferimento ai rapporti stabiliti con un determinato territorio e con la sua gente.
Qualche esempio:
- Sinti piemontesi (Piemonte) - Sinti veneti (V eneto) - Sinti estrexarja (Austria = Osterreich) - Sinti gackane (in Sinto: Gackeno = Germania) - Roma hervansko (Croazia: hrvatski, agg.) - Roma xoraxané (in romané: Xoraxaj =T urco) - Roma dassikané (in romané: Dass = Serbia).                                                                      Esiste poi un'altra differenziazione che in Italia riguarda eslusivamente i Rom Vlax (secondo la distinzione di Bernard Gilliat-Smith in vlax e non vlax) (vlax = valacchia). Essa si basa sulle attività lavorative originali, e oggi per la buona parte estinte, di determinati gruppi:
- Kalderas = calderai (dal rumeno dialettale) - lovara = commercianti di cavalli (dall'ungherese) - curara = fabbricanti di setacci (dal rumeno).
Una diversa c1assificazione è quella fatta dall'etnologo belga Luc de Heusch, che « ...poggia le sue argomentazioni principalmente sulla differenza tra Zingari nomadi, che tutt'ora conducono una vita nomade, e sedentari o semisedentari. Il de Heusc escludendo arbitrariamente questi ultimi, sostiene che i primi si suddividono in cinque classi sociali, "rassa", come egli le definisce, i Lovara, i Ciurara, i Kalderasha, i Matshvaya e i Sinti (o Manosh). Tutte insieme le classi costituirebbero i Roma, i veri Zingari, e la classificazione implicherebbe una rigida scala di prestigio e subordinazione dal meno nobile al più nobile».
Questa ipotesi di classificazione non trova d'accordo l'assoluta maggioranza degli ziganologi, sia per la distinzione in nomadi, sedentari e semisedentari, e sia per la divisione in classi sociali differenti, che sembra proiettare sull' organizzazione etnica zingara le divisioni classiste della società gagé occidentale.
Leonardo Piasere, nel corso di un seminario tenuto all'Università di Cagliari, ha affermato: «Il mio parere di antropologo è che la distinzione tra nomade sedentario e zingaro non ha assolutamente senso perché non sl!iega praticamente niente dell'organizzazione sociale delle singole comunità. E storicamente accertato, ve lo assicuro perché l'ho accertato io, che vi sono dei gruppi che negli ultimi cento, centocinquanta anni hanno vissuto a scadenze regolari fasi di nomadismo e di sedentarizzazione...».

