SI RINGRAZIANO: la rivista Lacio Drom e il Centro
Studi Zingari; Mirella
Karpati, Bruno Levak Zlato, Angela Tropea, Raiko DJuric; Leonardo Piasere per
l'accurata revisione dell'intervista e per la gentile concessione della cartina
sulle presenze zingare in Italia e Sardegna; Fabio Corona; la rivista Zingari
Oggi; Violetta Pireddu per la collaborazione e la fornitura di materiali;
l'architetto Silvano Piras per i disegni degli oggetti artigianali; Dafne
Turillazzi per la concessione dell'intervista a Leonardo Piasere; Paola Orrù
per la collaborazione offerta nei contatti con i Dassikané di San Gavino
Monreale; Teresa Paribello e Ketty Giua. In modo particolare si ringraziano
Nusret Selimovic e sua moglie Svetlana, per l'amicizia e la collaborazione
incessante, e Katiza Selimovic, insieme a suo marito Giorgio, per
l'insostituibile apporto offerto nella compilazione del glossario.
Introduzione di Giulio Angioni
Questo libro è impegnato dalla parte degli zingari. Contro il franco razzismo
che verso di loro si esercita da secoli in Europa. È rivolto alla gente di
buona volontà, di normale cultura e intelligenza. Per far riflettere, racconta
fatti della grande storia secolare degli zingari in Europa e ci ricorda fatti
della cronaca recente degli Xoraxané in Sardegna, specialmente a Cagliari.
Come non pochi altri, l'autore è preliminarmente conscio che, se
non la prima, quella del razzismo sta diventando una delle prime questioni
all'ordine del giorno, in Italia come altrove. In molti si è convinti che
finora lo si è preso sottogamba. Infatti il razzismo è stato a lungo
considerato un fenomeno non italiano, tanto che il credere che noi italiani non
siamo razzisti è ancora la forma più tradizionale di antirazzismo facile o di
maniera. Anche la società italiana ha da sempre e probabilmente avrà sempre più
a che fare con problemi di razzismo, perché siamo da sempre e stiamo diventando
sempre di più una società plurietnica.
Ora comunque è giunto per tutti il momento di smettere di credere
che non siamo intolleranti o xenofobi o razzisti, perché possiamo esserlo
quanto e più di altri, se messi alla prova. Tutta la storia insegna che così
come fanno il ladro, le circostanze fanno l'uomo anche razzista. Nella nostra
eredità culturale non c'è niente che ci renda meglio disposti di altri nei
confronti del diverso, nemmeno rispetto al diverso più o meno inventato come
capro espiatorio, come è stato spesso il caso degli ebrei e come è sempre stato
il caso degli zingari.
Posto che il diverso ha suscitato reazioni varie, dall'interesse
genuino al pregiudizio stereotipato, si sa però che il diverso da sé ha
suscitato di solito reazioni che oscillano tra il difensivo e l'aggressivo. Lo
si chiami razzismo, intolleranza, etnocentrismo, xenofobia, si tratta di un
guaio tanto antico quanto il sentimento di appartenenza, di identità.
L'equilibrio tra sentimento di sé e modo di rapportarsi all'altro da sé risulta
storicamente arduo e variegato, ma è monotamente ricorrente la tendenza a
ridurre la diversità a inferiorità, per cui il diverso diventa qualcosa di
peggiore e di pericoloso, oppure si tende ad assimilare l'altro a sé stessi
negando gli ogni diversità, per cui l'uguaglianza pretende ridursi ad identità,
come hanno preteso le campagne di sedentarizzazione e di integrazione degli
zingari. Ambedue gli atteggiamenti, l'uno aggressivo e l'altro a volte
implacabilmente caritativo, sono presenti nella nostra civiltà almeno fin dalle
origini di ciò che chiamiamo epoca moderna, simbolicamente incominciata
cinquecento anni fa con la scoperta di Colombo e l'inizio del colonialismo.
Una cosa è però il generico sentimento etnocentrico, altra cosa
sono le sue manifestazioni storiche particolari: come per esempio
l'etnocentrismo che si specifica in eurocentrismo, e che si è accompagnato
all'espansione colonialista e imperialista dell'Europa su quasi tutto il resto
del mondo, da Colombo a ciò che diciamo neocolonialismo. E perciò non sbaglia
molto chi pensa che tutti i grandi razzismi moderni sono nella loro quasi
totalità figli naturali del colonialismo: se si eccettuano però l'intolleranza
ricorrente verso gli ebrei e costante verso gli zingari. Anche l'Italia
ufficiale, oltre a non aver mai affrontato il problema degli zingari, ha avuto
anch'esso le sue manifestazioni di "imperialismo straccione", non
meno dure e sanguinarie. Dell'italo-imperialismo
prefascista, fascista e postfascista, è caratteristica l'idea che l'italiano
non sia razzista, oppure l'alto luogo comune che noi nelle colonie d'Africa abbiamo
fatto solo bene, alimentando una delle falsificazioni più sfacciate della
nostra storia.
Siccome continuiamo a considerarci personalmente e razionalmente
non razzisti "io non sono razzista, ma...", e nessuno oggi può
dichiararsi francamente razzista e farsi imprenditore del razzismo con parole
d'ordine razziste), ci riserviamo l'esercizio del diritto di beccata sulla
gallina forestiera arrivata nel pollaio. Potremmo al massimo riconoscere che da
noi, specialmente in Sardegna, questa è stata finora propensione moderata, più
difensiva che aggressiva, perché qua il forestiero troppe volte è arrivato in
armi, dominatore e padrone. Gallo, non gallina, finché non è arrivato il
successivo a renderlo cappone. Ora però il forestiero sbarca numeroso anche da
poveraccio, zingaro o africano, e non ci arriva più solo con la sua aura
esotica, ne gretto di gesso da usare come soprammobile, zingarella festosa e
canterina.
Noi italiani non riusciamo più a trovare materia di riflessione
salutare se guardiamo al nostro passato remoto e recente, a ciò che siamo stati
noi fino a ieri sera. Anzi, come si dice in Sardegna, non c'è peggior pidocchio
del pidocchio redivivo, cioè di chi è appena uscito da vile condizione, come è
il nostro caso.
Ma gli zingari? Se non ha torto chi fa notare che da una
situazione multiculturale e interrazziale si possono avere vantaggi reciproci e
generalizzati, compresi magari campioni dello sport, gli zingari non sono
ancora mai rientrati dentro questo alone di eugenetica progressista. Ed è
soprattutto la storia degli zingari in Europa che c'insegna quanto è difficile
la convivenza reciprocamente vantaggiosa di genti diverse, specialmente quando
una di esse trova più facile mettere sotto le altre per servirsene o comunque
fare il proprio comodo, o cercare di disfarsene anche alla maniera nazista
quando non servono, non rientrano nei piani. E questa, esagerazioni naziste a
parte, è la situazione italiana di oggi: una situazione di razzismo
istituzionale, di razzismo classico, di razzismo vero, di razzismo ordinario,
dove una parte della società resta sistematicamente esclusa dal potere, anche a
norma di legge.
Dicevo della difficoltà delle convivenze da più o meno diversi.
Per esempio, la giaculatoria che gli zingari o i cosiddetti extracomunitari
sono "come noi". Questo luogo comune trascura il fatto che sono
"come noi" solo in quanto genericamente uomini, ma che tuttavia sono
anche diversi, e che la loro diversità pone problemi che dobbiamo imparare ad
accettare e a governare civilmente; e non solo per solidarietà umana, in questo
caso, ma perché le migrazioni e le convivenze tra popoli e culture diverse sono
un fenomeno sempre più caratteristico dei nostri tempi. È arrivato dappertutto
in Italia il tempo in cui non basta più, per tranquillizzarci la coscienza,
fare l'elemosina alla zingarella del semaforo, o comprare l'accendino scadente
al patetico vu' cumprà. E sono già arrivati i tempi in cui si vede che non
basta neppure legiferare e far convegni su zingari e africani. Anche gli esorcismi
verbali sono invece sintomi del disagio e della difficoltà a fare bene i conti
con questa "novità", se è vero che la si affronta ancora troppo, nel
migliore dei casi, con giochi di parole ed altre palliative carità. Così un
tempo nelle Americhe i padroni buoni chiamavano fratelli i loro schiavi.
E gli zingari non diventano meno diversi o più facilmente
accettabili come conviventi se pudicamente li si chiama nomadi, così come uno
non cambia in nulla se lo chiamiamo non udente o non vedente invece che sordo o
cieco, o se la vecchiaia la si chiama terza età. Gli esorcismi verbali dei
benintenzionati verso gli zingari sembrano anzi sintomi ulteriori del disagio e
dell'incapacità di fare bene i conti con la difficoltà.
Perciò bisogna riflettere anche sul problema che, anche se non è
altrettanto pericoloso del razzismo più o meno franco, è pericoloso anche
l'antirazzismo facile, la cui generosità si avvicina a volte alla stupidità, e
contro la stupidità, dicevano già gli antichi, anche gli dei sono impotenti.
Così oggi, screditate definitivamente le irrazionalità razzistiche totalitarie,
l'intolleranza e l'aggressività contro il diverso si manifestano principalmente
in modi subdolamente democratici e pluralistici, perché così richiedono i
tempi. Questo complica molto le cose, anche a chi vuoI capire e provvedere, o
manifestare contro, per lo meno contro gli umori più rozzi e a volte violenti.
Ma il possibile imprenditore politico dei razzismi odierni è
piuttosto una pluralità varia di spinte e di aggregazioni, flessibile, che si
muove, come è il caso del razzismo delle leghe nordiche, per obiettivi
espliciti di altro tipo, come la salvaguardia dell'identità o la lotta contro
il centralismo o l'ingiustizia fiscale. Razzismi striscianti, cangianti,
camaleontici, addizionali, concorrenziali, intermittenti, più che razzismi
riconoscibili in movimenti e risentimenti già sperimentati e modellati in forme
aggressive e militanti (Skinheads), che pure oggi ci appaiono così pericolosi.
Ma della pericolosità dei gagè, dei non-zingari, gli zingari sanno
però da
secoli, sia a Oriente che a Occidente, e ci temono anche quando siamo dona
ferentes.
È utile fare notare, e qui lo si fa a volte con la discrezione
dello studioso e a volte con l'enfasi di chi è impegnato direttamente, che le
diversità etniche, razziali, religiose, culturali, linguistiche, ecc.,
esistono, che i problemi posti da queste diversità non si risolvono
minimizzandoli, ma che con queste diversità bisogna fare i conti con sentimenti
di solidarietà e con freddezza di raziocinio. Perché non è mai stato facile.
No, bisogna ribadirlo, non è mai stato facile. E la nostra tolleranza si
deve esercitare anche, e forse soprattutto, verso quella parte del nostro
prossimo che è ancora vittima del pregiudizio e si fa solo guidare dal
fastidio: anche loro hanno diritto al nostro aiuto paziente per arrivare a
comprendere, e non meritano il sarcasmo di chi è meglio intenzionato e più
informato. E bisogna evitare non solo le intolleranze e le discriminazioni, ma
anche i limiti o gli eccessi della carità da boy scout o da dama di San
Vincenzo. Quindi, anche se ci vogliono e sono anzi sacrosanti gli atti di culto
esterno come queste forme di carità e le solidarietà antirazziste, ci vuole
anche ben altro, e principalmente ci vuole un'informazione accorta che supporti
l'impegno, personale e collettivo, sul piano intellettuale, morale e politico,
che si deve esercitare quotidianamente e con la forza della costanza.
Giulio Angioni
Premessa
La prima testimonianza documentata
dell'incontro tra gli Zingari e il mondo europeo è del 1322: due frati minori,
Simeon Simeonis e Ugo l'Illuminato, li trovano nei pressi di Candia, nell'isola
di Creta, dove si mormora che appartengano alla mitica stirpe di Cam. I loro
strani costumi - dormono in tende piccole e nere oppure in caverne e non si
fermano per più di trenta giorni nello stesso posto - catturano l'attenzione
dei due religiosi e ne stimolano la fantasia.
Chi è questa gente, e quale la sua origine?
Lo stesso atteggiamento, la stessa curiosità, è quella che nel 1421 coglie gli
abitanti di Arras, allora capoluogo della regione dell' Artois, in Francia. Nei
registri dello Scabino, il giudice che in epoca medioevale sostituiva i nobili
nell'amministrazione della giustizia, viene così annotata la strabiliante
novità: "Meraviglie. Arrivo di stranieri dal Paese di Egitto".
E qui comincia, se non la Storia degli Zingari, che è assai più antica e che
affonda le proprie radici nella lontana India, almeno la Storia di quella
scienza chiamata "ziganologia". Una scienza che, più organicamente a
partire dalle riflessioni dei dotti del Rinascimento, ha tentato di risalire
alle origini di questo popolo errante, di penetrarne l'idioma misterioso, di
esorcizzare, o castigare, tanta evidente diversità, di porre per iscritto ciò
che la tradizione zingara non si è mai premunita di fare, essendo stata, ed
essendo ancora in parte, una tradizione che si trasmette per via orale. Lo
ziganologo è quindi lo studioso di cose Zingare.
Uno studioso che spesso si è avvalso dell' apporto di altre discipline, quali
la Storia, l'Antropologia, la Linguistica comparativa, la Psicologia, la
Genetica, tutte tese a ricostruire un quadro che, col passare dei secoli, si
era disunito e frammentato come un mosaico andato in pezzi.
Ecco, qui sta il punto.
lo non sono un antropologo, non sono uno storico, né un linguista, né tanto
meno uno psicologo o uno studioso di genetica. Ma soprattutto, anche ammesso e
non concesso che un tale orribile orpello possa essere da qualcun altro
sospirato ed anelato, non sono, assolutamente, uno "ziganologo", non
mi ritengo tale, non voglio esserlo.
E non per pudore o per falsa modestia: La Storia che è qui trattata, che è
insieme Storia di un Popolo e Storia del pregiudizio che nel tempo l'ha tenuto
incatenato in abiti illusori, fantastici o mostruosi, è ben documentata. Dagli
scritti degli ziganologi, quelli formalmente riconosciuti tali, ho attinto le
teorie note come le più attendibili o provate: il che, data l'oscurità di un
passato quasi imperscrutabile, non è ancora garanzia di certezza.
La gran mole di studi, libri e articoli di ziganologia (una bibliografia
pubblicata nel 1914, "A Gypsy bibliography" di George B1ack,
contava già da allora 4.577 titoli), è davvero impressionante. Ma ancora oggi
non è bastata a far piena luce su certi aspetti che riguardano il tipo di vita
che gli Zingari conducevano in India prima delle grandi migrazioni iniziate,
secondo alcuni, intorno all'anno Mille.
Uno Zingaro di origine russa, e studioso di cose zingare, l'etnologo e
sociologo Jan Kochanowski, ha per esempio tentato di confutare la teoria
secondo la quale gli Zingari d'Europa, quelli che lui denomina Romané
Chavé, discenderebbero dalla casta indiana dei Paria. A suo parere essi
discenderebbero invece da una casta militare e aristocratica originaria di
quello che oggi è lo Stato di Dheli.
Ma qualunque sia la verità, rispetto a tante e approfondite ricerche, la
scelta, o meglio una delle scelte che mi sono apparse più opportune, è stata
quella di riscrivere con molta umiltà e con occhio imparziale queste diverse
teorie, cercando di ricostruirle con l'occhio del cronista, se non dello
ziganologo, in un quadro più unitario possibile.
Una delle scelte dicevo.
L'altra, la più importante, è quella che per spirito di coerenza mi vieta,
vorrei quasi dire mi salva, dall'appellativo di ziganologo, nasce tutta nel
rapporto di amicizia che in questi anni ho vissuto con i Romà che da un
decennio vivono nelle più degradate periferie urbane dell'area cagliaritana,
provenienti da quella Jugoslavia che, ormai lontana dal loro stupore incredulo,
si è frantumata in un coacervo di razze e religioni ostili e pronte a
guerreggiare.
Ciò che voglio dire è che, ancora oggi, vorrei continuare a guardare ad essi
come un amico, uno che ne condivide, seppure in minima parte, i dolori, le
difficoltà, la gioia e la solidarietà che li contraddistinguono. Pormi di
fronte a loro come uno studioso, uno ziganologo, sarebbe un po' come tradire
questo sentimento di amicizia che non è stato facile costruire e che è
cominciato, quasi per caso, in un pomeriggio primaverile di alcuni anni orsono.
Il ricordo di quel pomeriggio è ancora molto vivido.
Visto da lontano il panorama di baracche e rottami d'auto che caratterizza ogni
raggruppamento zingaro presente sul nostro territorio, incute davvero un po' di
paura. Ed effettivamente quel giorno, era il 6 maggio 1988, invitato a
partecipare e a fotografare il Gurgevdan, la Festa di Primavera, realmente
avevo, se non proprio paura, sicuramente un robusto quanto impalpabile
sentimento di diffidenza.
Ripensandoci più avanti mi resi conto che questo sentimento di diffidenza,
questo pregiudizio riapparso improvvido a corrompere certezze e valori che
credevo molto più saldi, si alimentava di miti, figure letterarie, luoghi
comuni. Chi erano questi Zingari? Liberi Figli del Vento o accattoni e ladri di
bambini? I vagabondi impenitenti di Diderot o i musicisti di G. G. Marquez? Gli
animali notturni e undergrounds di Victor Hugo o la tribù "profetica dalle
pupille ardenti" cantata da Baudelaire?
Stregoni, saltimbanchi e furfanti, Resto immondo
D'un antico mondo
Stregoni, saltimbanchi e furfanti, Gai Zingari, da dove venite fuori?