Sinti, Roma, Rom, Roma, Rom-Romje

I Sinti sono un gruppo che parla un dialetto ricco di influenze linguistiche germaniche che rappresenterebbe il ramo meridionale dei diversi dialetti utilizzati in una parte dell'Europa centrale. Secondo Sergio Franzese, che ha pubblicato un glossario Sinto-Italiano, il dialetto di alcuni gruppi Sinti corre oggi il rischio di estinguersi sotto la spinta di un progressivo deterioramento: è questo il caso dei Sinti Piemontesi.
I Sinti, praticamente presenti in tutta l'Italia e in via di definitiva sedentarizzazione, sono originari dei primi grandi flussi provenienti dal Nord. Tradizionalmente hanno quasi sempre svolto attività lavorative legate in un modo o nell' altro allo spettacolo: musicisti, acrobati, attori di piazza, ammaestratori di animali, ballerini e giocolieri.
Fondatori di diverse dinastie circensi, hanno incontrato una grave crisi a partire dal dopoguerra e soprattutto dal momento in cui il boom economico degli anni '60 ha stravolto i vecchi canoni dello spettacolo: cinema, ma soprattutto televisione, hanno via via assottigliato gli spazi e il pubblico una volta propri delle performances di piazza.
Un altro duro colpo è venuto per i Sinti dallo svilupparsi su grande scala dei Luna Park e dei Circhi: le nuove leggi che impongono una serie di licenze, permessi di occupazione del suolo pubblico e altri inghippi di natura burocratica, hanno portato alla chiusura di numerose piccole attività. L'obbligata riconversione delle attività lavorative ha permesso ad alcuni di continuare il proprio lavoro nell' ambito dello spettacolo, per esempio con la gestione delle giostre, e ha costretto altri a dedicarsi ad attività del tutto nuove, come le «chine», il commercio porta a porta di articoli di varia natura.
Mario Paschini, un Sinto giostraio, ha detto che «... come tanti altri Sin ti, sono passato anni fa dal commercio porta a porta di piccola merceria all'acquisto, per pochi soldi, di una giostra come questa (il "calcio", con i sedili fissati a catene pendenti NdA). Il grosso problema è che, per lavorare bene occorrerebbe una giostra nuova. (...) Oggi un Sinto giostraio non può spostarsi a caso. Occorre sempre prendere contatti in anticipo e garantire la presenza.
La libertà di spostamento è finita».
E così, con le parole di Leonardo Piasere: «La dicotomia tra periodo invernale (sosta prolungata) e resto dell'anno (nomadismo) rimane discriminante, ma a differenza di un tempo si tende a passare il periodo invernale nello stesso posto, dove si ha la possibilità di riparare gli impianti e di mandare i figli a scuola, mentre il nomadismo assume un andamento più organizzato e ordinato. (...) la gioia del nomadismo sta per essere distrutta dal nomadismo di mestiere anonimo, sempre più nuclearizzato e organizzato secondo i nostri canoni di ordine».
Come lo spettacolo era l'attività tradizionale dei Sinti, così il commercio degli equini era quello dei Roma, oggi presenti soprattutto nell'Italia del NordEst. Altra loro attività era la questua.
L'attività del commercio è andata però estinguendosi alcuni decenni orsono, quando il cavallo, da animale necessario soprattutto nel mondo agropastorate, è diventato semplice prodotto da macelleria o passatempo più o meno d'élite per le classi sociali medio-alte.
I Roma, che la Karpati ha chiamato Sinti sloveni, sono presenti anche nel Lazio. Dediti oggi soprattutto ad attività legate al commercio, come la compravendita di ferrame, limitano il proprio nomadismo ad aree solitamente ristrette e aventi come basi determinate città e il loro territorio.
Ciò non può non provocare una tendenza alla sedentarizzazione. A detta di Piasere: «Ad essere pignoli, se si dovesse descrivere con precisione la composizione di un gruppo locale, si dovrebbe dire che esso è di solito costituito da un insieme di famiglie imparentate in un certo modo, più uno o due gagé (missionari, operatori sociali, insegnanti, studenti, ricercatori) che, come le altre famiglie, sono presenti in modo più o meno fluttuante».
I gruppi Rom sono invece presenti in Italia in numero relativamente basso.
A prescindere da qualche isolato gruppo che vivrebbe in condizioni precarie nelle baraccopoli, una gran parte di essi, i Kalderas, continua ad esercitare l'attività del lavoro dei metalli, cercando commesse presso i ristoranti, le mense, gli alberghi, ecc. Pare che siano ancora estremamente legati alla tradizione e per questo motivo, per la paura cioè di smarrire la propria identità culturale, solitamente rifiutano la scolarizzazione e tengono vivi i rapporti tra i diversi gruppi, sottomettendosi a volte alle fatiche di estenuanti viaggi all'estero per mantenere saldi questi rapporti.            Gli Zingari del Meridione d'Italia, i Rom/Romje ormai sedentarizzati, sono, a parere di molti, ancora sconosciuti. Provenienti dalla direttrice sud delle antiche immigrazioni del XIV e XV secolo, avrebbero mutato abitudini e a volte smarrito anche l'uso della lingua originale.
Il dialetto dei Rom calabrézi sarebbe, secondo Franzese, ormai deteriorato in modo irreversibile. In generale le parlate degli Zingari meridionali di antico insediamento sarebbero state influenzate considerevolmente dall' italiano dialettale locale.
Nomadi sino a trenta, quarant'anni orsono, pare che oggi abbiano assimilato la tendenza alla sedentarizzazione, anche se piccoli gruppi abruzzesi nomadizzano ancora nel corso dell' estate. La realtà di questi gruppi zingari resta ancora molto varia: c'è chi ormai abita in case ampie e confortevoli e chi vive invece in autentici ghetti, subendo probabilmente un' emarginazione più cruenta di quella vissuta nella fase del nomadismo. C'è chi ancora lavora i metalli, chi commercia in cavalli, chi lavora come manovale nei cantieri edili e chi ha scelto la strada dell'emigrazione verso le aree più industrializzate dell'Italia settentrionale e della Germania.
I Roma, gli Zingari dell'ultima immigrazione, sono i più poveri in assoluto e vivono situazioni al limite del razzismo più becero; spesso, più spesso di quanto non si creda, sono malvisti anche dagli altri Zingari.
Sono presenti in Italia dalla Sicilia al Piemonte e vivono di solito nelle baraccopoli costruite nelle più degradate periferie urbane, veri lazzaretti nei quali i livelli di vita sono spesso al di sotto dell'umanamente sopportabile. I Roma sono quasi tutti di origine jugoslava e sono quelli il cui nomadismo nel nostro Paese è solitamente dettato dai ritmi scanditi dalle ordinanze di sgombero emesse dalle amministrazioni locali.
Sono Roma gli Zingari Xoraxané e Dassikané presenti in Sardegna.
Questa classificazione e descrizione dei diversi gruppi, tratta dagli studi di Leonardo Piasere, non è l'unica: è opportuno ricordare che altre denominazioni sono state e sono tutt' ora utilizzate da altri ricercatori. Per esempio gli Zingari cristiano-ortodossi provenienti dalla Serbia e dalla Macedonia, e presenti in molte regioni d'Italia, sono chiamati anche Kanarja, anche se questo termine, che non è un'autodenominazione, non è ben accetto da diversi gruppi così chiamati.
Alcuni altri studiosi di «cose zingare», come 1'antropologo Claudio Marta, notando la ormai consolidata tendenza a denominare Rom tutti gli Zingari, si è adeguato a tale tendenza in numerosi suoi interventi.