Come nella canzone di Béranger, la domanda,
inespressa a parole, si
concretizzava invece nei gesti: una volta arrivato all'interno del Campo, tra
vedere e non vedere, ma facendo in modo che nessuno mi vedesse, nascosi per
bene le macchine fotografiche sotto i sedili dell' auto, scesi, chiusi a chiave
la portiera e mi avvicinai agli Zingari col sorriso sulle labbra.
Ipocrita, pensai, dopo.
Perché tra il prima e il dopo, nel breve spazio di cinque, sei ore, il dubbio
e la diffidenza vennero spazzate via non solamente dai canti, dai balli, dal
turbinare della musica slava ad altissimo volume, ma anche e soprattutto da una
disponibilità e da un senso dell' ospitalità sino ad allora insospettabili ed
insospettate. Questo popolo fatto di straccioni, scostanti ed ostili ai
semafori della città quando chiedono la "manghel", l' elemosina), mi
si ridisegnava davanti agli occhi come tutt'altra cosa.
È questa la magia del Gurgevdan, la festa che celebra l'arrivo della buona
stagione, l'allontanarsi di quella cattiva e, non solo metaforicamente, del
freddo, della malattia e della morte.
È una magia, quella vissuta dagli Zingari durante la Festa di Primavera, che si
trasmette per empatia anche all'ospite sino a quel momento ignaro di quelle
strette di mano, di quei sorrisi, di quegli abiti che si fanno bianchi, e
puliti, negli uomini, e colorati, e puliti, nelle donne. Io, come tanti altri
"gagé" (i non zingari), che possono testimoniare la mia stessa
esperienza, passai di baracca in baracca per onorare tutte le diverse famiglie,
assaggiai in ognuna le pietanze preparate in abbondanza per l'occasione,
bevetti il caffè alla turca bollente offerto dalle donne, fotografai visi in
allegria, visi segnati da ragnatele di rughe precoci, risate dai denti d'oro,
abbracci e baci e danze.
E, per dirla tutta, ne restai affascinato, incuriosito, sedotto.
Ricordo ancora che prima di andar via, Nusret Selimovic, che allora era
sicuramente l'uomo più rappresentativo del Campo (ciò che superficialmente
potremo definire il "Capo"), ci fermò ancora sulla soglia della
baracca per ringraziarci, me e gli altri gagé che mi avevano
accompagnato e presentato, per aver partecipato alla Festa di Primavera. E
mentre lo faceva - già il tutto si era spezzettato in piccoli gruppi che alla
luce fioca delle lampade ancora bevevano e chiacchieravano per conto loro -
ricordo che affianco a noi un giovane non zingaro che non conoscevo, e che
aveva evidenti problemi di nervi, anche lui unitosi alla Festa, continuava a
parlare tra sé e sé in preda ai suoi cattivi pensieri. Ma, e fu questo che mi
colpì profondamente, nessuno tra gli Zingari sembrava farci caso, anzi ogni
tanto gli si avvicinavano, stavano a sentire le sue parole sconclusionate, gli
offrivano ancora da bere assentendo con rassegnata pazienza, gli davano piccole
affettuose pacche sulle spalle.
Insomma, questi Zingari, questo mondo Altro, questi diversi per antonomasia,
riuscivano con placida indifferenza ad accettare una presenza, un' altra
diversità, che in qualsiasi altro ambiente avrebbe stonato, irritato, provocato
la consueta incivile ilarità o il consueto gran senso di disagio.
Più avanti, messi da parte gli abiti della festa e rientrati nella
quotidianità, gli Zingari di quello che allora era il Campo abusivo di San
Lussorio, mi diedero modo di comprendere quanto la vita di ogni giorno fosse
agli antipodi della serenità e dell' allegria del Gurgevdan.
Nusret Selimovic, del quale ancora scriverò in altre parti del libro, è l'uomo
che in questa odissea di rifiuto, dolore e desolazione, è stato mio anfitrione.
Sua figlia Tiziana, una bimba di pochi mesi uccisa nel sonno dalla
broncopolmonite e offesa cadavere dai morsi famelici dei topi, è quella che ha
dato il suo nome alla Legge Tiziana, la Legge regionale n. 9 del 1988 che
teoricamente avrebbe dovuto tutelare e migliorare le condizioni di vita
dell'Etnia Rom presente nell'isola.
Ma oltre lo sforzo legislativo, dovuto alla sensibilità del promotore della
legge, Italo Ortu, in realtà poco o niente è stato fatto per cambiare le
condizioni di vita nei Campi, per agevolare un confronto che, anche rispettando
le specifiche differenze culturali, potesse in qualche modo abbattere le
barriere del pregiudizio e avvicinare la gente zingara alla città che
ostilmente la circonda e l'assedia.
Dopo Tiziana sono morti un' altra decina di bambini, alcuni di broncopolmonite,
qualcuno arso vivo nel rogo della sua baracca, una, Nazifa Bebé Ahmetovic,
schiacciata da un furgone mentre chiedeva l'elemosina sugli asfalti cittadini.
La vita nelle baracche è una vita che resta, anche senza voler essere retorici
o roboanti, una vita infame. Si combatte coi topi, ci si ammala facilmente, si
invecchia precocemente (la speranza di vita degli Zingari è paragonabile solo a
quelle del Terzo e Quarto Mondo). Si vive male e si muore peggio.
Le attività economiche di stretta sopravvivenza sono la "manghel" per
le donne e i bambini e la raccolta di rottami per gli uomini. Pochissimi,
soprattutto i vecchi, si ostinano ancora a lavorare il rame. Ma pentole,
piatti, portaombrelli e altri oggetti, sono difficilmente commerciabili e del
tutto antieconomici rispetto a prodotti simili lavorati con mezzi più moderni.
Tutte le tradizionali attività zingare sono state superate. Gli Zingari
calderai, fabbri ferrai, chiodatori, forgiatori, domatori di cavalli e
musicisti di piazza sono solo un ricordo di tempi lontani che non potranno mai
più tornare.
Né si creda facile un loro inserimento nel nostro mondo del lavoro: come
ricorda Carla Osella, Presidente dell' Associazione Italiana Zingari Oggi,
l'analfabetismo, reale o funzionale, arriva nella popolazione zingara
(60/80.000 persone in Italia) ad una percentuale del 95%.
Questa perdita d'identità economica non è solo la causa prima dell'estrema
povertà di quasi tutti gli Zingari di recente immigrazione. La mancanza di
autonomia e di un ruolo definito, unita al secolare disprezzo di cui sono stati
vittime, provoca da una parte quel sentimento di ostilità verso la società dei
gagé, a volte così evidente nei loro modi scostanti per le vie della città, e
dal1'altra la metodica ricerca dei mille e più espedienti atti a procurare il
minimo necessario alla sopravvivenza.
Alcuni di questi espedienti, come l'accattonaggio dei bambini teso a smorzare
l'impietosa indifferenza dei gagé o gli atti di piccola illegalità, provocano a
loro volta il rinfocolarsi della fiamma del pregiudizio e del rifiuto che la
nostra società nutre con forza nei loro confronti. In questo modo
1'incomunicabilità di fondo che caratterizza il rapporto tra società dei gagé e
società zingara tende ad auto riprodursi all'infinito.
Niente di nuovo, si dirà.
Gli Zingari, dopotutto, sono abituati da sempre a convivere col pregiudizio e
l' emarginazione e riusciranno a superare indenni anche questi difficili
momenti. Questa è anche 1'opinione, ma sarei tentato di dire 1'illusione, di
quei gagé, amici in buona fede dei Rom, che, credendo nell'immutabilità della
loro cultura, rifiutano a priori la possibilità che essa possa contaminarsi con
la nostra e non si rendono conto della drammatica specificità di questo momento
storico.
Niente scuola per i bambini, quindi, perché essa potrebbe omologarli alla
nostra cultura, e niente case per le famiglie, perché la tradizione del
nomadismo, che sarebbe garanzia irrinunciabile di libertà, va preservata
assolutamente.
Chi dice questo, chi proietta sugli Zingari questi aneliti di purezza
esasperata, chi si ostina ad osservarli con 1'occhio spiritato dell' ideologo
più interessato al proprio pensiero che non all'uomo, chi, in definitiva,
ricerca in loro l'alterità incorrotta del Buon Selvaggio, sbaglia non una ma
molte volte.
Sbaglia arrogandosi il diritto d'interpretare ciò che davvero essi desiderano
oggi, sbaglia nel non accorgersi che un profondo cambiamento è comunque già in
atto, e sbaglia ancora nel confondere alcuni elementi della tradizione per
l'essenza stessa della cultura zingara, che in ogni caso mai è stata e mai sarà
una monade monolitica non suscettibile di relazioni sociali ed economiche col
mondo circostante. Il professore zingaro Jan Hancok, che insegna all'Università
di Austin ed è rappresentante all'ONU della Romani Union, così ebbe a dire nel
corso di un'intervista rilasciata al periodico di studi sociali ed
antropologici Zingari Oggi:
"Il popolo zingaro non scomparirà mai. Finché crederà e vivrà la propria
cultura in ogni parte del mondo, sarà quello che è sempre stato; non fa niente
se siamo professori, musicisti o spazzini; le radici della nostra storia, del
nostro passato sono dentro di noi; tagliare le radici vuoI dire dichiarare la
morte dell'albero; nessuno vuole distruggere il proprio passato; magari si può
innestare, perché l'albero cresca meglio, ma sono sempre le vecchie radici che
fanno vivere".
Da parte mia, nell'esperienza accumulata in questi anni, posso dire che ho
incontrato Zingari che mandano i propri figli a scuola e altri che non lo fanno,
Zingari che ancora difendono gli originari valori di comunione e solidarietà e
altri che vivono vittime dei bisogni indotti dalla nostra società, Zingari che
non riescono a stare a lungo nello stesso posto e altri che, letteralmente,
maledicono il nomadismo come effetto delle tante, troppe ordinanze di sgombero
che, di Campo abusivo in Campo abusivo, di città in città, li obbligano a
continuare il loro infinito viaggio.
E ho conosciuto, qui in Sardegna, diversi di loro che già vivono in
appartamenti, e che mi sono sembrati assai contenti di viverci.
Un gruppo di Zingari, che per anni ha atteso che l'ambito miraggio del Campo
sosta attrezzato divenisse realtà, ha infine ragranellato i propri risparmi, ha
acquistato un piccolo terreno agricolo nelle campagne di Asti, e lì si è
trasferito.
Non credo davvero che il peggior pericolo per la cultura zingara sia la
scolarizzazione, per quanto essa, davvero, possa essere pericolosa; né credo
che la cessazione o la prosecuzione della pratica del nomadismo possa in futuro
ancora dipendere da un semplice atto di volontà.
Il vero pericolo per la cultura originaria mi sembra invece che passi
attraverso l'acquisizione di quei disvalori tipici del "villaggio
globale", nel quale, indifesi perché senza una propria identità economica
e pur in una condizione assolutamente marginale, essi si trovano loro malgrado
immersi.
L'appropriazione facile della ricchezza, l'individualismo esasperato, la
decontestualizzazione del proprio ruolo in relazione alla società che li
circonda, la perdita del senso di appartenenza al gruppo e ai suoi valori di
fraternità e di solidarietà nel momento del bisogno, sono i pericoli dai quali
mi sembra gli Zingari debbano difendersi.
Il rischio di una strisciante sottoproletarizzazione, forzata da eventi
esterni, mi sembra tanto reale quanto imminente.
Discorrendo con Nusret e Svetlana, la sua dolcissima compagna, mi azzardavo a
manifestare questi dubbi, specialmente nei confronti dei ragazzi più giovani,
che mi apparivano già diversi dai loro padri.
Continuando a fare questa vita impossibile, dicevo, e senza avere la
lungimiranza di governare, voi stessi, il cambiamento, cosa succederà nei
prossimi anni? I vostri figli, questi ragazzi già da oggi teledipendenti e
ubriacati da quiz e telenovelas di bassissima lega, saranno ancora salvi dai
nostri miti e dai nostri vizi? Si sottrarranno alle vie della droga, della vera
delinquenza, della devianza, o, al pari dei nostri, ne saranno le vittime
predestinate?
Ma Nusret e Svetlana apparivano più ottimisti di me. I più giovani, dicevano,
seguono almeno in parte le vecchie tradizioni, quindi la speranza non deve
morire.
Lungo questa strada, questo libro, che è scritto da una persona che è stata
accolta in amicizia, vuole essere un contributo a questa speranza.
Un atto d'amore verso questo Popolo al quale, ancora oggi, viene negata quella
porzione di cielo alla quale ha naturale diritto.
Un'ultima cosa ancora: quasi un'istruzione per l'uso.
Ritengo opportuno avvertire il lettore, benché più volte l'abbia poi puntualizzato
nel corso dei diversi capitoli, che mai e poi mai bisogna generalizzare quelle
che sono alcune conoscenze su determinati gruppi a tutti gli Zingari.
lo mi sono limitato, nell' ampia parte riguardante i differenti aspetti della
loro vita, a descrivere in modo semplice e con un linguaggio accessibile a
tutti ciò che ho visto, e a raccontare ciò che altri, meglio di me, hanno
potuto osservare in altre situazioni. Ho azzardato ogni tanto, credo con tutta
l'opportuna prudenza, qualche collegamento e qualche ipotesi, ma sempre
basandomi su determinate fonti conosciute come le più attendibili.
Capitolo Primo: le origini
Quando Dio decise di creare l' Uomo e la Donna, e di
crearli a sua immagine e somiglianza, impastò acqua e farina, ne fece le forme
che sappiamo, e li infornò. Una prima volta, poiché si era distratto, 1'Uomo e
la Donna si bruciacchiarono. E fu così che Dio creò i Neri. Rifatte le forme,
la seconda volta, avendo paura che nuovamente si bruciacchiassero, Dio le
estrasse dal forno troppo presto. E fu così che creò i Bianchi. La terza volta
Dio sfornò l'Uomo e la Donna al momento giusto, ben cotti e di carnagione
bruna. Fu così che creò gli Zingari.
fiaba zingara
Nomi e leggende
Il 17 agosto 1427 appare, alla periferia di Parigi,
una carovana zingara. Nella Cronaca di un canonico di Notre-Dame viene annotato
che gli uomini "... erano nerissimi, con i capelli crespi, le donne erano
le più brutte e nere che mai si sia dato vedere. I volti tutti solcati di
rughe, i capelli scuri come code di cavallo; loro unico indumento una
copertaccia sdrucita fermata sulle spalle da uno straccio di tela e da una
cordicella, e sotto soltanto una tonaca sbrindellata. Insomma, le creature più
sciagurate che a memoria d'uomo si siano mai viste sul suolo di Francia".
Un'altra cronaca, nota come il "Journal d'un bourgeois de Paris",
racconta che essi soggiornarono nella città per tre settimane circa e che ne
vennero allontanati l'otto settembre dello stesso anno.
Migliore impressione avevano fatto, e migliore accoglienza avevano ricevuto,
almeno in un primo momento, il centinaio di Zingari che il 18 luglio 1422 erano
giunti a Bologna, guidati da una figura che all'epoca divenne quasi mitica, il
Duca Andrea del Piccolo Egitto.
Il Colocci, nel 1883, riassume un passo di un'altra cronaca dell'epoca, la
"Historia miscellanea bononiensis": "... in tale data venne
a Bologna un duca d'Egitto. (...) Tale duca aveva rinnegato la fede cristiana e
il Re d'Ungheria prese la sua terra a lui. Dopodiché il Re d'Ungheria volle che
andassero per il mondo 7 anni e che si recassero a Roma dal Papa e poscia
tornassero alloro Paese"
Del Duca Andrea e della sua gente la leggenda vuole che più avanti, dopo essere
stati ricevuti dal Papa Martino V, essi riprendessero il cammino protetti da
alcune lettere papali che gli garantivano libero transito, coi loro cavalli e i
loro beni, senza che fossero costretti a pagare né diritti di passaggio, né
alcun altro tipo di tassa.
Più avanti quasi tutti i gruppi zingari che presero a diffondersi per l'Europa
mostravano di possedere Bolle e Sigilli papali (più o meno autentici), ma ciò
non bastava più a garantirne la bontà delle intenzioni: il sospetto e la
diffidenza, alimentate anche dalla appariscente alterità, cominciarono a
circondarli e, contemporaneamente, ad alimentare l'incontenibile saga delle
ipotesi che si fecero sulla loro origine avvolta nel mistero.
Un mistero, peraltro, che essi stessi alimentarono volontariamente,
assecondando ora questa ora quella teoria, ora questa ora quella leggenda.
François de Vaux de Foletier, autore del saggio "Mille anni di Storia
degli Zingari", uno dei testi più interessanti della moderna ziganologia,
ha riassunto con accuratezza i molti nomi coi quali essi sono stati denominati
nelle diverse nazioni ove si fermarono e le molte leggende che li hanno
accompagnati nel loro lungo cammino.
Tra questi nomi, quelli che hanno un'effettiva origine indiana, e nei quali gli
stessi Zingari si riconoscono, ricordiamo Rom, Sinti, Kalé e Manush,
che verrebbe dal sanscrito Manushya e che significherebbe "uomo
libero": non dimentichiamo però che le vere auto-denominazioni dei diversi
gruppi sono ancora oggi oggetto di studio perché generalmente poco conosciute.
Gli altri appellativi seguiranno invece le impronte del mito e del pregiudizio.
Il colore scuro della pelle li fece chiamare Negri in Francia, Tartari
Neri in Svezia, Mustaleinen in Finlandia.
La presunta appartenenza alla setta greca degli Athinganoi fece
nascere il termine Tchinghiané in Turchia, Ciganin in
Serbia, Cygan in Polonia, Zigeuner in Germania e in Olanda, Zeginer in
Svizzera, Zigenar in Svezia, Cingan in Francia, Cigano in
Portogallo, Zingaro in Italia.
Ancora: vennero appellati Bohémiens (perché ricevettero, o dissero di
aver ricevuto, alcuni salvacondotti da Sigismondo di Boemia), Filistei (perché
d'ipotetica origine ebrea), Saraceni (perché pagani e provenienti dall'Est), Egiziani e Faraoni (perché
in parte provenienti da quella regione del Peloponneso chiamata, per la sua
fertilità, Piccolo Egitto).
Ai tanti nomi corrisposero poi altrettante leggende, nate di solito dalle
"dotte" dissertazioni di filosofi e uomini di religione. Henri
Cornelius Agrippa, nella sua "Dichiarazione sull'incertezza, vanità e
abuso delle scienze", pubblicata nel 1530, volle gli Zingari discendenti
di Cus, figlio di Cam, figlio di Noé, e perciò condannati per sempre dalla
maledizione del loro progenitore.
Per Giorgio Esseney, che lo scrive nel 1798, erano invece i superstiti di
Sodoma e Gomorra, cacciati dalla regione di Zoar dai discendenti di Lot. Altri,
citando la Genesi, li credettero discendenti diretti di Caino, tramite Jubal e
Tubalcain, pro genitori di tutti quelli che "suonano la cetra e la
zampogna" e di quelli che "costruiscono arnesi di rame e di ferro".
Di volta in volta gli Zingari divennero una delle dieci tribù perdute
d'Israele, i discendenti di Abramo e Sara, di Adamo e di una prima moglie che
precedette Eva, dei misteriosi Sicani che abitarono la Sicilia prima dei
siciliani, dei Titani indo-tartari padroni della Terra, dei Maghi di Caldea e
di Siria, degli Uxii sottomessi da Alessandro, degli Egiziani, dei Trogloditi,
dei Mamalucchi, dei Druidi celtici, dei Persiani adoratori del fuoco, dei
Sacerdoti di Iside, dei soldati di Erode, dei Fenici, degli abitanti di
Atlantide.
E per finire, incredibile ma assolutamente vero, Jean Alexandre Vaillant, nel
suo "Les romes. Histoire vraie des vrais Bohèmiens", del 1857, giunse
ad ipotizzare che furono proprio questi uomini e queste donne misteriose a dare
il proprio nome a Romolo, fondatore di Roma, e a inventare, diversi secoli
prima dell' era cristiana, il Vangelo.
Questo fenomenale lavorio di fantasia, che spesso precedette sanguinose
persecuzioni, ha sempre rappresentato, - nel bene come nel male, il disperato
tentativo del mondo europeo di riportare all'interno di schemi culturali
conosciuti un'alterità che, per la prima volta, si era annidata senza ritegno
all'interno dei propri confini. L'origine del Popolo degli Uomini, troppo
differenti dai barbari e altrettanto diversi dai Buoni, o Cattivi, Selvaggi di
oltre Mare Oceano, rimase nella più assoluta oscurità sino a quando la
ziganologia non si avvalse dell'apporto della filologia comparata e dell'
antropologia.
La vita in India
Secondo E. Rabino Massa e M. Masali, professori
ordinari alla Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali
dell'Università di Torino, il primo ad accostare le parlate zingare alle lingue
indiane, fu, in Olanda nel 1763, Etienne Vali, un pastore protestante
ungherese. Egli, ascoltando per caso le conversazioni di un gruppo di studenti
indiani, si rese conto che molti vocaboli da loro utilizzati erano simili a
quelli usati dagli Zigeuner dei quali aveva fatto conoscenza.
Questa intuizione venne poi ripresa e approfondita da alcuni filologi e, nel
1777, il tedesco Rudiger espose pubblicamente la nuova teoria col suo "Von
der Sprache und Herkunft der Zigeuner" (della lingua e dell' origine degli
Zingari), che venne poi pubblicato nel 1782.
Da questo momento la filologia zingara diventò, secondo il De Foletier, "...
una vera scienza, grazie soprattutto al tedesco Pott (nel 1844), al greco
Pospati, all' austriaco Miklosich, all'italiano Ascoli".
Ancora oggi numerosissimi filologi continuano a studiare la lingua zingara, la
"romani cib", o romanés, che è una lingua della famiglia indo-europea
il cui vocabolario e la cui grammatica sono rapportabili al sanscrito e che si
può accostare ad un gruppo di parlate indiane quali l'Hindi, il Mahrati, il
Guzurati e il Kashmiri.
Ma, una volta risolto il problema delle origini, altre questioni restavano
e restano tutt' ora aperte.
In che regione vivevano esattamente? E a che gruppo etnico, a che classe
sociale appartenevano? Ed ancora, perché ad un certo punto della loro storia
scelsero la via dell'emigrazione che, nello spazio di diversi secoli, li ha
portati praticamente in ogni punto della terra?
Domande alle quali non è stato facile rispondere.
Una delle ipotesi più accreditate sulla classe sociale di appartenenza nasce dal
rapporto tra i termini Rom e Dom, che in India era il nome di un
vasto insieme di diverse tribù molto note sin dai tempi antichi. In un testo di
astronomia in sanscrito i Dom sono noti come "Gandharva", musici, e
altre fonti li citano come ottimi lavoratori dei metalli.
Altre parentele linguistiche accomunerebbero gli Zott (come vennero
chiamati gli Zingari in Persia) ai Djatt del Punjab. I Luri, i Multani e
i Sindi sarebbero originari di territori adiacenti al fiume Indo.
La maggior parte degli ziganologi è arrivata comunque alla conclusione che la
regione d'origine, seppur imprecisata, sarebbe da ricercarsi nel Nord-est
dell'India e la loro classe sociale, anche in base a quanto scritto in una
Cronaca Kashmiri del XII secolo - che associava i Dom ai "candala"
(intoccabili) sarebbe stata quella dei Paria.
Contro queste tesi si è scagliato, con molta ed esacerbata fermezza, l'etnologo
zingaro Kochanowski.
A suo parere l'accostamento degli Zingari ai Paria indiani sarebbe solo il
frutto di una deduzione senza alcun riscontro, il frutto di ricerche, cioè, non
condotte a fondo e che tenderebbero a giustificare in qualche modo sia le
persecuzioni terribili che nel corso dei secoli si abbatterono in Europa sui
Rom e sia la drammatica situazione nella quale gli Zingari si dibattono ancora
ai giorni nostri nella maggior parte delle nazioni. Il fatto che in Europa essi
fossero ridotti ad una vita da Paria non significherebbe, secondo l' etnologo,
che così vivessero anche in India.
L'ipotesi del Kochanowski è che i Romané Chavé (gli Zingari
d'Europa), siano invece i diretti discendenti di alcune caste aristocratiche e
militari: quelle dei Kshattriyas e dei Rajputs del
Rajasthan.
Un'ipotesi secondo la quale la prima grande ondata migratoria avvenne molto
tempo prima dell'anno mille, verso la Mesopotamia e poi verso la Grecia,
quando, intorno all'ottavo secolo d.c., i Ksattriyas sinti restarono
vittime di una terribile carestia. Quattro secoli più avanti, nel 1192,
sarebbero stati i Rajputs ad abbandonare le loro terre, a causa di
una devastante sconfitta militare. Questi ultimi avrebbero poi raggiunto in
Grecia i Ksattriyas e i due gruppi avrebbero dato origine alla stessa
etnia: la Romani.
Kochanowski crede di trovare diverse conferme alle sue teorie negli studi di
linguistica e di antropologia.
La lingua Hindi e quella Romanés risulterebbero simili ancora oggi per un gran
numero di vocaboli e, dato che egli considera molto significativo, esse
sarebbero simili sia in positivo che in negativo: i termini che sono presenti
nell'una sarebbero presenti anche nell'altra e quelli che risultano assenti
dall'una lo sarebbero anche dall'altra. La morfologia del Romanés sarebbe poi
la stessa dello Jodhpuri della regione del Rajasthan.
Anche dal punto di vista antropologico i Romané Chavé sarebbero
fisicamente e culturalmente simili alle antiche caste aristocratiche e
militari. L'antropologo indiano D.N. Majumdar, nella sua classificazione dei
gruppi sanguigni indiani, ha messo in evidenza le somiglianze tra i Kshattryas e
i Romané Chavé.
Ma c'è ancora un'altra similitudine. I Banjara, che sono considerati gli
Zingari d'India, e che secondo Kochanowski sarebbero dei Rajputs leggermente
"imbastarditi", avrebbero tradizioni orali molto simili a quelle
degli Zingari d'Europa.
Queste teorie sulle origini dei Rom non vengono
accettate dalla maggior parte degli ziganologi, secondo i quali mancherebbero
di maggiori riscontri. In merito alla data d'inizio delle grandi migrazioni,
essi continuano a basarsi sulle prime fonti documentali: gli scritti dello
storico arabo Hamzah d'Hispahan e quelli del poeta persiano Firdusi, che,
rispettivamente nel 950 e nel 1011 dopo Cristo, raccontano di come e quando si
verificarono le prime apparizioni degli Zingari oltre i confini dell'India.
Capitolo secondo: dall'Iran alla Grecia
In quel paese in cui il sole sorge dietro una
montagna scura, c'è una città grande e meravigliosa, ricca di cavalli. Tanti
secoli fa tutte le nazioni della terra viaggiavano verso quella città, a
cavallo, a dorso di cammello, a piedi...
Tutti vi trovavano rifugio e accoglienza... C'erano pure alcune nostre bande.
Il sovrano di quella città li accoglieva con favore... Vedeva che i loro
cavalli erano ben curati e propose loro di stabilirsi nel suo impero. I nostri
padri accettarono e piantarono le loro tende nelle verdi praterie. Là vissero a
lungo, contemplando con riconoscenza l'azzurra tenda dei cieli... Ma il Destino
e gli spiriti del male vedevano con dispiacere la felicità del popolo dei Rom.
Allora mandarono in quelle contrade serene i malvagi cavalieri Khutsi, che
appiccarono il fuoco alle tende del popolo felice e, dopo aver passato gli
uomini a fil di spada, ridussero in schiavitù le donne e i bambini.Tuttavia
molti riuscirono a fuggire e da allora non osano più sostare a lungo nello
stesso posto.
leggenda zingara
Zott, Luri, Ghagar
Secondo G. Macaluso, alcune Cronache Bizantine
risalenti all'835 parlano di diversi raggruppamenti umani presenti allora in
Cilicia, nell' Anatolia Sudorientale, che avrebbero avuto tutte le
caratteristiche proprie delle prime tribù zingare.
Questa fonte però non è mai stata considerata attendibile da molti storici
perché ritenuta imprecisa e perché forse faceva riferimento a diverse
popolazioni.
Così la fonte ritenuta unanimemente valida, resta quella dello storico arabo
Hamzah d'Hispahan (Hamzah Ibn Hasan-al-Isfalani) che, pressapoco nell'anno 950,
scrive la sua Storia dei Re di Persia. Nel testo dello storico arabo si
racconta di come il Re Behràm-Gor, che amava a tal punto il suo popolo da
permettergli di dedicare solo metà giornata al lavoro, riservando l'altra metà
alle feste e ai divertimenti, si rammaricasse accorgendosi che i musicisti
presenti nel suo Paese non bastavano a rallegrare tutti coloro che ne avevano
necessità.
Behràm-Gor allora pensò bene di chiedere aiuto al Re d'India che, da parte sua,
provvide immediatamente ad inviargli dodicimila musicisti Zott.
Alcuni decenni dopo il racconto dello storico, la stessa storia, ma con alcune
variazioni, viene riportata dal poeta persiano Firdusi nel suo poema epico Shah-Nameh,
o Libro dei Re, che narra le vicende dell'Iran dalle sue origini sino alla
conquista islamica (VII sec.).
Questa volta i musici e i giocolieri giunti dall'India non sono più gli Zott ma
i diecimila Luri che, nel 420 a.c., vengono inviati a Behràm-Gor da suo suocero
Re Shengùl di Camboya. I Luri, o Luli, che erano abilissimi nella difficile
arte del liuto, in cambio delle loro prestazioni, ricevettero dal sovrano una
grande quantità di buoi, asini e frumento, in modo che, se lo avessero
realmente desiderato, si sarebbero potuti trasformare in agricoltori, cioè
sedentari.
Ma i musici ben presto mangiarono tutti i buoi e consumarono tutto il frumento;
così non restò loro che tornare dal Re a chiedere perdono e aiuto. Behram-Gor
non li perdonò affatto, anzi li cacciò per sempre condannandoli al nomadismo.
Così scrisse Firdusi nel Shah-Nameh: ... vanno pel mondo i musici
raminghi, il viver gramo intenti a sostener. Di via compagni e compagni di
tetto han lupi e cani.
Per quanto le opere di Hamzah e di Firdusi siano considerate in parte attinenti
alla storia e in parte ad una leggenda del tutto letteraria, testimoniano
comunque che, già molto tempo prima del decimo secolo, un popolo di origine
indiana era noto in Persia per le proprie capacità musicali e per la poca
attitudine alla stanzialità.
Sul soggiorno degli Zingari in Persia, che sicuramente si è sviluppato in
periodi di tempo assai lunghi, testimoniano, ancora una volta, gli studi di
linguistica comparata. Il vocabolario di questi gruppi, e probabilmente si
trattava di differenti tribù con differenti parlate, si contaminò e si arricchì
di svariati termini persiani.
Diversi di questi termini risultano essere ancora presenti nelle parlate degli
Zingari europei, come Darav (mare) o Vés (Vos = bosco nel dialetto xoraxané dei
Roma presenti in Italia).
Gli Zingari che vivevano in Persia, secondo John Sampson, autore di «On the Ori
gin and early Migrations of the Gypsies», si divisero ad un certo punto della
loro storia in due diversi gruppi che si distinguevano per il modo di
pronunciare alcuni suoni: gli Zingari Ben e gli Zingari Phen.
Dei Ben ancora oggi si sa poco o nulla: vennero chiamati Kurbat (vagabondi) in
Siria e Zott nelle vicinanze della Palestina. A questi ultimi si riferirebbero
forse le Cronache Bizantine: un gruppo di essi sarebbe stato fatto prigioniero,
ridotto in stato di schiavitù e poi condotto all'interno dell'Impero.
L'unica cosa certa è che i Ben si diffusero in Asia Occidentale: la loro
presenza è stata documentata con certezza in Iran e nello Yemen. In Egitto,
chiamati Ghagar, vennero individuati nel XVI secolo, all'interno della valle
del Nilo, da Pierre Belon.
Gli Zingari chiamati da Sampson Phen Gypsies, si sarebbero allontanati invece
dalla Persia dopo l'invasione araba, procedendo poi verso l'Armenia, dove
acquisirono altri nuovi vocaboli (Grast = cavallo, Grah nell'attuale xoraxané).
Dalla zona transcaucasica, forse addirittura sin dall'XI secolo, quando
Bisanzio combatteva contro gli eserciti dei Turchi Selgiuchidi, presero a
spostarsi verso l'Occidente e questo esodo si fece via via sempre più
imponente.
Quando Simeon Simeonis e Ugo l'Illuminato li incontrano per la prima volta
nell'isola di Creta, secondo il De Foletier termina per sempre la loro
preistoria e inizia quella Storia che ancora oggi si tenta faticosamente di
ricostruire. Dall'isola di Creta si sparsero poi verso Cipro, Rodi e Corfù.
Qui, nel 1386, il Governatore di Venezia, tanto erano numerosi, concesse loro
diversi privilegi: confermò in pratica i diritti acquisiti da un vero e proprio
feudo, il Feudum Acinganorum, istituito in precedenza dagli Angioini e
governato da un capo militare, il Drungarius.
Tutti gli Zingari del feudo erano sottomessi al Barone che, quale tributo,
riceveva quindici aspri e una gallina per ogni adulto che avesse famiglia. Il
pagamento di questi tributi avveniva nel corso di una cerimonia che si ripeteva
tre volte all'anno, in maggio, in agosto e per il Capodanno.
Si tratterà probabilmente di una coincidenza, dato che le ricorrenze religiose
zingare si sono poi accresciute attraverso il contatto con altre popolazioni,
spesso uniformandosi ad esse, ma, oggi, nei gruppi Roma di origine slava
presenti in Italia, si festeggiano proprio gli stessi periodi dell'anno: il
Gurgevdan, o Festa di Primavera (in maggio), la Festa di Mezza estate (in
agosto), e il Capodanno, che è ricorrenza ugualmente importante.
Il maggior insediamento nel Peloponneso era forse quello di Modon, nella Morea
sud-occidentale, che, secondo il Colocci, fece dire allo scrittore bizantino
Mazonis che gli Acingani erano ormai diventati la maggioranza della
popolazione.
I territori intorno a Modon venivano chiamati «Terre del Piccolo Egitto», forse
a causa di una non comune fertilità delle campagne.
Questo insediamento mantenne la sua importanza per diversi secoli: la sua gente
viveva in capanne dal tetto di canne, esercitava il mestiere di calzolaio, o di
fabbro (utilizzando il doppio mantice di chiara origine indiana), ed appariva,
tutto sommato, abbastanza povera.
Prima delle successive migrazioni verso il cuore dell'Europa, la gente di Modon
e degli altri insediamenti zingari nell'area del Peloponneso, attinse dal greco
numerosissimi vocaboli: Drom, la strada, la parola forse più emblematica del
popolo Rom, è appunto di origine greca.