Un difficile rapporto di convivenza

Claudio Marta, l'antropologo dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli che ha prodotto diversi studi sugli Zingari Lovara, riassumendo nel corso di un convegno le politiche occidentali nei confronti dei Nomadi, ha detto che, anche in Italia, sembra esistere una: «... politica che sembra concedere una relativa libertà di circolazione ai Rom ma che, per la mancanza di un serio impegno di risoluzione del problema dell'integrazione, finisce per caratterizzarsi come cieca e, spesso, addirittura repressi va nei confronti dei Rom».
Secondo lo studioso i problemi degli Zingari residenti nel nostro Paese sono anche di natura giuridica e si dividono in due ordini differenti: quelli relativi ai Rom italiani e quelli relativi ai Rom stranieri.
Gli Zingari italiani, sia quelli ancora nomadi che quelli sedentarizzati o in via di sedentarizzazione, incontrano problemi di ogni tipo, alimentato da un sentimento xenofobo latente nelle popolazioni italiane, che si manifesta con l'ostruzionismo burocratico e il difficile accesso a quei diritti elementari che la Costituzione italiana ha sancito anche per loro.
In questo senso esisterebbero difficoltà nel reperimento dell' abitazione, nell'iscrizione anagrafica, nel diritto al lavoro, all'assistenza sanitaria, ad un'istruzione che ne rispetti e ne valorizzi la specificità culturale di provenienza.
Gli Zingari che hanno ottenuto delle abitazioni continuano di fatto a vivere nell'isolamento, in una marginalità sociale ed economica che insiste a fame, nel senso deteriore del termine, dei «diversi».
Quelli che ancora praticano il nomadismo vanno a volte incontro ad episodi d'intolleranza simili a quelli di cui sono vittime gli Zingari di recente ImmIgrazIOne.
La situazione di questi ultimi è però sicuramente ben peggiore. Ad essi viene negato praticamente ogni diritto sancito sia dalle leggi italiane che dagli accordi internazionali.
A prescindere da qualche sporadico caso verificatosi in piccoli comuni dell'Italia meridionale, solitamente viene negata loro l'iscrizione alle liste anagrafiche e la possibilità di sostare a lungo nei centri urbani. Sino a pochi anni orsono, ma succede qualche volta anche oggi, era assolutamente normale che gli organi di polizia piombassero senza preavviso nei Campi e ne ordinassero la distruzione, allontanando in mal o modo i Nomadi dalle città.
L'ultima Legge Martelli sul permesso di soggiorno agli immigrati extracomunitari ha peggiorato ulteriormente una situazione già di per sé difficile, nel senso che oggi solo chi può comprovare un reddito annuo pari a quello delle pensioni minime italiane può restare, in teoria, nel nostro Paese.
Paradossalmente gli Zingari di recentissima immigrazione, quelli provenienti dalla ex-Jugoslavia in guerra, sono protetti dalle misure di espulsione proprio dal conflitto che sta distruggendo i loro Paesi di origine: nessuno sinora si è sentito di applicare rigidamente le norme e di rispedirli così nel caos.
Sui problemi di questa emarginazione così marcata agiscono in Italia diverse Associazioni, solitamente composte da volontari, operatori sociali, insegnanti e religiosi, che, a forza di battere e di ribattere, hanno ottenuto tra le altre cose anche qualche provvedimento legislativo di buona fattura: diverse regioni italiane hanno provveduto ad emanare specifiche leggi tese a tutelare 1'etnia zIngara.
Di fatto però il rapporto Zingari-non zingari, come in passato, resta «bloccato» su una sequenza di comportamenti destinati a perpetuarsi nel tempo e quindi a divenire/ridivenire regola.
L'ostracismo manifestato dalle amministrazioni comunali rispecchia, una volta tanto in un'Italia di fine secolo che vive lo scollamento tra elettori e amministratori come un fatto culturale ormai endemico, il reale atteggiamento della gente, che quasi sempre è poco comprensivo ed ostile.
Il problema degli amministratori diventa così più spesso non quello di come fare per applicare le leggi, ma di come fare per non applicarle: il tutto finalizzato a non provocare le ire dei propri elettori così poco disponibili all'idea che parte di denaro pubblico venga investito a favore dei Nomadi.
L'arte della gestione della cosa pubblica si esprime in questo caso in modo spettacolare e furbesco.
Da una parte si mantengono sufficienti rapporti con le Associazioni che tutelano i Nomadi, delegando questi rapporti agli organi di assistenza sociale e magari finanziando progetti di tipo culturale (convegni, progetti educativi, mostre artigianali) o attrezzando punti sosta ben al di fuori dei centri abitati. Il tutto dando grande risalto a queste iniziative marginali e assicurandosi così i fasti della politica spettacolo.
Dall'altra parte si utilizza l'abnorme groviglio legislativo-burocratico italiano (con competenze che vanno dagli uffici tecnici comunali a quelli dell' anagrafe, dalle USL ai Vigili Urbani, dalle Camere di commercio agli Uffici «stranieri» delle questure) per impedire di fatto una vita di relazione che non sia improntata sull' emarginazione più abietta.
L'Italia resta il Paese dove si possono pubblicare mille libri sugli Zingari, dove si possono organizzare mille convegni, mille seminari all'interno delle Università, mille trasmissioni televisive e mille mostre artigianali, ma è anche il Paese nel quale uno Zingaro non riesce ad ottenere il permesso di soggiorno, l'iscrizione anagrafica, l'assistenza sanitaria, la licenza di commercio, il permesso di fermarsi dove, come e per quanto tempo vuole in una qualsiasi locali. È questo è possibile proprio perché il rapporto tra i gagé e gli Zingari, checché se ne dica, è ancora un rapporto di guerra, mediato certo dalla presenza del volontariato religioso e laico, ma pur sempre un rapporto di guerra.
Ciò che gli Zingari dicono, chiedono e fanno non è accettato dalla nostra gente e ciò che la nostra gente dice, chiede e fa, non è accettato (come potrebbe?) dagli Zingari.
In questa reciproca estraneità, alimentata da sei secoli di fobie, pregiudizi e persecuzioni, ma anche da una marginalità economica di nuovo tipo che probabilmente sta ridisegnando la vita nomade nelle società post-industriali, il futuro di questo popolo appare sempre più incerto e problematico.