Da queste regioni, a partire dagli inizi del '400, gli abitanti del Piccolo
Egitto e presumibilmente anche quelli che risiedevano in altre zone limitrofe,
ripresero il loro secolare cammino. All'inizio forse non si trattò di una vera
e propria migrazione, bensì di qualche timido approccio teso più che altro a
saggiare la vivibilità dei nuovi sconosciuti territori, dei quali, sicuramente,
essi avevano già sentito parlare dai viaggiatori italiani, francesi, spagnoli,
tedeschi e inglesi che avevano visitato il Peloponneso.
Il Colocci riporta una delle prime descrizioni di queste carovane in cammino: «Re,
principi e capi a cavallo e la turba in confusione dietro di essi, scalza e a
capo nudo...».
Le speranze che questi primi gruppi dovevano nutrire in una nuova vita in
Occidente dovevano essere davvero grandi e altrettanto lo erano i rischi verso
i quali sarebbero andati incontro.
Alcuni altri gruppi, che già da tempo vivevano in Valacchia e in Moldavia,
erano stati ridotti in schiavitù: quaranta intere famiglie di Atsingani vennero
donate nel 1370 da Vladistas di Valacchia ai Monastero di Sant'Antonio, vicino
a Voditza. Donazione che venne poi confermata una quindicina di anni più avanti
dal Voivoda Mircea I, nipote di Vladistas.
Ma gli Zingari che si misero in cammino sembravano piuttosto capaci di
discernere le zone pericolose da quelle che sembravano essere più accoglienti.
Questa buona accoglienza, quando si verificò, durò però per poco tempo.
Poi, dappertutto, iniziarono le persecuzioni.
Capitolo terzo: in Europa
Un cavallo, che sta fermo troppo a lungo in un
posto, avrà prurito alle zampe
proverbio kalderasha
La diffusione in Europa
Secondo alcuni studiosi i nomadi che nel XV secolo
presero ad addentrarsi in Europa lo fecero essenzialmente per due motivi: la
spinta dei Turchi e la fuga dalla schiavitù. Non si sarebbe trattato insomma di
un' emigrazione dovuta solo a motivi economici.
Gli Ottomani, in rapida espansione verso Costantinopoli, la Serbia e la
Bulgaria, avevano creato, o lasciato presagire laddove ancora non erano
arrivati, un immenso territorio devastato dalle battaglie e assoggettato alle
loro dure leggi.
Gli Zingari, fra i quali anche quelli che già tentavano di allontanarsi dai
territori della Moldavia e della Valacchia nei quali erano stati ridotti in
schiavitù, cominciarono allora a costituire le prime variopinte carovane
destinate ad attraversare l'intero continente.
La primissima apparizione è in Transilvania nel 1416: centoventi «poveri
pellegrini» guidati dal Signore Emaus d'Egitto.
Un grosso gruppo entrò poi in Germania e riuscì ad ottenere dall'imperatore
Sigismondo, re di Boemia e d'Ungheria, quelle lettere di protezione che tanto
verranno utilizzate nei successivi decenni di viaggio. Un accurato esame
filologico delle copie di queste lettere - copie più o meno diffuse, al pari di
quelle papali, presso parecchie carovane zingare - ha dimostrato che le
varianti tra l'una e l'altra non erano molte: «... essi probabilmente venivano
ritoccati dagli stessi zingari, menzionando i motivi di volta in volta più
utili ai loro portatori, e le date venivano cambiate man mano che il tempo
passava».
Nel 1417 e nel 1418 lo stesso gruppo, ingrossatosi pare sino a 300 persone tra
uomini, donne e bambini, attraversa la Germania in lungo e in largo.
Visita tra le altre le città di Soest, Ltinemburg, Amburgo, Lubecca e Rostock,
Lipsia e Francoforte sul Meno.
Già dal 1418 vengono segnalati in Svizzera, nei Grigioni, a Zurigo, a Berna e a
Basilea: vengono chiamati Heiden, cioè pagani.
Dal 1419 è la volta della Francia. Il 22 agosto un gruppo di Saraceni apparve a
Chàtillon sur Chalaronne. Presentano dei salvacondotti dell'Imperatore e del
Duca di Savoia (al quale la cittadina era soggetta) e ricevono in dono vino,
avena e un po' di denaro.
Questo gruppo è lo stesso, diventato poi assai famoso, guidato dal Duca Andrea
del Piccolo Egitto.
La carovana si recò poi a Saint-Laurent de Macon, dove ebbe in dono sessantasei
Tornesi (moneta coniata dalla Zecca di Tours), e a Sisteron, dove ricevette
pane, carne di montone, vino e avena. Il Duca Andrea, nel 1420, venne ricevuto
a Bruxelles e a Deventer, nei Paesi Bassi. Dalle autorità della prima città
ricevette birra, vino del Reno, una vacca e due montoni; da quelle della
seconda birra, aringhe fresche e affumicate.
L'anno successivo, in Francia, insieme al gruppo del Duca Andrea, comparve
un'altra carovana guidata dal Duca Michele, che si diceva suo fratello e che a
Tournai si presenterà invece con l'appellativo di Principe di Latinghem in
Egitto. La città di Tournai offrì al Duca Michele dodici montoni d'oro, pane e
birra.
Nel luglio 1422 il Duca Andrea giunse in Italia. Viene segnalato prima a
Bologna, poi a Forlì, poi sulla strada per Roma, intenzionato a chiedere
protezione e nuovi salvacondotti a papa Martino V.
Gli storici non escludono che il Duca sia davvero riuscito a farsi ricevere dal
pontefice e che da esso abbia poi ricevuto alcune bolle e alcune lettere di
accompagnamento, per quanto negli archivi vaticani non vi sia traccia di una
sua visita ufficiale. Fatto sta che a partire da qualche tempo dopo, sia il
Duca Andrea che numerosi altri capi zingari, presero ad esibire documenti
firmati da Martino V.
Una traduzione di uno di questi documenti è stata ritrovata in Lorena:
«Tutte le autorità ecclesiastiche e civili sono richieste di lasciar passare
liberamente nel mondo, per terra e per mare, il Duca Andrea del Piccolo Egitto
e tutta la sua truppa, con i loro cavalli e i loro beni, senza pagare alcuna
tassa né diritto di passaggio, e sono promesse grazie eccezionali di
assoluzione (è rimessa la metà dei peccati) aifedeli che si mostreranno
generosi nei confronti di quei pellegrini».
Dei gruppi zingari che entrarono in Italia alcuni vi si stabilirono (mantenendo
però la pratica del nomadismo), altri fecero ritorno in Francia. Dei gruppi
restati in Italia, è ancora solo un'ipotesi sulla quale non tutti sono
d'accordo, forse derivano le popolazioni Rom dell' Abruzzo.
Nel 1425 gli Zingari arrivarono anche in Spagna e poi in Portogallo. Il Re
d'Aragona concesse un salvacondotto a don Johan de Egipte Menor.
In Polonia la loro prima presenza è registrata nel 1428 a Sanok, nella
Subcarpazia, dove vennero chiamati Zingari delle Montagne, ai quali si
sarebbero poi aggiunti, provenienti dalla Germania, gli Zingari delle Pianure.
Dalla Polonia essi si diffusero in Lituania e nella Prussia orientale.
Nel mentre in Francia, in Italia e nei Paesi Bassi le carovane si facevano
sempre più numerose, ma, a partire dalla seconda metà del XV secolo, cominceranno
anche le prime discriminazioni che saranno destinate, più avanti, a
trasformarsi in vere e proprie persecuzioni.
Alla fine del secolo gli Zingari si erano ormai diffusi in molte nazioni. In
Danimarca giunsero presumibilmente agli inizi del nuovo secolo, in Svezia nel
1512: il 29 settembre il Conte Antonius giunse nella città di Stoccolma.
L'arrivo in Inghilterra è dato per incerto, mentre in Scozia, dove godettero
per un certo tempo della protezione dei Re Giacomo IV e Giacomo V, l'anno sarà
ufficialmente il 1505. Più probabilmente il loro arrivo, sia in Scozia che in
Inghilterra, fu invece precedente.
Nel 1501 i primi Zingari entrarono in Russia, provenienti dalla schiavista
Valacchia. Qui riuscirono a trovare condizioni di vita tutto sommato accettabili.
Non così successe nelle altre nazioni. Furono proprio le persecuzioni subite in
Europa che portarono gli Zingari in altri continenti. In Portogallo si cominciò
a progettare organicamente la loro espulsione sin dai primi decenni del secolo,
ma solo parecchi anni dopo cominciò la vera e propria deportazione verso
l'Africa e le Americhe. I portoghesi, facendogli fare a ritroso la strada
percorsa dai loro antenati (ma solo metaforicamente dato che le deportazioni
avvenivano via mare), li rispedirono sino alla lontana India. Più avanti la
meta forzata dei Ciganos sarà anche il Brasile.
Stesso destino ebbero i Gitani spagnoli, inviati in Africa e in America. A
Buenos Aires vennero chiamati Chiganeros.
Dalla Francia vennero inviati in Martinica e in Louisiana (alcuni coloni
zingari volontari riuscirono ad ottenere delle abitazioni a La Nouvelle
Orleans).
Dalla Gran Bretagna giunsero sino alla Giamaica e alle Barbados, dalla Scozia
sino alla Virginia.
La paura della diversità
Una delle analisi che tentano di spiegare il perché
l'Europa si rivelò in una prima fase addirittura accogliente, ma poi così
crudele nei confronti degli Zingari, accredita ad essi tutte, o quasi, le
colpe.
Sarebbero stati loro quindi, con i loro comportamenti anomali (magie, trucchi e
piccole illegalità), a provocare la reazione di una società che si sentiva
minacciata e che tentò perciò in maniera legittima di eliminare con brutalità
il corpo estraneo.
Nelle cronache e nei vari resoconti dell'epoca, si mettevano in risalto
soprattutto tre aspetti:
1) La loro bruttezza fisica (questa quasi negritudine che terrorizzava una
società abituata ad identificare il «nero» come colore demoniaco).
2) Le loro capacità divinatorie (alle quali venivano
omologate, in un crogiuolo tutto stregonesco, anche alcune conoscenze di ordine
chirurgico e farmacopeico che essi realmente possedevano).
3) La destrezza nei piccoli furti, la mendicità e l'inventiva nell'esecuzione
di piccole truffe (il Cervantes parlava di «voglia di rubare e il furto» quali
sentimenti inseparabili che non si quietano se non con la morte).
Il quadro generale che vien fuori da queste descrizioni emette un giudizio
secco: gli Zingari sono tutti accattoni, ladri e imbroglioni, disonesti per
natura e incapaci di qualsiasi lavoro e di qualsiasi attività economica
autonoma e legale. In realtà le cose non stavano affatto così.
Kochanowski, nella sua accorata difesa dei Romané Chavé, ha tentato di
ribaltare i luoghi comuni: i Kshattriyas e i Rajputs destinati a diventare i
paria d'Europa, a suo parere, sarebbero stati tutto fuorché un'accozzaglia di
ladri e accattoni, e se lo diventarono fu perché, a causa delle
discriminazioni, gli fu impedito di esercitare altre professioni nelle quali
erano molto capaci.
Secondo lo studioso gli Zingari d'Europa erano abilissimi in tutte le attività
che un tempo erano state in relazione alla loro appartenenza alle caste
guerriere:
- tutto ciò che riguardava la produzione di armi bianche e da fuoco;
- l'uso di queste armi;
- la strategia militare.;
- l'arte veterinaria;
- la conoscenza delle lingue straniere.
Le donne sarebbero state invece capaci di insegnare la musica e la danza, il
teatro e l'arte delle marionette. Sarebbero state anche abilissime nella
farmacopea.
Queste tesi di Kochanowski, come in parte le accuse di mendicità e di piccola
illegalità, sono sicuramente vere.
Gli Zingari erano assai esperti di cavalli, ottimi cavalieri, ottimi
commercianti (ci fu un periodo in cui gran parte del commercio degli equini
passava per le loro mani), ottimi veterinari e, laddove gli veniva concesso,
anche ottimi allevatori. Oltre ai cavalli possedevano e commerciavano anche
asini e muli.
Un'altra risorsa economica era costituita dall'attività di ammaestratori: gli
Ursari, ancora adesso molto noti, catturavano gli orsi nei Carpazi, li
ammaestravano e con essi poi divertivano il pubblico nelle feste o nelle fiere
di paese.
Ancora oggi nella topografia rumena esistono nomi quali Ursari e Tsiganesti
Ursaria.
Questa abilità, unita a quelle nei giochi di prestigio e, più tardi, allo
sviluppo di particolari doti acrobatiche, li porterà dopo secoli di spettacoli
di piazza a costituire numerose dinastie circensi (come quelle dei Sinti
piemontesi).
In Moldavia e in Valacchia erano invece ben noti, sin dai tempi antichi, come
validi burattinai. Presso la nobiltà, che contrariamente a quanto si potrebbe
supporre spesso li proteggeva, gli Zingari d'Europa, uomini e donne, venivano
impiegati come istruttori e istruttrici di scherma: sembra che insegnassero
questa disciplina addirittura agli spadaccini francesi, che pure avevano fama
di essere tra i migliori del continente.
Nei Paesi Baschi, nel XVIII secolo, si dedicarono alla pesca d'alto mare del
merluzzo e della balena.
Ma i mestieri più classici restavano sicuramente quelli relativi all'arte del
metallo. In Romania erano noti come «discepoli di Vulcano» e qualche ziganologo
accredita proprio alla loro maestria di fabbri, chiodatori e maniscalchi la
messa in stato di schiavitù: sarebbero diventati tanto indispensabili
all'economia di quei territori che le autorità, per impedirne per sempre il
nomadismo che li avrebbe portati lontano, ne decretarono la schiavitù come un
tempo si faceva con i servi della gleba obbligati a non staccarsi dalla terra
che lavoravano.
Questa fama di «maestri del ferro» li accompagnò tanto a lungo che, nella
Palermo di alcuni secoli dopo, il Senato cittadino promulgò uno statuto per le
«Maestranze dei forgiatori seu Zingari», che annoverava tra i suoi fabbri
ferrai anche chi Zingaro propriamente non era.
Oltre che abili lavoratori del ferro i Romané Chavé furono anche buoni
calderai, cioè abili lavoratori del rame.
Queste abilità però, oltre a tessere le fila dell'invidia e della concorrenza
sleale degli artigiani occidentali, non mancarono di creare nuove diffidenze
nei loro confronti.
Secondo la Narciso la civiltà europea: «... associava la metallurgia agli dei
rappresentativi del male. Nell'immaginario collettivo, i laboratori dei fabbri
e dei maniscalchi, la luce rossiccia del fuoco che illuminava i volti di quegli
uomini ricordavano le rappresentazioni iconografiche dell'inferno. I fabbri,
sorta di artefici-stregoni, vivevano ai margini delle città; il loro mestiere,
e persino il loro aspetto fisico, i loro abiti rozzi e la fuliggine che
anneriva i loro volti simboleggiavano nel folklore europeo, i segni visibili
della loro appartenenza al regno di Satana».
D'altra parte gli stessi Zingari non smentivano affatto queste paure: anzi
spesso si vantavano di avere magici poteri sul fuoco. Il che, a lungo andare,
non mancò di aggiungere calunnia a calunnia.
Innumerevoli furono comunque le altre attività svolte. Furono minatori in
Bosnia; cercatori d'oro in Transilvania, in Moldavia e in Valacchia; artigiani
del vimini e del legno nei Balcani e in Francia; commercianti ambulanti sempre
in Francia e in tutte le altre nazioni.
Non si può inoltre scordare la loro abilità come musicisti, abilità per la
quale, nella letteratura mondiale, la parola zingaro è diventata sinonimo di
musicista.
In realtà non era dunque vero che essi non sapessero esercitare alcuna
attività: ma questi mestieri, nella generalità dei casi, venivano loro vietati
nell'Europa occidentale, soprattutto per il volere delle potenti corporazioni
degli artigiani e dei commercianti, che facevano pressione nei confronti delle
autorità civili e religiose perché agli Zingari venissero proibite pari
opportunità.
I forgiatori parigini, per esempio, pretesero in un determinato periodo
l'allontamento dei Nomadi dalla città e la stretta sorveglianza di tutte le
forge in modo che fosse impedito loro di utilizzarle.
In questo modo, nell' economia di un popolo che prima di ogni altra cosa
desiderava poter preservare la propria autonomia e la propria unità etnica
all'interno delle aggregazioni basate sui grandi Clan familiari, non potevano
non assumere preponderante importanza altri tipi di attività che, per motivi di
diverso ordine e grado, irritarono popolazioni e autorità.
Prima fra tutte l'arte divinatoria, esercitata dalle donne. Un'arte che,
ovviamente, a loro stesso dire, era solo un espediente per poter sopravvivere e
che faceva leva sulle superstizioni tipiche della cultura occidentale.
La moglie del Duca Andrea del Piccolo Egitto, nel 1422 a Bologna, diceva che «...
la sapeva indivinare e dire quello che la persona dovea havere in soa vita et
anche quello che havea al presente, et quanti figliuoli haveano et se una
femina gli era bona o cativa, et s'igli haveano difecto in la persona; et de
assai disea el vero e de sai no».
Questa abitudine, che provocò la condanna irremovibile della Chiesa, risultava
peraltro essere assai ricercata non solo dalla gente del popolo, ma anche dai
cavalieri, dalla nobiltà e, in qualche caso, addirittura da Re e Imperatori.
Molto probabilmente, come ha scritto Frascari: «... fu la domanda che aumentò
l'offerta, indirizzandosi spontaneamente verso un popolo che, per sua indole
naturale, aveva sempre amato avvolgersi nel mistero, stupendo e meravigliando
il grigio occidente con ogni sorta di malie e furbizie».
Gli Zingari insomma si adattarono, per necessità, ad impiegare la loro arguzia
ai danni di una civiltà che in quei secoli viveva una religiosità contorta e
violentemente intrisa della paura del male, proiettata, ancora a metà strada
tra paganesimo contadino e mistica cittadina, verso un futuro carico di oscuri
presagi. Certamente furono le stesse paure che permettevano agli Zingari di
vendere le loro «predizioni», che poi favorirono in modo consistente le
persecuzioni.
Insieme alle arti divinatorie le Zingare esercitavano anche quelle della magia
bianca e della guarigione, possedendo, almeno nel secondo caso, doti e
conoscenze che certo non erano inferiori a quelle dell'epoca. Conoscevano l'uso
delle erbe medicinali e gli stessi unguenti, le stesse pozioni che vendevano ai
gagé, venivano da loro utilizzate per guarire la propria gente.
L'attività della medicina veniva praticata anche dagli uomini. Parecchi di essi
si definivano erboristi e chirurghi: dovettero dimostrarsi assai capaci se, in
un certo periodo, i chirurghi olandesi presero a fare tirocinio presso di loro.
Ma anche questa attività, così come i tradizionali mestieri, venne loro
proibita.
N on c'è quindi da stupirsi se lo stereotipo più pregnante costruitosi nel
corso dei secoli, e rimasto intatto sino ai giorni nostri, sia quello dello
Zingaro mendicante e ladro. Per essere ladri e mendicanti, data l'epoca e le
ristrettezze a cui erano sottoposti, non ci voleva poi molto: in Europa non
furono certo loro ad importare una pratica che era tanto diffusa da essere
considerata una vera e propria piaga sociale.
A partire dal '400 diversi opuscoli divulgativi si occuparono specificatamente
del vasto mondo dell'accattonaggio e del piccolo imbroglio. Un mondo tanto
vasto da richiedere addirittura opportune classificazioni. Teseo Pini,
ecclesiastico e giurista di Urbino, nel suo «Speculum Cerretanorum», enumera
ben quaranta diverse categorie di mendicanti e truffatori: tra queste quelle
dei Cerretani, degli Affrates, dei Falsibordones, degli Acatosi, degli Affarfantes,
degli Acapones, dei Felsi, dei Pauliani, dei Bigamizantes etc. Ma, per quanto
diffusa, l'attività dell' accattonaggio e della piccola illegalità non venne
certo perdonata ai Nomadi.
Così la buona accoglienza riservatagli inizialmente venne ben presto a mancare
e, se buona accoglienza era stata, lo era stata solo in virtù del rispetto, o
del timore, dovuto a quelle credenziali papali e imperiali che gli Zingari
erano stati tanto previdenti da procurarsi.
La loro oscura origine, i loro usi e costumi che si mantenevano ostinatamente
autonomi e differenti da quelli circostanti, il loro stesso tipo fisico e la
pratica del nomadismo, provocarono condanne, calunnie, miti e leggende
mostruose.
Un religioso, Pierre Crespot, dice: «... sono dediti a magie e incantesimi e
non hanno religione alcuna. Fanno professione di stregoneria...».
Sancho de Moncada, teologo spagnolo, li considera atei ed eretici. Cattolici,
calvinisti e luterani (Lutero in persona), gli erano profondamente ostili. Ai
sacerdoti protestanti svedesi venne impedito di battezzare i bambini zingari e
di seppellire i morti. Agli stessi Zingari venne proibito l'accesso nelle
chiese.
Nel XVII secolo, ma in alcune nazioni assai prima, si proibì alla popolazione
civile di avere un qualsiasi contatto con la gente nomade: non si poteva
ospitarla, frequentarla, parlarle, venderle generi di prima necessità.
Fra i tanti errori commessi dai «Figli del Vento», ciò che restava
imperdonabile ed imperdonato, era l'antagonismo irrinunciabile ai tre massimi
poteri dell'epoca: antagonisti agli Stati, perché portatori di proprie leggi;
antagonisti alle Chiese, perché capaci di arti divinatorie proprie e perché
poco propensi ad una reale conversione; antagonisti alle corporazioni dei
commercianti, dei musici e degli artigiani, perché abili commercianti, abili
musici, abili artigiani.
Ma a questo non c'era più modo di porre rimedio. Il cerchio si era chiuso:
iniziarono le persecuzioni e l'etnocidio.
Le persecuzioni
Mirella Karpati così ha scritto sulle persecuzioni che
si scatenarono soprattutto a partire dagli inizi del XVI secolo: «Per secoli la
forca, il rogo, il bando e la frusta accompagnarono la sorte di un'etnia cui la
squisita sottigliezza occidentale negò perfino natura e condizione umana,
equiparandola alle bestie, ai vampiri e ai lupi mannari, determinando
parallelamente quella inquietante angoscia della condizione zingara».
La Karpati non esagera. Ciò che si fece contro l'etnia zingara, e spesso erano
le autorità religiose a pretendere che le autorità civili attuassero le
repressioni, assomiglia molto ad uno sterminio pianificato e portato avanti
senza tentennamenti.
Il primo provvedimento di espulsione degli indesiderati stranieri è quello del
1471 in Svizzera. L'Assemblea di Lucerna ne decretò l'allontanamento. In Spagna
la repressione inizia nel 1492, anno emblematico per la cultura europea:
Colombo apre la strada agli eserciti cattolici in America ed in patria un
editto voluto dalla Santa Inquisizione scatena la soldataglia contro i Marranos
(gli Ebrei convertiti), i Moriscos (i musulmani convertiti) e i Gitanos.
Ferdinando il Cattolico promulgò una serie di disposizioni durissime che
vennero poi confermate nel 1494 con la Prammatica di Medina del Campo, voluta
dall'arcivescovo Cimenez de Cisneros. Gli Zingari si nascosero nelle montagne e
dalla latitanza aspettarono, inutilmente, che i tempi sfavorevoli venissero a
cessare: le alternative erano quelle di abbandonare la nazione o di essere
puniti con cento colpi di frusta (che significava morte certa) e con il taglio
delle orecchie, oppure, ancora, di diventare schiavi, come successe agli Ebrei,
di padroni spagnoli.
Infine la maggior parte dei Gitani si piegò a queste ordinanze: molti tra i
«Figli del Vento» vennero ridotti in schiavitù.
Nel periodo tra il 1499 e il 1748, in Spagna si emanarono 28 Prammatiche reali,
o Decreti del Consiglio di Castiglia, contro la popolazione zingara che tentava
con ogni mezzo di riacquistare la propria libertà. Altri venti Decreti vennero
emessi da altre città della Navarra, dell' Aragona e della Catalogna.
La Dieta di Augusta, promotore l'imperatore Massimiliano I, emette la prima di
una serie di ordinanze, nel 1500: gli Zingari che non si fossero allontanati
prima della Pasqua potevano diventare soggetti ad una caccia all'uomo e coloro
che li avessero uccisi non sarebbero stati perseguiti dalla legge.
Questo tipo di provvedimenti, nei secoli XVI, XVII e XVIII, vennero presi a
decine in quasi tutti i Paesi europei: la vita degli Zingari si trasformò in
una perenne fuga, costellata d'imprigionamenti, deportazioni, torture ed
uccisioni.
In Francia il più importante Editto è del 1504, nei Paesi Bassi del 1524, in
Inghilterra del 1530. I Gypsies, secondo la Regina Elisabetta, che emise più
avanti altri provvedimenti, avrebbero dovuto abbandonare il nomadismo,
dimenticare i propri usi e costumi e mettersi al servizio di padroni inglesi.
Nella zona di Milano la prima di una sessantina di Gride è del 23 aprile 1506:
gli Zingari vengono accusati di propagare la peste. Devono essere allontanati,
pena la fustigazione, e nessuno può più avere contatti con loro: «... facciamo
pubblico comandamento che zingari ed accattoni non possano venire né stare nel
dominio sotto pena di tre tratti di corda, per ciascuno ed ogni volta che si
trovino a contravvenire, e a quelli che li lasceranno passare e li alloggeranno
in questo regale dominio, fiorini venticinque d'applicare come sopra ogni
volta...».
Circa un secolo più avanti un'altra Grida incita i cittadini a farsi giustizia
da soli: gli stranieri che non si fosse riusciti a fare prigionieri potevano
essere impunemente assassinati e i loro averi sarebbero diventati proprietà
degli assassini senza che «... s'abbia ad interessare il regio fisco»! .
Nel 1549 il Senato di Venezia ne decretò l'espulsione, più avanti decretò la
pena a dieci anni di prigione e più avanti ancora l'uccisione, di uomini e
donne, che avrebbe procurato ai carnefici la somma di dieci ducati.
Nella zona di Parma, trecento Zingari che avevano acquistato una tenuta in
campagna, vennero tutti sterminati da una folla incitata e guidata da un
signorotto locale. Secondo il Colocci, in Scozia, cessata la tradizionale
protezione dei sovrani, gli uomini zingari venivano impiccati e i bambini
marchiati a fuoco sulle guance.
Nel 1570 il papa Pio V ordinò che gli Zingari venissero imprigionati nelle
Galere pontificie che combattevano contro i Turchi. Si fece lo stesso in
Francia, in Spagna e in Portogallo, mentre la Svizzera vendeva i suoi Nomadi
agli Stati marittimi.
In Svezia, in Danimarca ed in altre nazioni i Rom potevano avere salva la vita
se si fossero arruolati negli eserciti, cosa che parecchi di loro fecero.
La Russia fu invece uno dei pochi Stati che risparmiò il Popolo Errante: si tentò
a più riprese di fermare il nomadismo ma senza giungere a severi provvedimenti
di legge. Nel resto d'Europa invece, man mano che trascorrevano gli anni, la
caccia allo Zingaro divenne attività quasi consueta e le uccisioni si
susseguivano alle uccisioni.
Agli inizi del XVIII secolo il Governatore delle Province Unite dei Paesi Bassi
dette il via ad un' azione di sterminio totale: alcuni decenni dopo non un solo
Zingaro, uomo, donna o bambino, rimase in vita. Il De Foletier ha scritto che
nel 1725, nella città di Zaltbommel, dieci uomini vennero prima strangolati «a
metà», poi sottoposti al tormento della ruota, infine decapitati. Le loro teste
vennero esposte al popolol2.
In Danimarca, nel resoconto di una battuta di caccia effettuata da un
signorotto locale e dai suoi servitori, tra le prede uccise figuravano «un
gitano e il suo piccolo».
In Germania si eressero le forche, in Castiglia, in Boemia e nel Milanese si
mutilavano le orecchie sia alle donne che agli uomini. In Transilvania secondo
quanto riportato da Kenrik e Puxon, un proprietario terriero, riferendosi a
quanto fatto su un suo schiavo si vanta in questi termini: «Alla domanda della
mia cara sposa, l'ho fatto picchiare con delle canne sulle piante dei piedi
fino a che non colasse il sangue, poi l'ho obbligato ad immergerli in una forte
soluzione caustica. Dopo ciò, per farlo punire di parole sconvenienti, gli ho
fatto tagliare il labbro superiore, che ho fatto arrostire, e l'ho poi
costretto a mangiarlo».
Una cronaca tedesca riporta il risultato di un'altra battuta di caccia: un
daino, cinque caprioli, tre cinghiali grandi e dieci piccoli, due zingari, una
zingara ed uno zingarello.
A Frauenmark, in Ungheria, nell'estate del 1782, un gruppo di Cziganyok, venne
accusato di assassinio. Sotto tortura uno di essi, sospettato di aver fatto
scomparire alcune persone che invece più tardi si scoprirono vive e vegete,
urla esasperato: li abbiamo mangiati!
Prima che sul posto venisse inviata da Giuseppe II una commissione d'inchiesta
che decreterà la piena innocenza dei poveretti, e mentre l'Hamburger Neue
Zeitung di Amburgo elevava a 88 il numero delle persone divorate dai nuovi
cannibali, quindici uomini vennero impiccati, sei smembrati, due squartati.
Diciotto donne vennero decapitate.
Gli Zingari non erano nelle condizioni di potersi difendere dalle leggi
dell'epoca, dato che la prima e inconfutabile responsabilità restava proprio
quella di essere Zingari. In alcune sentenze emesse in Francia, queste furono
le motivazioni delle condanne: «in quanto zingaro e vagabondo», «zingaro
confesso», «zingaro secondo la dichiarazione del Re». L'appartenenza alla
propria etnia era ormai diventata sinonimo di mostruosità: l'anima più nera
dell'Occidente, avvinta nei propri incubi più tetri, aveva decretato la morte, con
la violenza o la sottomissione, di un intero Popolo.
Il nomadismo ormai non era più solo una libera scelta, la filosofia di vita si
era tramutata in una incontenibile volontà di fuga, alimentata dal sospetto e
dalla paura, più che legittima, verso la società sedentaria e inumana dei gagé.
I tentativi di assimilazione forzata
Sul finire del Settecento e nel corso
dell'Ottocento, in molte nazioni avvengono significativi mutamenti nel rapporto
tra autorità e Zingari. In altre la situazione non cambiò affatto. Nella
Francia rivoluzionaria le parole d'ordine di «liberté, egalité et fraternité»
di certo non riguardavano i Nomadi: si verificarono ancora le consuete cacce
all'uomo e le donne, i bambini, i vecchi e i malati venivano internati in
ospizi per mendicanti dove la mortalità era elevatissima.
In Ungheria ed in Boemia invece le autorità decisero di seguire un'altra
strada. Maria Teresa d'Asburgo, Imperatrice e Regina di Boemia e di Ungheria,
considerata una sovrana «illuminata», nel 1768 e nel 1773 emanò nuove leggi
che, almeno nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto «civilizzare» gli Zingari e
renderli con ciò cittadini uguali agli altri.
Venne così impedito loro di abitare nelle tende, di spostarsi, di esercitare i
mestieri tradizionali. Anche il loro nome venne abolito per legge. Da quel
momento in poi si sarebbero dovuti chiamare Nuovi Magiari, oppure Nuovi Coloni.
Ovviamente anche la loro lingua venne vietata.
Nel 1773, nel Palatinato di Presburgo, a Fahlendorf, un provvedimento che
basava la sua validità giuridica sulle nuove leggi volute da Maria Teresa,
strappò tutti i bambini zingari sopra i cinque anni alle loro famiglie e li
affidò a famiglie contadine che si assunsero, dietro compenso, l'onere di
educarli a una vita considerata più civile.
Uomini e donne zingare, come impazziti, abbandonarono le case nelle quali si
erano faticosamente abituati a vivere, vendettero tutte le loro cose e, prima
di rifugiarsi sulle montagne o nelle pianure, si dettero a violenze e
saccheggi.
La maggior parte dei fanciulli zingari sottratti con tanta brutalità alle
proprie famiglie riuscirono a fuggire.
Nonostante l'evidente fallimento di questo nuovo tipo di repressione, Giuseppe
II, il figlio di Maria Teresa che aveva salvato i superstiti di Freuenmark
accusati di cannibalismo, nel 1782 promulgò un' altra legge tesa ad assimilare
forzatamente gli Cziganyok.
Ecco, tra le altre, alcune disposizioni contenute nella legge:
- tutti gli Zingari, adulti e bambini, dovevano essere istruiti alla religione
cristiana;
- i bambini non dovevano più circolare nudi e non dovevano più dormire nelle
tende insieme alle bambine;
- il vestire, il mangiare e il parlare dovevano uniformarsi alle usanze locali;
- non potevano più possedere cavalli, né commerciarli;
- dovevano essere costretti all' agricoltura, pena pesanti punizioni
corporali;
- dovevano abbandonare 1'abitudine alle feste e alla musica.
Più avanti, tra quelli che rifiutarono di adeguarsi alle nuove norme, diverse
furono le sentenze capitali.
Come in Ungheria anche in Spagna si verificò un tentativo di cambiamento.
Carlo III, sovrano illuminato, nel 1778 dichiarò formalmente che i Gitani non
costituivano un popolo né ladro, né abietto per natura. Però, a suo parere, non
costituivano neanche un popolo, un'etnia: si trattava semplicemente di una
congrega di fuorilegge.
Anche in questo caso ne venne abolito il nome originale e si cercò di
cancellarne 1'origine, ma, tutto sommato, il tentativo di etnocidio culturale
si rivelava meno doloroso del tentativo di genocidio che l'aveva preceduto.
Carlo III, in una sua Prammatica, stabiliva così l'obbligo alla residenza
fissa: in quaranta città spagnole vennero costruiti degli alloggi, veri e
propri quartieri chiamati Gitanerie, riservati esclusivamente ai Kalé.
Nell'Ottocento questi tentativi di assimilazione forzata si moltiplicarono,
grazie anche agli interventi della. Chiesa che chiedevano, più che una
repressione sanguinosa, un progetto di «educazione» generalizzato e, perché no,
coatto.
Nel 1843 aveva finalmente termine la schiavitù degli Zingari della Valacchia e
della Moldavia, grazie ai primi interventi dei principi Alessandro Ghika e
Bubesco, che liberarono quelli assoggettati allo Stato. Dopo una decina di anni
tutti gli schiavi Cigains della Moldavia e della Valacchia, sia quelli che
appartenevano alla Chiesa e sia quelli che appartenevano ai privati, erano
stati affrancati dalla schiavitù.
Il panorama culturale europeo sembrava aver mutato opinione sui «Figli del
Vento»: complice il romanticismo lo Zingaro si era via via trasformato nel
perfetto prototipo del Buon Selvaggio, libero dai ceppi e dalle costrizioni del
vivere civile.