Appendice: intervista a Leonardo Piasere

Il prof. Leonardo Piasere, antropologo, è uno dei maggiori conoscitori della vita zingara in Italia. Una conoscenza che non si è evoluta a tavolino ma che è iniziata all'interno dei Campi, dove, allora giovane studente, visse con gli Zingari la loro stessa vita e conobbe di prima mano usi, costumi e tradizioni spesso vietate agli occhi degli estranei.
Questa intervista, rilasciata a Dafne Turillazzi per la trasmissione radiofonica Ethnos, trasmessa da Radio Sardegna, è stata da egli stesso rivista e adattata per la pubblicazione in La terza metà del cielo.

Prof. Piasere, direi di iniziare questo breve viaggio tra i popoli nomadi illustrando innanzi tutto che cosa comprende, comunemente, il termine "Zingari", ossia quante comunità esistono e, per quanto riguarda l'Italia, dove esse sono dislocate...

Questa è la classica domanda a cui è molto difficile rispondere, perché il termine "zingaro" è un termine che viene dato dall'esterno ad un insieme di popolazioni e, dal momento che le popolazioni così denominate normalmente non accettano questo termine, il suo uso è questione di convenzione. Un po' come usare il termine "crucchi" per le popolazioni del Nord Europa. Chi sono i "crucchi"? Sono un 'insieme di popolazioni che noi definiamo così. Ma dal momento che il termine ha una connotazione negativa, gli interessati, di norma, non vogliono essere definiti in questo modo.
Molto in generale, si può dire che quelli che noi chiamiamo Zingari comprendono un insieme di popolazioni parlanti lingue di origine neo-indiana e un insieme di popolazioni non parlanti lingue di origine neo-indiana. Questi due grandi insiemi condividono caratteristiche di vita particolari. Caratteristiche segnate per esempio dal nomadismo, in certe regioni d'Europa, e da altri tratti culturali in altre regioni. Perché una caratteristica da sottolineare, in quelli che noi chiamiamo Zingari, è che essi sono per la stragrande maggioranza sedentari e non nomadi.

Quindi avrebbero abbandonato la caratteristica fondamentale dello spostamento?

E' difficile dire se abbiano abbandonato o se abbiano sempre praticato il nomadismo. Sta di fatto che oggi non sono nomadi, ed è molto difficile dire se un tempo lo siano stati.

Tornando alla domanda iniziale, brevemente, possiamo schematizzare a grandi linee quali sono queste comunità? Noi conosciamo maggiormente i Rom, perché li conosciamo direttamente. Poi immagino che ve ne siano molte altre...

Sì. Le comunità Rom, tra quelle che noi chiamiamo zingare, sono senz'altro le comunità più numerose in tutta Europa. Sono concentrate soprattutto nell'Est Europa, oltre la linea immaginaria che va da Roma a Helsinki. Nella parte occidentale d'Europa abbiamo comunità che si definiscono altrimenti, come ad esempio i Sinti, i Manus, i Kalé della Spagna o del Galles (questi ultimi in via di estinzione). All'interno dell'Europa occidentale ci sono anche popolazioni che non parlano lingue neo-indiane, come ad esempio i Voyageurs francesi, gli Jenis tedeschi, i Minceir irlandesi, i Tattaren della penisola scandinava, che pure sono considerati "Zingari" dalle popolazioni locali. Nella letteratura specializzata degli ultimi anni è invalso l'uso di denominare "Zingari" solo le popolazioni che si ritengono originarie dell'India e "Viaggianti"solo quelle di origine autoctona. Ma una netta divisione è spesso impossibile da stabilire.