Anche lo ziganologo Colocci, scrivendo sul fallimento dei tentativi
d'integrazione forzata, sembra lasciarsi trascinare dall' onda lunga del romanticismo:
«Lo Zingaro non si mescola mai con lo straniero da cui lo separa un abisso
profondo che nulla saprebbe colmare. Come l'uomo civilizzato risalirebbe la
corrente dei taciti sillogismi dell'uomo selvaggio? Il primo parte dal
principio che la sicurezza sia condizione fondamentale della felicità, la pace
il suo principale elemento, l'abitudine il suo più dolce regalo, il benessere
materiale il suo frutto più prezioso, la stabilità il suo indispensabile
corollario. Il secondo ride della sicurezza giacché non gli manca mai nelle sue
inaccessibili caverne, non sa cosa sia l'abitudine ma intendendo lo ne prova
orrore, non si cura del benessere materiale e beffeggia la stabilità esaltando
i piaceri della sua vita mobile, incerta, perigliosa e gioconda».
Ma, scrittori e poeti a parte, nella seconda metà dell'Ottocento la questione
zingara divenne pian piano un problema di polizia, e non cessò mai di essere un
problema razziale.
Nasceva in quegli anni una forma di razzismo più sottile e infinitamente più pericolosa,
ammantata delle teorie pseudo-scientifiche che, padri lo scientismo e il
positivismo, produssero le aberrazioni antropologico-criminali di Cesare
Lombroso, la cui eredità ideologica così ben si coniugò con le teorie del mondo
accademico tedesco prima e sotto il nazionalsocialismo.
Francesco Predari, che scrisse a più riprese di cose zingare, e che apparteneva
alla scuola del Lombroso, definì gli Zingari «un cancro sociale» e lodò i
provvedimenti assunti da Maria Teresa e da suo figlio Giuseppe II, lamentandosi
peraltro che tali provvedimenti non fossero stati assunti anche da altrenazioni
europee.
Lombroso e i suoi discepoli, le cui teorie scientifiche erano ritenute valide
anche in altre parti d'Europa, certo non giudicavano la razza zingara in base a
paure ancestrali o alle alterità magico-religiose che tanta paura fecero nei
secoli precedenti. Più concretamente cercarono di dimostrare la «naturale
devianza» zingara attraverso una serie di dati antropometrici e morfologici ai
quali accreditavano una particolare valenza: quella di manifestare
esteriormente una tara ereditaria di tipo razziale. Questi dati venivano poi
paragonati, alla ricerca di conferme e smentite, con quelli raccolti su altri
soggetti in odore di devianza: sardi dell'interno, briganti meridionali,
criminali recidivi, negriti e boscimani.
Secondo Lombroso, gli Zingari erano «... un 'intera razza di delinquenti e ne
riproducono tutti i vizi e Le passioni: L'oziosità, L'ignavia, L'amore per
l'orgia, l'ira impetuosa, La ferocia e La vanità. Le Loro donne sono più abili
neL furto e vi addestrano i Loro bambini».
L'antropologo, basandosi sugli studi del Weisbach che aveva riscontrato una
forte ridondanza di Zingari dolicocefali in diverse tribù da lui esaminate, non
poteva non arrivare alle stesse conclusioni alle quali, lui e altri della sua
scuola (come l'Orano e il Niceforo), erano giunti sui sardi barbaricini e del
villacidrese: anche i Rom erano da considerarsi, né più né meno, veri
delinquenti di natura.
Più avanti, sul venire del Novecento, anche per i molti Nomadi che si erano
sedentarizzati o semisedentarizzati, come i Gitani spagnoli, i Rom abruzzesi,
gli Zigani ungheresi ed altri, la prova più dura dovrà ancora arrivare: la
genetica, alleata dell'antropologia e della psichiatria, preparava, sotto il
vessillo della ideologia nazionalsocialista, lo sterminio di tutti gli Zingari.
Capitolo quarto: lo sterminio nazista
(...) Il piccolo era una bellezza. Indossava una
sontuosa uniforme bianca costituita da lunghi pantaloni bianchi dalla riga ben
stirata, una giacca con i bottoni d'oro, una camicia da uomo e una cravatta.
Noi fissavamo come stregate quel bambino stupendo. (...) «Mostra loro come
balli il Kozak» disse Mengele e iniziò a battere ritmicamente le mani. Il
piccolo allora iniziò a scalciare i talloni pur mantenendo la posizione seduta.
Era stupefacente.
«E ora canta una canzone».
Il piccolo cantò un'ammaliante melodia zingara. Noi continuavamo a stare
sull'attenti mentre il bambino si esibiva di fronte a Mengele. Era evidente che
a Mengele piaceva. (...) È strano, ma in mezzo a tutta questa carneficina noi
riuscivamo a chiederei solo una cosa: Mengele aveva intenzione di salvare quel
bambino bellissimo dalla camera a gas? Ma il giorno dopo egli sfilò per il
Campo senza il piccolo zingaro...
testimonianza da Auschwitz (da Storie e fiabe degli
zingari di D. Tong-Guanda)
I sommersi
Il 20 ottobre 1945 iniziò il Processo di Norimberga:
imputati i criminali di guerra nazionalsocialisti. Un anno più tardi, nei
dispositivi di sentenza, soltanto poche righe ricordavano lo sterminio del
Popolo zingaro: « I gruppi di azione ricevettero l'ordine di fucilare gli
Zingari. Non fu fornita nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo
popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli ha donato al mondo, con musica e
canti, tutta la sua ricchezza, dovesse essere braccato come un animale
selvaggio. Pittoreschi, negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e
divertimento alla società, l'hanno talvolta stancata con la loro indolenza. Ma
nessuno mai li ha condannati come una minaccia mortale per la società
organizzata, nessuno tranne il nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di
Himmler, di Heydrich, ordinò la loro eliminazione».
In queste poche frasi della sentenza, nella quale si mostra peraltro di
ignorare la Storia degli Zingari in Europa e le persecuzioni avvenute in
passato, c'è tutta la povertà d'indagine, l'indifferenza è la superficialità
con le quali il tentativo di genocidio zingaro è stato sbrigativamente ignorato
non solo dai tribunali di guerra ma anche dalla stragrande maggioranza degli
storici che ricostruirono il fenomeno hitleriano.
Sicuramente ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che gli Zingari, gente per
la gran parte nomade, non ha mai avuto una Storia facilmente ricostruibile e,
di conseguenza, anche le operazioni di sterminio che su essi si abbatterono
ebbero come unici riscontri o le testimonianze dirette o i pochi documenti
nazisti che si salvarono dalla distruzione.
Ma io credo che questo scarso impegno degli storici sia dovuto, anche e
soprattutto, al fatto che pochi di essi furono realmente interessati a questa
parte della Storia che, ancora oggi, resta in gran parte «sommersa», tutta da
«salvare», tutta da ricostruire.
Eppure la ricomposizione di questa parte della Storia,
la messa in risalto di ciò che successe ai Rom, potrebbe essere di grande aiuto
per un'analisi più completa del fenomeno nazionalsocialista sin dalle sue
origini.
Quando oggi si disquisisce dell'ideologia nazista, e dei sui tentativi di
genocidio, si accentra l'attenzione sul massacro del Popolo ebreo. E ciò è
corretto se, oltre la quantità numerica dello sterminio, si pensa a quanto
furore, a quanta spietata volontà di morte, a quanta mostruosa sapienza
tecnologica vennero impiegate dai tedeschi nella loro opera che colpì, primi
fra tutti, proprio gli Ebrei.
Tuttavia ciò può portare facilmente ad un grave errore: l'odio verso gli Ebrei,
che si nutriva degli incubi mistico-demoniaci, politici ed economici della
Germania post-Weimar, sembra quasi diventare la motivazione prima di un
razzismo che invece aveva ben altre basi ideologiche e scientifiche e che per
questo era infinitamente più pericoloso. Questo errore è sicuramente dovuto
anche al fatto che ciò che sin ora si è posto in primo piano è stato l'aspetto
politico del nazionalsocialismo, interpretato come una macchina di
sopraffazione perfettamente organizzata, capace di rielaborare, tutt'al più in
maniera rozza e imperfetta, l'ideologia germanica preesistente e di piegare ai
suoi voleri la scienza e la tecnologia.
In realtà, e la storia dell' eccidio degli Zingari lo dimostra (poiché esiste
un filo continuo tra le persecuzioni avvenute prima e dopo l'avvento di
Hitler), la vera essenza dell'inenarrabile, della mostruosità ideologica,
sonnecchiava all'interno del mondo culturale e scientifico germanico, pronta a
risvegliarsi e a trovare braccia e gambe che l'avrebbero fatta forte e portata
lontano.
Come separare il «dopo», da tutto quanto ben «prima» era stato teorizzato? Come
dissociare il mito della storica missione della Deutsche Nation di Fichte, i
deliri di purezza razziale di Jahn, il fanatismo intellettuale del Circolo di
Bayreuth, l'Alldeutschtum (il pan germanismo) di Von Treitschke, l'orrida
prevvegenza di Ploetz, da tutto quello che poi successe?
Benno Miiller-Hill, Direttore dell'Istituto di Genetica all'Università di
Colonia, muovendosi su un terreno infidamente minato per l'ostracismo
manifestato dal mondo accademico tedesco, ha ricostruito dall'interno, dal
mondo degli antropologi, degli eugenisti e degli psichiatri, il massacro
razziale degli Zingari e delle altre razze, o categorie della propria razza,
ritenute inferiori.
L'analisi dello scienziato tedesco non può non riportare alla memoria quanto da
altri già espresso sul nostro Lombrosismo, e su quanto esso avrebbe potuto
rivelarsi letale, se non si fosse sviluppato all'interno di una cornice
culturale che aveva già in sé gli anticorpi scientifici e filosofici atti a
contrastarlo.
Benno Miiller-Hill, chiedendosi perché lo sterminio degli Zingari, degli Ebrei
e dei malati di mente fosse avvenuto proprio in Germania e non negli altri
stati fascisti (se non per contagio), trova questa risposta: «La Germania
apparteneva ai paesi che erano guide mondiali nel campo della scienza e
dell'industria. La psichiatria e l'antropologia erano ancora le migliori e le
più sviluppate. (...) Quando Hitler prese il potere, psichiatri ed antropologi
ne furono entusiasti, poiché vedevano in lui il realizzato re e il promotore
delle loro idee».
Alla sua cronaca degli eventi, in relazione al primo periodo del Novecento
tedesco, mancano però un preambolo e una data importante: la Germania è sempre
stata la nazione nella quale gli Zingari sono stati assoggettati, repressi o
trucidati più che in altre parti d'Europa e già nel 1899, a Monaco di Baviera,
esisteva uno specifico Ufficio di Polizia che si occupava esclusivamente di
loro e che poi si trasformò nella Centrale Nazionale delle questioni zingare.
Queste, tra le altre, alcune delle date ritenute fondamentali da Benno
Muller-Hill:
- 1900: vengono riscoperti i lavori di Mendel. Gli scienziati tedeschi credono
di trovare conferme sull' eredità di intelligenza e patologia attraverso la
genetica mendeliana. «Essi pensano che sarebbe loro compito impedire l' aumento
sia delle razze inferiori che degli inferiori della propria razza, onde evitare
l'imminente tramonto della cultura europea»4;
- 1904: fondazione degli Archivi per le razze e per la biologia sociale;
- 1905: fondazione dell' Associazione per l'igiene razziale;
- 1920: il giurista Binding e lo psichiatra Hoche pubblicano il libro «La
liceità di terminare la vita indegna di essere vissuta»;
- 1923: Adolf Hitler, in carcere dopo il putsch di Monaco, legge il libro di
Baur-Fischer-Lenz «Eredità nell'uomo e igiene razziale», dal quale trae spunto
per l'idea razziale esposta in «Mein Kampf»;
- 1927: viene fondato a Berlino il KWI (Kaiser Wilhelm Institut) per
1'antropologia, la genetica e l'eugenica;
- 1932: si raccomanda una legge (l' Eugenica per il benessere del popolo) tesa
alla sterilizzazione degli inferiori;
- 1933: il ministro della Giustizia Guertner sollecita una legge che proibisca
i matrimoni interrazziali;
- 1933: l'antropologo Fischer, eletto rettore dell'Università di Berlino,
definisce la politica del Governo come politica biologico-demografica, cura
dell'importanza vitale dell' eredità e della razza e orientata alla selezione e
all'eliminazione;
- 1934/35: presso il KWI si tiene il primo corso in antropologia per i medici
delle SS;
- 1936: il ministro degli Interni ordina un rilevamento di biologia ereditaria;
- 1936: lo psicologo e psichiatra R. Ritter inizia, con l'appoggio della
Società Tedesca per la Ricerca, presso il Centro di Igiene Razziale e di
Ricerche politico-demografiche, il lavoro sugli Zigani;
- 1938: Ritter riceve un contributo di 15.000 marchi per i suoi studi sulla
asocialità e sulla biologia degli ibridi (Zigani ed Ebrei); -
1938: si discute la possibilità di una legge che preveda la
sterilizzazione e
il Campo di Concentramento per tutti gli
asociali;
- 1939: 10 settembre, Ritler inizia la seconda guerra mondiale.
In tutto questo periodo i contatti tra scienziati e uomini di potere si
mantennero ovviamente molto stretti. Scienza e politica, ed era la seconda a
trovare nella prima l'oggettività e la credibilità ideologica delle quali
abbisognava e per le quali non era sufficiente la sola volontà di potenza, si
trovarono unite nel progetto di sterminio.
Un progetto di sterminio che, prima ancora che sugli Ebrei e sugli Zingari, si
abbatté sui diversi della stessa razza tedesca: i malati di mente e i disabili
gravi vennero uccisi a decine di migliaia grazie ad apposite istruzioni su
quello che Ritler chiamava «diritto all'eutanasia».
Sugli Zigani, che non scatenavano nella borghesia nazista incubi di natura
mistico-religiosa, né appetiti economici, né tanto meno fobie di tipo politico
(Ebrei=comunisti), si perpetrò l'accusa di costituire una razza, sì di origine
indo-ariana, ma ormai impura e del tutto inutile e asociale.
Gli studi del prof. Ritter e della sua assistente Eva Justin, dovevano
dimostrare che i 30.000 Zigani tedeschi, dei quali solo 5.000 ancora nomadi,
erano ormai divenuti un gruppo razziale «ibrido» e perciò destinato all'
eliminaZIOne.
Questa la classificazione che Ritter e Justin fecero degli Zigani tedeschi:
- Z = zingaro puro;
- ZM = zingaro meticcio;
- ZM 1 = metà zingaro e metà tedesco;
- ZM2 = metà ZMl e metà tedesco;
- ZM+ = zingaro più che a
metà;
- ZM- = tedesco più che a metà;
- NZ = non zingaro.
Il 20 gennaio 1940 il prof. Ritter scrive che «gli Zigani non erano affatto
Zigani, bensì ibridi con il sottoproletariato dei criminali e degli asociali
tedeschi». (...) «... si rivelò la possibilità di constatare che più del
90% dei cosiddetti Zigani indigeni siano degli ibridi. Ne segue che per un
incrocio razziale indigeno, gli Zigani si mescolano prevalentemente con
vagabondi, asociali, criminali ed a causa di ciò si è prodotto un
sottoproletariato di Zigani e vagabondi, che è costato allo Stato somme
incalcolabili per l'assistenza. (...) Come ulteriore risultato della ricerca,
abbiamo osservato che gli Zigani sono del tutto primitivi dal punto di vista
etnologico, ed il loro ritardo spirituale li rende incapaci all'adattamento
sociale. (...) La questione zigana potrà dunque considerarsi risolta, solo
quando il grosso degli ibridi zigani, asociali e fannulloni, sarà riunito in
grandi campi mobili di lavoro, e quando l'ulteriore aumento di questa
popolazione mista sarà definitivamente impedito. L'istinto di ricerca
sull'igiene razziale è già oggi capace di esprimersi oggettivamente sul grado
di mescolanza e sul valore ereditario di ogni singolo così detto Zigano,
cosicché per la messa in atto di misure di igiene razziale non ci sono più
problemi... »
Ma già nel 1936, secondo Mirella Karpati, erano
cominciate le misure di igiene razziale.
Convogli di Zigani erano stati inviati nel Campo di Concentramento di Dachau:
era iniziata la soluzione finale.
Con l'inizio della guerra le deportazioni si fecero più massicce e, in ogni
nazione occupata dall'esercito tedesco, la sorte degli Zingari era segnata: o
il Campo di Concentramento o la fucilazione sul posto.
Le popolazioni dei territori occupati, soprattutto quelle dell'Est, vennero
suddivise in quattro categorie (in previsione del successivo sterminio dei
Polacchi e dei Russi), I, II, III, IV: a quest'ultima, quella destinata ad una
morte «sul posto», appartenevano gli Zingari.
La maggior parte delle vittime del massacro moriranno per le strade, nei
villaggi distrutti, negli accampamenti dati alle fiamme dai gruppi di assalto.
In Serbia la questione zingara venne risolta definitivamente: nazisti e
ustascia, tra quelli che non erano riusciti a fuggire, non ne lasciarono vivo
nemmeno uno. Tra i Roma residenti a Cagliari qualche anziano ricorda ancora la
fama dell'ustascia Artukovic, noto per la sua collezione di occhi strappati ai
bambini e alle donne zingare.
I massacri si estesero anche ai Balcani, in Olanda, in Belgio.