Per quanto riguarda la religione, qual è quella più sviluppata tra i Nomadi?

La caratteristica principale degli Zingari è che normalmente adottano la religione delle popolazioni non zingare fra cui vivono. Per cui nei Paesi musulmani, come in certe regioni dei Balcani, essi sono musulmani (gli Zingari della Bosnia, della Macedonia e del Kosovo) e restano in sintonia con le religioni dominanti in quei territori. Nel Nord Europa sono protestanti, in Serbia sono ortodossi, in Italia, i Spagna e in Francia sono cattolici e così via. Da segnalare che negli ultimi anni ha preso piede la Chiesa Evangelica, che sta facendo adepti zingari un po' ovunque in Europa.

Una suddivisione importante tra le varie comunità di Nomadi credo sia, oltre quella religiosa, anche quella basata sulla ricchezza, cioè sulle risorse economiche degli Zingari. Possiamo spiegare quali comunità sono più o meno ricche? Il perché e quali valori comprendono la povertà o la ricchezza delle comunità? Quelle più ricche si avvicinano maggiormente ai nostri valori di vita oppure mantengono intatte le loro caratteristiche, anche se in condizioni economiche diverse?

Non credo che si possa stabilire un confronto in questo senso. E le spiego
subito il perché. Da noi la ricchezza e il benessere sono collegati all'appartenenza ad una classe sociale. Fra gli Zingari non esistono le classi sociali come noi le intendiamo. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quelle tra i sessi, tra maschi e femmine, e un po' meno quelle relative alle diverse età. Vi possono essere comunque degli Zingari più ricchi o più poveri, ma la ricchezza o la povertà sono sempre congiunturali, causate dal momento, perché i modelli di distribuzione delle risorse all'interno delle comunità seguono canali egualitari. Per cui quando vi è accumulazione di ricchezza all'interno di una famiglia il tentativo non è quello di consumare quanto accumulato al suo interno, ma di distribuirlo. Per cui lo Zingaro oggi ricchissimo, all'indomani può essere veramente povero e vi assicuro che spesso succede veramente così...

Noi ad esempio, qua a Cagliari, abbiamo visto poco tempo fa l'arrivo dei Lovara, molto ricchi rispetto agli Zingari che siamo abituati a vedere nelle nostre periferie, cioè i Rom...

Che ci siano dei gruppi che attuino delle strategie verso l'esterno più efficienti dal punto di vista del guadagno personale è senz'altro vero. D'altra parte i confronti tra Zingari ricchi e Zingari poveri intersecano parzialmente i confini dei gruppi. E vero quindi che i Lovara, a partire dagli ultimi venti, trent'anni, sono riusciti ad arricchirsi, anche se il discorso forse non vale per tutte le famiglie. Ciò è successo perché ad un certo punto sono riusciti a praticare strategie economiche vincenti.

Sono cambiati i loro valori di vita, in rapporto a questa maggiore ricchezza?

Dipende dalle comunità. In certe comunità sì, in altre no. E' difficile generalizzare da questo punto di vista. Comunque, normalmente, diciamo a livello statistico, quello che conta è la singola comunità. Ma soprattutto ciò che conta è che all'interno delle comunità non si creino disuguaglianze, perché la tensione principale è quella di mantenere un'uguaglianza che non permetta la formazione di capi veri e propri.

Comunque, all'interno delle comunità, i capì ci sono?

Non ci sono capi all'interno della comunità. Ci sono certo dei leaders che possono essere considerati più prestigiosi degli altri, ma il loro prestigio dipende dalle proprie singole capacità. Non sono investiti di potere da parte della comunità, questo no, assolutamente...

In questo discorso che ruolo ha l'anziano? E' considerato di più rispetto ai giovani?

Sì, l'anzianità normalmente ha più prestigio. Ma l'anziano che fa degli errori perde il proprio prestigio. Voglio dire che dipende sempre dai comportamenti reali.
Nella famiglia nucleare, che è sempre spinta all'autonomia, il prestigio viene conquistato dal capofamiglia per quello che realmente fa in realtà e non tanto perché riesce ad imporre la propria volontà su altre persone.

Mi sembra di capire che in questa sua situazione in pratica acquista più autonomia e potere decisionale. Da questo punto di vista le donne hanno possibilità di emancipazione all'interno della famiglia? Di potere decisionale?

Bisogna vedere come s'intende il termine "emancipazione". C'è il rischio di voler trapiantare i nostri valori, i nostri concetti, in situazioni un diverse. Che all'interno delle comunità zingare vi sia una divisione tra i gruppi maschile e femminile, è certo. Più o meno tutti i gruppi zingari presentano questa grande dicotomia. Che i maschi adulti abbiano da questo punto di vista più potere delle donne, è anche questo sicuro. All'interno della famiglia il ruolo della donna è però fondamentale, importante dal punto di vista della conduzione familiare. In tanti gruppi sono di fatto le donne di famiglia, le mogli, che danno le direttive di azione, anche se ufficialmente, per l'esterno, è sempre il maschio che fa la figura del capofamiglia. Molto spesso vi sono delle forti personalità, senza che questo porti a quel fantomatico matriarcato degli Zingari che qualcuno ha voluto vedere.

Che rapporti hanno i Nomadi con la città? I nomadi accampati nelle periferie? Rispetto anche ai valori che si possono assimilare dalla città?

Normalmente, per gli Zingari, i non zingari circostanti costituiscono grosso modo l'ambiente su cui operare. Il fenomeno dell'urbanizzazione degli Zingari, intensificatosi in molti Paesi dell'Europa occidentale egli ultimi quaranta, cinquant'anni, ha seguito grosso modo il fenomeno dell'urbanizzazione della popolazione non zingara. Quindi, da questo punto di vista, non possiamo dire che il rapporto tra Zingari e non zingari sia cambiato. E' cambiato soltanto semmai, in rapporto alle condizioni di vita sia degli uni che degli altri: tutti si sono inurbati con un'azione intensiva.
Ci sono dei casi di Zingari e famiglie zingare che si sono inurbate e vivono in modo tranquillo, e ci sono casi di famiglie e di comunità di Zingari che si sono inurbati in modo non tranquillo, ad esempio nelle periferie desolate delle nostre città, così come è avvenuto per i non zingari.

Lei ha vissuto per alcuni anni all'interno di vari Campi nomadi. Ci vuole raccontare la sua esperienza? Come si è svolta? Ha incontrato problemi? E' stato accettato subito?

La mia esperienza si è sviluppata soprattutto presso due diversi gruppi, in un gruppo di Roma xoraxané e in un gruppo di Roma sloveni, cioè proveniente dalla Slovenia ma che vivono in Italia.
I due gruppi sono molto diversi dal punto di vista sociale e culturale. I Xoraxane sono un grande gruppo venuto in Italia dal Sud della Jugoslavia a partire dagli anni '60. Quando io sono entrato nella comunità alla fine degli anni '70, e sono andato a vivere con loro, erano da poco in Italia: quindi avevano problemi di tipo linguistico e giuridico. I Roma sloveni invece sono qui da una cinquantina di anni, sono già più o meno alla terza generazione di residenti in Italia e non avevano più questi problemi. I primi sono di religione musulmana, i secondi cattolica.
I primi attuano strategie economiche che da noi sono considerate illegali, soprattutto la mendicità infantile e femminile, i furtarelli etc., quindi hanno sempre problemi di contatti e di scontro con le istituzioni e le autorità. I secondi attuano invece strategie economiche già molto più accettate. Sono commercianti di ferro vecchio, di macchine usate, e un tempo facevano i commercianti di cavalli. Oggi alcuni sono ancora commercianti, ma di cavalli da corsa. Questi secondi rappresentano un esempio di adattamento senz'altro più riuscito o perlomeno più tranquillo. Il fatto che essi siano commercianti non significa però che riescano ad essere sempre in regola, perché per loro è sempre molto difficile ottenere le licenze di commercio, per cui si può dire che anche loro sono fuorilegge sotto molti punti di vista. Hanno comunque dei rapporti di tipo diverso con i non zingari circostanti.
Per parlare del mio ingresso in queste due comunità bisogna tenere presente una situazione più ampia. Le situazioni molto diverse delle due comunità hanno portato ad un inserimento di tipo completamente diverso. Sono stato molto ben accettato dai primi, che non avevano problemi di chiusura verso l'esterno e anzi ricercavano in, qualche modo degli "amici" fra i non zingari italiani. Per gli altri invece, che godevano di una certa floridezza economica e che tutto sommato si erano ben impiantati, e che quindi non avevano il problema di cercare "amici" all'esterno, il mio inserimento non è stato molto tranquillo.

Quali sono stati i problemi iniziali fra i Roma, considerato anche che lei stava lavorando?

Non è che ci siano stati veri problemi, che ti dicano: "no, non ti vogliamo " Perché questo non si dice chiaramente al non zingaro. Però nel momento che tu sei accampato fra loro si fa soltanto pesare la tua presenza, non ti si avvicina, ti si lascia solo. In questo modo, dopo alcune settimane di questa vita, uno è triste...

Lei si è adeguato completamente ai loro modi di vita, nel periodo in cui è vissuto con loro?

Sì. Ho tentato perlomeno...

Questo le ha causato dei problemi?

Certo, lo shock culturale c'è sempre per un ricercatore...

Non era quindi una ricerca a tavolino?

No, assolutamente. D'altra parte gli antropologi che fanno ricerca col metodo dell'osservazione partecipante conoscono bene il problema dello shock culturale del ricercatore: è lui che si deve adattare alla comunità. E non è sempre facile, ci vuole del tempo.

Qual è stata la realtà all'interno dei Campi che l'ha segnata maggiormente, come sua sensazione od emozione personale?