In Norvegia sopravvissero solo alcune decine di Zingari. In Francia vennero
allestiti decine di Campi di Concentramento. In Italia alcuni Campi vennero
costruiti vicino a Campobasso, nei pressi di Teramo, Bolzano e Cosenza.
Secondo Mirella Karpati un Campo di raccolta venne progettato anche in
Sardegna, a Perdasdefogu, al quale sarebbero stati destinati gli Zingari della
Venezia Giulia: testimonianze orali lo confermerebbero ma non è stata trovata
alcuna traccia documentale.
Si è calcolato che all'interno dei Campi di Concentramento in Germania e in
Polonia perirono circa 520.000 Zingari8.
Kenrick e Puxon, che dell' eccidio danno ancora un' altra valutazione numerica,
parlano, tra gli altri, di 25.500 deportati dalla Croazia, 40.000 dalla
Francia, 20.000 dalla Germania, 100.000 dall'Ungheria, 25.000 dall'Italia,
50.000 dalla Polonia, 300.000 dalla Romania, 80.000 dalla Slovacchia, 200.000
dalla Russia, etc.9 Il numero esatto degli Zingari deceduti nel corso della
seconda guerra mondiale probabilmente non si conoscerà mai, ma, cifre a parte
(c'è chi ha parlato di 800.000/1.000.000 di morti), il piccolo Popolo degli
Uomini rischiò davvero la definitiva scomparsa dal continente europeo.
Nel corso di tutta la guerra parecchi degli sfortunati che finirono nei Campi
di Concentramento, prima di essere inviati alle camere a gas, vennero
utilizzati per esperimenti scientifici di varia natura.
A Dachau, già nel 1938, 2.000 Zigani tedeschi vennero sottoposti ad esperimenti
sul freddo e sul paludismo. A Buchenwald vennero impiegati in esperimenti sul
tifo: gli si inoculava la malattia e poi si studiavano le reazioni sino al
sopravvenire della morte. A Natzweiler-Stutthof Zingari francesi, cechi, polacchi
ed ungheresi furono le cavie per gli esperimenti della società di studi sull'
ereditarietà.
Ad Auschwitz un certo prof. Clauberg praticava la sterilizzazione tramite
iniezioni intrauterine di formaldeide.
Sempre nello stesso campo di concentramento venne inviato, il 30 maggio 1943,
il prof. J. Mengele, dottore in medicina ed in filosofia, proveniente
dall'Ufficio principale per la razza e gli insediamenti di Berlino.
Il suo compito era quello di portare avanti due diversi progetti sulle
«proteine specifiche» e sul colore degli occhi, dietro ordine ed in
collaborazione con il prof. Werschuer, Direttore del KWI per l'antropologia.
Suo assistente era il dottor Nyiszli, un ebreo prigioniero che si salvò dalla
morte e che più tardi, al processo di Norimberga, potrà testimoniare contro
Mengele: raccontò, tra le altre atrocità, di aver preparato lui stesso gli
occhi eterocromatici di quattro coppie di gemelli zingari trucidati poco prima.
Gli studi di Mengele vertevano soprattutto sui gemelli e sui nani.
I poveretti venivano misurati, poi uccisi e dopo ancora sezionati dallo
schiavo-carnefice Nyiszli: «Dovevo togliere tutti gli organi di possibile
interesse scientifico, in modo che il dotto Mengele potesse studiarli. Quelli
che potevano interessare l'Istituto di antropologia in Berlino-Dahlem, venivano
fissati in alcool. Tali parti venivano appositamente imballate, per essere
spedite attraverso la posta. (...) I Direttori dell'Istituto di Berlino-Dahlem
ringraziavano sempre vivamente il dotto Mengele per questo materiale raro e
prezioso».
Mengele fece ogni tipo di esperimenti sugli Zigani ed in particolare sui
gemelli monozigotici e dizigotici.
Terminata la guerra Mengele fu uno degli scienziati che riuscì a sottrarsi alla
giustizia. Qualcun altro venne condannato dal Tribunale di Norimberga, altri
ancora, la stragrande maggioranza, ripresero la loro normale attività
accademica e qualcuno fece anche fortuna.
Eva Justin, collaboratrice di Ritter, dopo la guerra divenne «addetta di
previdenza sociale». H. Grebe, assistente di Verschuer al KWI per
l'antropologia, sarà nominato professore incaricato a Marburgo e
successivamente diventerà presidente della Lega tedesca Medici Sportivi.
Heinze, perito per l' eutanasia, divenne nel 1953 capo dell' Ambulatorio di
psichiatria giovanile nell'ospedale di Wunstdorf.
F. Lenz, uno degli autori del libro che ispirò Hider nella sua politica
razziale e già Capodivisione del KWI per l'antropologia, divenne professore
straordinario a Gottinga. Konrad Lorenz, che nel 1940 aveva auspicato
l'eliminazione degli asociali ad opera dei medici popolari, vinse il Premio
Nobel per la medicina nel 1973 ed oggi lo si ricorda come uno dei padri dell'
etologia.
Il prof. Verschuer, capo di Mengele, divenne ordinario di genetica umana
all'Università di Mlinster.
H. Muckermann, prima Capodivisione del KWI, dopo la guerra fu reintegrato nel
ruolo e più avanti formò un gruppo di ricercatori che, in ambito antropologico,
ripresero i loro lavori. Uno dei temi indagati alcuni anni dopo la guerra fu
«lo sviluppo somatico e psichico nei meticci europei-negri».
Il prof. Fischer, direttore del KWI per l'antropologia dal 1927 al 1942, andò
tranquillamente in pensione. Sua figlia Gertrud così lo descrive a MiillerHill:
«Mio padre era un uomo tenero. Di fini sentimenti. (...) Un pezzo di salsiccia
di Lione e un quartuccio, era tutto quello che voleva».
Difficile riconoscere in quest'uomo lo scienziato che nel marzo 1943 così
scriveva su Deutsche Allgemeine Zeitung: «È una rara e straordinaria fortuna,
per una disciplina di per sé teorica, quando essa si trova a fiorire in un
periodo in cui l'opinione generale le si fa incontro con riconoscimenti, anzi,
in cui perfino i suoi risultati pratici sono benvenuti, e presi a base di
misure statali.
Quando il nazionalsocialismo ha trasformato anni fa non solo lo Stato, ma anche
l'opinione generale, la genetica si trovò ad essere abbastanza matura, da
offrirgli una base».
Miiller-Hill, di fronte al mondo scientifico tedesco che dopo la tragedia
rientrò compatto nei ranghi, negando ogni responsabilità diretta negli stermini
di massa, ha scritto che «Il sangue versato è stato dimenticato con un
'intensità proporzionale ai milioni di volte in cui è stato versato. La storia
recente dell' effetto di queste discipline umane (1'antropologia e la
psichiatria, NdA) che si sono appropriate del pensiero genetico è da capogiro,
e piena di crimini come un incubo. Da questo incubo molti genetisti,
antropologi e psichiatri sono scivolati nel profondo sonno dell'oblio>>.
Quando lo studioso intervistò i padri scientifici del razzismo nazista ancora
rimasti in vita, o i loro collaboratori, la risposta fu unanime: non sapevano
nulla dei massacri e si consideravano scienziati «puri».
Il prof. Wolfang Abel, Capodivisione del KWI per l'antropologia, intervistato a
Mondsee in merito alla soluzione finale riservata agli Zigani, risponde:
«Ma ce ne sono ancora tanti!».
Il dott. Helmut v. Verschuer, figlio del prof. Otmar, intervistato a proposito
del rapporto di collaborazione tra suo padre e Mengele, rispose così: «Me lo
ricordo come un tipo amichevole. All'Istituto, a causa della sua bontà umana,
le signore gli avevano dato il nomignolo di Padre Mengele».
«Padre Mengele».
Lo stesso che uccideva i piccoli gemelli zingari con un'iniezione intracardiaca
per poterne prelevare gli occhi e che al dr. Nyiszli, che gli chiedeva quando
sarebbe finito lo sterminio, rispondeva: «Amico mio! Continua sempre, sempre!».
Capitolo quinto: la religione
Il nostro Paradiso zingaro è talmente grande che vi
scorrono tre fiumi zingari le cui rive sono fatte di dolci. In uno scorre del
latte bianco e dolce.
L'altro è pieno di latticello e il terzo è un fiume di panna. I ponti che
attraversano questi fiumi sono decorati con polpette di pasta e le rive sono
rinforzate con bistecche di maiale. Quando uno zingaro attraversa questi ponti
e li scuote un po' o magari un tantino li addenta, può dirsi completamente
soddisfatto come la sua anima richiede.
E quando i nostri cavalli zingari galoppano, le selle scricchiano e il frustino
li colpisce una volta e un'altra e un'altra ancora. E dalla nostra anima
zingara sgorga soltanto una gran risata e una canzone. (...) I nostri figli
zingari mangeranno e berranno e non digiuneranno mai...
fiaba zingara
Il presunto paganesimo e le conversioni
Quando gli Zingari si stabilirono in Grecia le
popolazioni locali, che non li conoscevano ma che ancora ricordavano la fama di
maghi e indovini degli appartenenti all'antica setta dell' Asia Minore, li
chiamarono come loro Atsingani, accreditandoli in questo modo delle stesse
credenze religiose. In realtà non è affatto dimostrato che gli abitanti del
Piccolo Egitto (Modon nel Peloponneso) avessero abbracciato usi, costumi e fede
religiosa degli eretici orientali.
Molto più semplicemente le popolazioni greche seguirono la tentazione alla
quale era più facile cedere: di fronte al mistero che avvolgeva i nuovi
arrivati tentarono di motivare la loro diversità associandola a qualcosa che
era stata conosciuta e quindi, in qualche modo, meno problematica e preoccupante.
Alla stessa maniera, quando le prime carovane nomadi si presentarono in Europa,
e nonostante molti di essi si dicessero di fede cristiana, nacque per gli
Zingari l'appellativo di Saraceni o, come in qualche Paese del Nord Europa, di
Heiden, cioè pagani.
Le dichiarazioni di fede, o i documenti papali e imperiali che essi
presentavano quali lasciapassare, gli permisero di contrastare solo in parte e
per un breve periodo la diffidenza cui andavano incontro.
Ad un certo punto fu poi chiaro che gli Zingari, se avessero anche posseduto
una propria religione appresa in terre e in tempi lontani, non solo non la
opponevano a quelle delle nazioni dove andavano a risiedere, ma addirittura si
dicevano ben disposti, almeno in teoria, ad abbracciarle senza riserve.
Così fecero anche nei Paesi sottoposti al dominio dei Turchi, dove, a parte
quelli che persistettero nella decisione di restare cristiani (fatto anomalo
documentato), molti di loro si convertirono all' Islam e non incontrarono
grandi difficoltà.
In Europa questa conversione alle diverse confessioni religiose cristiane fu
poi accompagnata dal sospetto e spesso ritenuta non veritiera. Secondo il De
Foletier gravavano su di loro troppe leggende di maledizione. Nicolas Ventura,
nel suo «Tresor politique contenant les relations, instructions, traictez et
divers discours appartenants à la parfaite intelligence de la raison d'Estat»,
del 1611, scrisse che: «Sembra che abbiano qualche maledizione o perché, come
comunemente si dice, i loro antenati rifiutarono di alloggiare la Vergine Maria
quando fuggì in Egitto con il nostro Salvatore, oppure per qualche altra cosa,
visto che non si fermano mai a lungo nello stesso posto».
C'era qualcosa, nell' approccio zingaro alla religione cristiana, che portò
moltissimi dotti ed ecclesiastici a non credere assolutamente, anche oltre i
miti e le leggende negative, alla loro religiosità.
Secondo quanto disse Miinster nella sua «Cosmographia Universalis», essi, anche
se facevano battezzare i loro figli, non avevano «... religione alcuna, ma
vivono come cani».
Così la pensava anche Sancho de Moncada, il professore di Sacra Scrittura
all'Universita di Toledo che ne chiese la pena di morte considerandoli spie,
traditori, vagabondi, indovini e visionari. Il teologo, nel 1619, scriveva che
«Persone degne di fede li considerano eretici e per molti essi sono pagani,
idolatri ed atei, senza alcuna religione, sebbene in apparenza si conformino
alla religione della provincia in cui si trovano, essendo Turchi con i Turchi,
eretici con gli eretici, e battezzando a volte un bambino fra i cristiani per
essere in regola»4.
Martin Lutero li chiamava Bose Buben (cattivi ragazzi) e li credeva Tartari
capaci di falsità, menzogna e pericolosa divinazione.
Il calvinista Gijsbert Voet, olandese, ne proibiva i battesimi e in diverse
chiese basche non era concessa loro la partecipazione alle funzioni religiose,
che potevano seguire solo dall' esterno.
L'arcivescovo protestante di Stoccolma, Laurentius Petri, ordinò che: «Il prete
non si occuperà dei Gitani: non procederà alle loro esequie, né battezzerà i
loro bambini».
In Francia la Compagnia del Santissimo Sacramento parlava degli Tziganes come
di «...questa razza di vagabondi che non hanno fede né religione»6.
Queste condanne morali così dure da una parte risentivano dell'influenza dei
luoghi comuni e dei pregiudizi che si abbattevano sui Rom nel periodo delle
persecuzioni e, dall'altra, esse stesse, provocavano nuovo rancore e nuovo
pregiudizio, in un circuito chiuso di orrore e di emarginazione che per lungo
tempo non si riuscì a spezzare.
D'altro canto era anche vero che gli Zingari, loro malgrado e malgrado gli
sforzi che facevano per entrare nelle grazie della cristianità, per la loro
gran parte furono davvero tutto fuorché buoni cristiani, per il significato che
allora si dava a questo termine, ed effettivamente non si poteva che definirli
eretici, poiché questo furono rispetto ad ogni religione che conobbero e che
pure, a loro modo, cercarono di condividere e di reinterpretare.
È vero infatti che molti di loro facevano battezzare i propri figli, ma è anche
vero che alcuni li facevano battezzare anche dieci volte diverse in dieci
diverse località, forse per dare dimostrazione di buona volontà nelle nuove
contrade che visitavano, e altri, se non tutti, continuavano ad imporre un nome
segreto e gli antichi riti di purificazione, protezione e divinazione dei
propri antenati.
È vero che essi chiedevano e si affidavano alla protezione della Chiesa e dei
suoi Santi, ma è anche vero che continuavano a rispettare i propri Spiriti
Buoni e a temere quelli Cattivi, come, in alcuni gruppi, le Holypi, streghe che
dopo essersi unite sessualmente ai Demoni ne diventavano possedute e a loro
volta potevano possedere altri esseri umani.
È vero che, a volte, quando gli veniva concesso, si univano in matrimonio
secondo i riti delle varie confessioni religiose cristiane, ma è anche vero che
per essi l'unica vera celebrazione restava la loro: il manifestarsi pubblico,
all'interno di grandi feste e a volte di fronte ad un loro «capo», delle
volontà dello sposo e della sposa di unirsi in una nuova famiglia.
Ed ancora, è vero che a volte gli Zingari facevano seppellire i loro morti nei
cimiteri cristiani dopo aver ricevuto i santi sacramenti, ma è anche vero che
spesso li seppellivano secondo le loro usanze, secondo cioè una serie di riti
antichissimi e misteriosi.
Oltre a questo persistere di miti e usanze religiose proprie c'erano poi tanti
altri comportamenti che impedivano ai Rom di essere considerati buoni
cristiani, primo fra tutti l'esercizio dell'arte della divinazione.
Ma, anche se l'eresia zingara veniva considerata un crimine al pari di tutte le
altre eresie sottoposte al morso di ferro dell'inquisizione, le differenze tra
psicologia religiosa zingara e psicologia religiosa cristiana avrebbero dovuto
lasciar intendere che piccoli trucchi ed esercizi di divinazione non erano
altro che un'attività di tipo economico.
Così non fu.
I tentativi di catechizzazione, in forma violenta o meno violenta, si
succedettero nel tempo e si alternarono alle manifestazioni di totale rifiuto.
Quando si tentava di convertirli, la conversione che si pretendeva doveva
essere totale e verificabile: gli Zingari avrebbero dovuto cancellare il
proprio substrato mitico e religioso e uniformare ai dettati religiosi
occidentali anche il loro comportamento sociale. Quando si decideva di
«civilizzarli», come nel caso dei tentativi di assimilazione forzata promossi
da Maria Teresa e da Giuseppe II, la «civilizzazione» passava prima di tutto
attraverso una catechizzazione coatta e poi attraverso l'obbligo di omologare
il proprio vivere sociale ed economico ai dettati religiosi e morali dominanti.
Si tentò addirittura di cambiare, tramite articoli di legge, anche il loro
senso del pudore e del peccato: i bambini e le bambine non avrebbero più dovuto
circolare nudi, poiché costituiva peccato, né avrebbero più dovuto dormire
nello stesso ambiente, poiché era considerato immorale.
Le comunità zingare, piccole civitates socialmente indipendenti e monadi non
decomposte di un'antica cultura ancora ben viva e difesa a volte con disperata
segretezza, si difesero come potevano da questi tentativi: si convertirono
genuinamente a ciò che rispondeva alla loro idea della vita e della morte e
rifiutarono tutto quello che urtava violentemente con la loro filosofia e con
il loro senso di autonomia e di libertà.
Ciò che la cristianità non volle o non seppe comprendere fu che la manifesta
eresia zingara, il loro accettare parte della religione di Baro Devel (Gesù
Cristo), e parte rifiutarne, il loro assorbire ricorrenze, sacramenti e Santi
per poi ridefinirli e celebrarli alla loro maniera, nascondeva in realtà un
sentimento religioso profondo e forse senza paragoni, capace di apprendere e
rispettare ciò che tutte le religioni del mondo venerano sotto forme diverse e
che loro chiamano Del, il Grande Dio creatore del mondo e padrone del Bene,
opposto a Beng, il Diavolo, padrone del Male.