In tutte e due le comunità quello che ho vissuto di più, quello che in qualche modo si è incarnato in me, è il senso della solidarietà interna. Nonostante a volte tra le famiglie possano esservi dei litigi, discussioni di tutti i giorni, c'è un gran senso della solidarietà interna, un senso che noi non conosciamo assolutamente e che si manifesta in mille modi; per esempio tutti sono disposti ad aiutarti nel momento in cui tu hai bisogno. Ad esempio, nel momento in cui io sono stato accettato, ero di fatto mantenuto da loro, perché non avevo borse di studio, non avevo soldi, non avevo niente di mio. Io praticamente sono stato mantenuto da loro. Poi ho cominciato a fare il loro mestiere, che mi hanno insegnato. Poi ho cominciato a conoscere la loro rete di clienti, e così via.

A parte il valore della solidarietà, come sono vissuti valori come "amore" e "fedeltà", rispetto a come sono vissuti da noi?

L'amore tra marito e moglie, tra ragazzi e ragazze? Anche qui le manifestazioni esterne variano da comunità a comunità, da gruppo a gruppo. Comunque è un valore che è sentito moltissimo; certo, la visione della Zingara focosa, ben disponibile verso il non zingaro, è veramente una visione romantica. L'adulterio femminile, anche se la situazione varia da comunità a comunità, resta un caso fuori dalla norma. La fedeltà ha un valore molto sentito soprattutto da parte delle donne; anche qui, come da noi, grosso modo l'ideologia che possiamo chiamare maschilista è certamente presente.

Che importanza hanno per i Nomadi la festa, la musica e la danza. Sono tutt'ora "vive" anche tra quelle comunità urbanizzate?

Direi che anche qui non si può generalizzare, perché non tutti gli Zingari sono abili suonatori, come vuole il cliché dello Zingaro normalmente riconosciuto in Italia. In Italia sono pochi i gruppi in cui, soprattutto gli uomini, fanno i suonatori di professione. Comunque la festa, il momento della festa, è sentito da tutti. Perché la festa è la manifestazione verso l'esterno della coesione interna ed è il momento di massima apertura di una comunità. Nelle feste degli Zingari i non zingari sono sempre ben accolti.

Le feste di solito cosa celebrano?


Dunque, dipende come sempre da comunità a comunità...

Si festeggiano, per esempio, i compleanni? Al di là delle feste religiose?

No, solitamente. Anche se alcuni gruppi hanno cominciato a farlo da un decennio. Ma non sono molto importanti. Normalmente gli Zingari festeggiano, né più né meno, le occasioni rituali che assumono dalle popolazioni circostanti. Ad esempio certi Xoraxané che vengono dal Sud della Jugoslavia festeggiano il San Giorgio, la grande festa del Maggio. Il San Giorgio è una festa molto importante nei Balcani, perché San Giorgio è l'unico santo che è venerato dai cattolici, dagli ortodossi e dai musulmani. I Rom Kalderas presenti nel Nord, ma più o meno sparpagliati in tutta Italia, festeggiano la Slava, che è una festa familiare adottata dai Serbi ortodossi.
I Rom cattolici normalmente festeggiano come noi, né più né meno, il Natale e la Pasqua, dando più importanza (penso ancora ai Roma sloveni) al Capodanno, che per loro è più importante del Natale. Ossia festeggiano le nostre feste, ma ne reinterpretano la funzione.

Generalmente noi siamo abituati a considerare la magia dei Nomadi come frettolose e occasionali "letture" della mano. Invece vorrei sapere se, proprio all'interno del gruppo, si pratica o comunque si crede alla magia, al soprannaturale.


E' sempre difficile fare una distinzione netta tra credenze magiche e religiose. Quindi io rubricherei questa domanda in credenze magico-religiose. Tutti gli Zingari che io ho conosciuto sono ferventi credenti, il che non implica che siano credenti come noi vorremmo o come qualcuno di noi vorrebbe. Tutti credono in esseri o potenze soprannaturali, tutti, siano essi cattolici, musulmani o ortodossi. Presso molti gruppi vi è la credenza su quello che loro chiamano il "rispetto" per i morti. Per cui attuano comportamenti tesi a salvaguardare la memoria di un morto, e questo può comprendere il non pronunciare più il suo nome, il bruciare la carovana appena uno muore, il non mangiare più il piatto preferito del morto, ecc. L'insieme di queste credenze e pratiche caratterizza e distingue le singole comunità le une dalle altre.

Ho parlato con dei Nomadi che raccontavano della "lettura" del caffè...


Sì, questa è una pratica comune ai gruppi provenienti dal Sud della Jugoslavia. La "lettura" del caffè è comune anche fra i non zingari del Sud della Jugoslavia.

In conclusione vorrei che lei ci desse un giudizio sulle molteplici rappresentazioni degli Zingari nel cinema e nella letteratura. Secondo lei sono espressioni puramente folkloristiche, queste, che quindi mistificano un po' ciò che è la vera anima del popolo nomade, oppure possono essere considerati lavori attendibili e non banalmente oleografici?

Sinteticamente: potrei dire che il 99% della produzione artistica e letteraria ci mostra uno zingaro stilizzato, che non ha assolutamente niente a che fare con la realtà zingara. Vi sono però alcune opere in cui gli autori hanno cercato di rappresentare la realtà pur tenendo presente la vena artistica. Penso per esempio all'ultimo film di Kusturiza: la realtà che lui ha tentato di descrivere si avvicina molto alla realtà "vera".

Invece queste forme stilizzate, come lei ha detto prima, in che cosa consistono?


Consistono in un amalgama di stereotipi negativi e positivi di forma un po' ameboide, diciamo così, che si tramandano nella letteratura occidentale di generazione in generazione a partire dal '400. Ad esempio la Zingara che legge il futuro, quando non sono tante le comunità in cui le Zingare effettivamente leggono il futuro; lo Zingaro sporco e ladro, stereotipo negativo; oppure lo Zingaro amante della libertà e Figlio del Vento, quando è molto difficile dire che gli Zingari siano "figli del vento", liberi come il vento. Voglio dire che la libertà individuale all'interno della comunità certo c'è, ma, nella comunità, l'importante è la coesione interna: vi è sempre la ricerca dell'unanimità.

Sempre a questo proposito, volevo chiederle se la concezione di vita, la scansione del tempo ai ritmi della filosofia di vita, alla libertà che abbiamo appena nominato, si differenzia e in cosa dalla nostra? Abbiamo parlato di libertà, di una mitica libertà che forse, tutto stimato, non esiste?

La libertà non esiste? No. Per loro la libertà esiste nel momento in cui continua la distinzione tra Zingari e non zingari. Ciò significa che tutte le attività di una comunità sono tese al mantenimento della comunità stessa. La libertà è questa, il fare, come dicono loro, romané e non gagikané, da Zingari e non da non zingari. All'interno di questa filosofia c'entra naturalmente la visione del tempo, che è particolare. Un tempo che non è scandito da tappe precise come normalmente da, noi è scandito.

In che senso? A parte magari il fatto che noi possiamo tenere la nostra agenda, con i nostri appunti, con i nostri orari e appuntamenti, in che consiste questa differenza?

Consiste in questo: ogni persona vuole essere padrona del proprio tempo, di amministrare la propria giornata. Il che implica normalmente che cosa? Il rifiuto del lavoro salariato, ad esempio. Perché tutti gli Stati hanno avuto problemi nei loro tentativi di proletarizzare gli Zingari? Dal momento che il lavoro salariato impone un ritmo che "ruba" il tempo, gli Zingari non l'hanno mai accettato o l'accettano sporadicamente e soltanto temporaneamente. In Italia questo fenomeno è generalizzalo. Studi condotti nell'Europa dell'Est su Zingari proletarizzati a forza dalle autorità, dimostrano che questa tensione al mantenimento della padronanza del proprio tempo persiste. Le tattiche messe in pratica sono diverse, prima fra tutte quella dell'assenteismo, ossia quello che dai non zingari è considerato assenteismo.

Come considera, da un punto di vista culturale, i tentativi di alcune associazioni di solidarietà di trovare un posto di lavoro ai Nomadi?

Dipende. Se questi tentativi vengono fatti insieme agli interessati, va bene. Perché bisogna sempre partire da questo. Bisogna vedere poi se gli interessati chiedono un posto di lavoro per far piacere agli amici delle associazioni, oppure se ci credono veramente. Le convinzioni sul lavoro salariato, ma anche qui non bisogna generalizzare, variano. Perché so che tanti gruppi del Sud della Jugoslavia, abituati negli ultimi decenni ad avere un minimo di lavoro salariato, lo accettano abbastanza volentieri. Altri meno. Quello che io penso sia più consono per loro fare, o proporre, sarebbe di agevolare al massimo l'ottenimento delle licenze di commercio. Perché lo Zingaro, normalmente e prima di tutto, è un commerciante. Questo è lo Zingaro...

Per quanto riguarda il recupero della materia prima esistono dei problemi? Per esempio il costo del rame?

Sì e no, nel senso che se uno Zingaro decide veramente di fare il lavoro di sbalzare il rame, lo compra, lo cerca. Se lo vuole veramente fare. Ma il problema è che non bisogna esagerare l'importanza dell'artigianato. Io vedo tante associazioni che a volte, per difendere gli Zingari nei confronti dei non zingari, caricano l'importanza dell'artigianato all'interno delle comunità. Anche i gruppi che fanno artigianato privilegiano non tanto il lavoro dei metalli, ma lo smercio del proprio lavoro. Un valore diverso. Perché la tendenza è sempre quella di porsi come dei partners commerciali nei nostri confronti. Questa filosofia economica può anche sconfinare da un lato in attività illegali per noi, o, dall'altro, in attività che sono vissute come illegali da loro. Ad esempio il lavoro salariato. Perché per molti di loro vendere la propria forza lavoro è considerato alla stregua di essere derubati dagli altri, dai non zingari.

E' tutto relativo, quindi...

Ah, guardi, le assicuro che se si guarda il mondo dal punto di vista di una comunità zingara, ci si accorge che tutto è davvero relativo.

Appendice: gli oggetti tradizionali dei Romà Khorakhané

 



















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