Le origini della religione zingara
Jacques E. Menard, professore di Storia delle
religioni alla facoltà di Scienze Umane di Strasburgo, nella premessa ad una
pubblicazione sulle usanze religiose degli Zingari di Francoise Cozannet,
ricorda che «... un popolo che non avesse più leggende, avrebbe freddo e il
popolo che non vivesse più i suoi miti, sarebbe già morto».
Menard, a proposito delle particolari celebrazioni del nomadismo che vedevano
certi gruppi zingari ormai sedentarizzati ricaricare per un giorno sui carri le
loro povere cose e compiere un breve viaggio rituale che li riportava poi a
casa dalla parte opposta alla quale erano partiti, notava che in questo modo il
mito umano del ritorno alle origini veniva riattualizzato.
Queste e altre tradizioni mitiche e religiose degli Zingari sono rimaste, per
interi secoli, avvolte nel mistero. Poco si conosceva e poco gli stessi Nomadi
lasciavano intendere dei loro riti, mantenuti nel segreto per paura dei
pregiudizi e della persecuzione della Santa Inquisizione.
Un segreto che ha smesso parzialmente di essere tale solo quando i tempi sono
cambiati e solo quando di questi argomenti hanno cominciato a parlare e
scrivere gli stessi Zingari e non solo gli studiosi di ziganologia. Francoise
Cozannet, la studiosa francese autrice di un'interessante ricostruzione della
mitologia zingara, ha basato il suo lavoro, oltre che sugli scritti degli
ziganologi, anche sui suoi contatti diretti con le popolazioni Gitane francesi
e spagnole.
Grande importanza hanno avuto nel suo lavoro gli scritti apparsi sin dal 1888
sulla rivista britannica «Journal of the Gypsy Lore Society», soprattutto in
relazione alla vita ed alle usanze degli Zingari dell'Europa centrale. È bene
precisare che gli studi della ricercatrice francese, proprio perché non
abbracciano tutti i diversi gruppi, vanno intesi in senso relativo, seppure
comunque interessanti e, per certi versi, rispondenti anche a particolari
espressioni religiose dei Roma presenti in Sardegna. Il primo problema che la
Cozannet ha dovuto affrontare, essa come tutti gli altri ricercatori che a
questo tema si sono dedicati, è stato quello di comprendere quanto nell'
atteggiamento religioso dei Rom ci fosse ancora di originale e quanto invece
non fosse che il prodotto di un particolare sincretismo creatosi lungo il
cammino dall'India.
Si trattava cioè di comprendere se gli Zingari avessero fuso, conciliandoli a
volte in maniera arbitraria, elementi mitologici e dottrinari delle varie
religioni conosciute lungo la strada con ciò in cui prima credevano, o se
invece avessero mantenute vive parte delle credenze religiose orientali
ricostituendole all'interno di un nuovo equilibrio basato sulla convivenza
autonoma e separata di diverse istanze religiose.
Un problema questo che appare ancora irrisolto: d'altronde i confini tra
simbiosi e sincretismo appaiono a volte assai confusi.
La Cozannet, lasciando aperto questo dubbio, è riuscita comunque a ricostruire
alcuni frammenti dell' originale cosmogonia, lavorando sui residui in vigore
degli antichi riti e sui racconti e le fiabe tipiche di una cultura che si è
riprodotta essenzialmente per via orale.
I racconti sulla creazione del mondo testimoniano la credenza in un dualismo
originario, il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, dei quali il secondo
sottomesso al primo.
Un altro punto nodale è rappresentato da due temi noti nella storia delle
grandi religioni, le acque primordiali e l'albero della vita.
Un'antica fiaba raccontata in Ungheria a Vladislav Kornel, che poi la pubblicò
sul «Journal of the Gypsy Lore Society» nel 1890, racconta di come Dio
lasciasse cadere il bastone che usava per pascolare le nuvole nella grande
distesa d'acqua che ricopriva la terra, e di come, da quel bastone, nascesse il
grande Albero.
Il Diavolo, che mentendo tentava di convincere Dio della sua amicizia, ma che
si rendeva conto di non essere creduto, gli consigliò di creare qualche altra
persona per non restare, loro due, soli ed in esclusiva compagnia l'uno
dell'altro.
Dio allora mandò il Diavolo in fondo al mare per prendere della sabbia, e con
essa, intorno all' Albero, creò la terra. Ma questa piacque tanto al suo nemico
che egli si sistemò per bene sotto l'albero e non volle più andar via. Dio
allora, furibondo, fece sorgere un grande bue che infilzò con le sue corna il
Diavolo e lo trascinò con sé per il mondo. Egli, per la paura e il dolore,
gridò così forte che tutte le foglie dell' Albero caddero sulla terra e si
trasformarono in uomini e donne8. .
Bruno Levak Zlato, Rom Kalderasa, ha raccontato recentemente una fiaba molto
simile:
«Era tutta acqua e c'erano Del e Bengh, insieme come fratelli. Così mi
raccontava mio nonno, forse era vero. C'era dunque Del e c'era anche Bengh.
Allora Del dice a Bengh: - Va' in fondo e forse trovi terra. Portamene una
branca.
Bengh è andato ed è tornato su con i pugni pieni di terra. Ma inutilmente:
l'acqua la portava via. È arrivato su con le mani vuote. Allora Del cosa fa?
Prende uno stecca, così, e dalle unghie - perché Bengh ha le unghie lunghe ha
tirato fuori un po' di terra e l'ha ammucchiata. Fai e dai, ne ha fatta un bel
po '. È andato giù tante volte da fare un bel mucchietto di terra. Allora Del
cosa fa? Fa una sedia, una seggiolina con questa terra e si mette a sedere
sopra; gli ha preso un sonno, un sonno sopra la sedia.
- Mah, dice Bengh, lui sta seduto e io che ho fatto tanta fatica sono qui in
piedi.
Bestemmiando ha preso Del per una gamba e ha cominciato a tirarlo per buttarlo
in acqua. Ma come lo tirava, la terra si allargava sotto di lui. Allafine Del
si è svegliato:
- Uh, dice, quanta terra hai fatto. Troppa, troppo grande, cosa facciamo
adesso? Occorre accorciarla.
- Ci penso io, dice Bengh, non dubitare.
Si è messo a saltare di qua, a saltare di là; e salta qua e salta là, è venuto
tutte salite e montagne. Così l'ha accorciata e fatta come adesso; prima era
dritta come l'acqua. Poi Bengh non sapeva cosa fare. La terra era là e hafatto
di terra un uomo, come noi, con bocca, occhi, tutto. Solo mancava che era vivo.
Lo guarda Del:
- Bello, ma adesso che l'hai fatto, fallo vivo.
- Ma non ne sono capace.
- Se lo regali a me, io lo faccio vivo.
- Se lo fai vivo, te lo regalo.
- Ripetilo tre volte.
Ha ripetuto tre volte che lo regala a Dio. Allora Dio, sai, ha fatto una croce
e ha soffiato in bocca. Ecco la vita. Così è diventato vivo l'uomo di terra.
Perché siamo di terra tutti noi.
Quest'uomo si è messo a dormire.
- Poveretto, che cosa fa questo qui senza nessuno?
- Almeno facciamo una compagna per lui.
Hanno tagliato una costola di quest'uomo e gli hanno fatto la sua compagnia, la
sua donna. È vero, perché la donna ha una costola in più. Allora mi pare che
era proprio così, perché il segno c'è: basta contare le costole. Erano Adamo ed
Eva.
Un giorno nel loro giardino è arrivata una carovana di Rom. Adamo ed Eva li
hanno cacciati via e quello è stato il primo peccato».
A parere della Cozannet il tema delle acque primordiali, così come quello dell'
Albero della vita, si ritroverebbero nelle tradizioni indiane e sarebbero
quindi all'origine della cosmogonia zingara.
Alcuni riti legati alla nascita confermerebbero poi questa teoria.
Il rapporto tra Dio e il Diavolo, sarebbe meglio dire tra il Bene e il Male,
nel ruolo subordinato ma strumentale del secondo rispetto al primo ed in un
disegno che esula dalla comprensione umana, è peraltro molto simile a quello
espresso dalla storia di Giobbe nel Vecchio Testamento: Dio permette a Satana
di provocare sofferenze, disordine e malattie a Giobbe, ma salva l'innocenza
dell'uomo in un più ampio piano prestabilito per lui.
Un altro. parallelismo tra cosmogonia zingara e cosmogonia giudaico cristiana
lo si può rilevare ponendo a confronto il dualismo cielo-terra presente nella
mitologia romanes con quanto esposto, a proposito della creazione, nella
Genesi, primo Libro del Pentateuco:
Nella Genesi Dio «...fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il
firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio
chiamò il firmamento cielo. (...) Dio disse: le acque che sono sotto il cielo
si raccolgano in un sol luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne».
Secondo certe narrazioni degli Zingari dei Ba1cani, invece, il cielo e la terra
originariamente erano un solo insieme combinato in modo tale che al proprio
interno stessero rinchiusi il Re Sole, il Re Luna, il Re Fuoco, il Re Vento e
il Re Nebbia, che erano i loro figli e che litigavano violentemente tra loro.
Per riuscire a liberarsi dall' abbraccio ormai indesiderato dei genitori, i
diversi Re ne fecero di cotte e di crude, riuscendo infine nel loro intento ma
continuando a litigare per decidere chi doveva stare con il padre Cielo e chi
con la madre Terra.
La madre Terra, adirandosi con Re Sole, Re Luna e Re Vento, che l' avevano
importunata violentemente per costringerla a separarsi dal marito Cielo, disse
loro: «Voi, sole, luna e vento siete stati avversi e dunque allontanatevi da
me! Quanto a voi, fuoco e nebbia, non mi avete fatto nulla di male, perciò
restatemi vicino» .
Molto più complesso appare invece il racconto che un altro Rom Kalderasa,
Zanko, rilasciò nel 1959 a P. Chatard, un domenicano che svolgeva opera di
evangelizzazione presso gli Zingari francesi.
Zanko così racconta: «All'inizio c'era Phu, la Terra-madre divina. Da essa sono
nati il Puro Del e il Beng, i quali si sfidano a vicenda. Un giorno, mentre
passeggiavano sulla riva del grande fiume-mare, il Beng disse: - Sono capace di
scendere fino al fondo. Il Beng risalì alla superficie portando della terra e,
su comando del Del, foggiò due statuette, prima assessuate e poi distinte in
maschio e femmina. Ma dovette dichiararsi incapace, quando il Del gli chiese
difarle parlare. Allora il Del tese il suo bastone verso le statuette e dalla
terra uscirono due alberi che avvilupparono le statuette, le quali parlavano,
perché gli alberi avevano trasformato la creta in carne vivente.
Il puro Del col suo bastone fece fruttificare gli alberi in pero e in melo e
ordinò ai due di mangiarne i frutti, rispettivamente Dama - il primo uomo le
pere e Yehwah - la prima donna - le mele.
Allora essi provarono desiderio l'uno per l'altro e per ordine del Puro Del si
accoppiarono. Ma la donna, insaziabile, richiese all'uomo di ripetere più volte
l'accoppiamento. Per le prime tre volte il Puro Del li approvò, ma poi si
adirò: - Tre è la misura e la benedizione. Tu, donna, sei uscita dalla misura e
dalla benedizione. Tu non sarai mai soddisfatta. Avrai sempre desiderio
dell'uomo.
E il Puro Del li abbandonò al loro destino fuori della misura e della
benedizione.
L'uomo e la donna generarono molti figli e da qui vennero le stelle in cielo,
perché ogni stella è un segno di un uomo: sale quando nasce e cade quando
muore. Damo e Yehwah tornarono poi alla loro natura di alberi. Poi il Del,
sposo della Terra e nostro padre, fece uscire dalla terra il sole e la luna, il
Sherkano o serpente divino e la sua femmina Halla per provare laforza degli
uomini; poi le coppie di tutti gli altri animali. Fece pure uscire dalla Terra
il grande fiume-lago.
In questo primo mondo il Puro Del Sinpetri aveva dei compagni: Sunto Yacchof,
Sunto Abraham, Sunto Moishel e Sunto Crecuno. Erano i Suntse, gli Antenati. Con
essi c'era pure il Pharavono, che poi se ne distaccò provocando la scissione
degli uomini - fino ad allora costituenti una sola razza nomade e parlanti una
sola lingua - in due raggruppamenti: gli Horaxane con a capo Sinpetri e i
Pharavonure con a capo Pharavono.
Questo gruppo dapprima si tenne in disparte, ma poi, moltiplicandosi e essendo
pieni di intelligenza e di audacia, decisero di conquistare tutta la terra.
Così Pharavono mosse guerra a Sinpetri; ma non sapeva che il re Sinpetri era lo
stesso Puro Del, che aveva il potere del Del. Alla testa delle sue truppe
Pharavono superò ilfiume-Iago, invocando il potere del Del. Ma,
nell'attraversare il fiume-mare, pieno di orgoglio invocò il proprio potere e
venne travolto dalle acque. (...) Tutto il paese allora abitato venne allagato.
Il Puro Del Sinpetri rifece la terra allargandola e dandola ai suoi Horaxane e
portò i Suntse nel Raio, l'altra terra al di sopra delle stelle. I Pharavonure
annegati precipitarono nel Hiardo, l'abisso sotterraneo, dove vanno tutti i
morti di morte cattiva.
I pochi Pharavonure superstiti - cioè gli Zingari - sono condannati a non avere
più né territorio nazionale, né organizzazione politica, né Chiesa, né
scrittura, perché tutto è annegato nel mare»!!.
La Karpati, analizzando il racconto di Zanko ne coglie un aspetto molto importante:
l'interpolazione di alcuni elementi biblici, che lo Zingaro potrebbe aver
inserito per un malinteso senso di rispetto nei confronti di Chatard,
domnicano.
A proposito di Della Karpati osserva che: «Egli provoca la vita agendo con il
bastone, quasi si trattasse di un mistico coito con la Terra Madre. Infatti di
lui è detto "sposo della Terra e nostro padre". Ne risulta quindi una
nuova concezione che, (...) pone nel rapporto maschio-femmina il principio
vitale e creatore». La separazione e l'opposizione di maschio e femmina, e la
loro riunificazione in un sistema più ampio che continua ad abbracciare
ambedue, riporterebbe, secondo Ménard, ai principi maschili e femminili dello
Yang e dello Yin orientali e agli stessi principi si potrebbero riportare altri
dualismi mitologici dei Rom.
Una mitologia nella quale la femminilità, opposta e complementare al suo alter
ego maschile, ricopre una particolare valenza che si ritrova ancora in
determinate tradizioni.
Spiriti buoni e Demoni patogeni
Secondo la Cozannet nella cultura religiosa zingara
quasi tutte le forze soprannaturali, spiriti buoni, spiriti cattivi e
mediatori, hanno sembianze femminili. Allo stesso modo le persone ritenute più
capaci di ergersi al di sopra delle comuni capacità umane e di avvicinarsi in
qualche maniera al soprannaturale sarebbero proprio le donne.
Presso gli Zingari dell'Europa centrale si credeva che esistessero tre classi
di spiriti, tutti femminili, che determinavano il destino degli uomini e degli
animali: le Ourmes, le Kechali e le Holypi.
Le Ourmes erano le dee del destino, chiamate anche «donne bianche» perché
indossavano una lunga veste di quel colore. Legate all'ambiente naturale esse
apparivano sempre in numero di tre, una buona, una che portava sventura ed una
che fungeva da mediatrice. Quando un nuovo nato rallegrava una comunità, la
stessa notte della nascita, oppure quella successiva al giorno del battesimo,
intorno alla tenda del nascituro veniva tracciato un ampio cerchio e dentro
esso veniva lanciata una manciata di semente di agrifoglio.
Ciò avrebbe permesso alle tre «donne bianche» di non essere disturbate da
spiriti cattivi.
In Romania, in Serbia e in Russia, esisteva l'usanza simbolica di porre sul
corpo del neonato una tazza colma di grano cotto nel miele, con dentro tre
cucchiai, uno per ogni spirito.
Una volta terminati i preparativi all'interno della tenda restavano solo la
madre e il nuovo figlio: una maga restava invece in preghiera vicino all'uscio
auspicando che sul capo del bambino venissero attirate fortuna e salute. Alcuni
giorni dopo, ed esattamente a mezzogiorno, nello stesso luogo dove era avvenuta
la nascita, veniva piantato un ago: dal grado di ossidazione rilevato dalla
maga dopo altri tre giorni si poteva finalmente comprendere quale sarebbe stato
il destino in vita del nuovo nato, quanta fortuna l'avrebbe accompagnato e
quanta sfortuna l'avrebbe colpito.
Oltre alle «donne bianche» anche le Kechali, o fate dei boschi, avevano
sembianze femminili e potevano determinare il destino degli uomini. Esse abitavano
le montagne in gruppi di tre e possedevano lunghi e sottili capelli che,
spandendosi per l'aria, formavano la nebbia.
Le fate dei boschi potevano determinare la buona o cattiva sorte del nascituro
avvolgendo intorno al suo collo un filo rosso. Le maghe, all'atto della
nascita, controllavano così se sul collo del bambino apparisse o meno un
qualcosa che potesse ricordare simbolicamente il filo rosso, una piega o una
grinza, segno di buona sorte.
Secondo la Cozannet l'affinità di questa credenza con quella delle tre Parche,
le Moire presenti nella mitologia greca, Cloto, Lachesi e Atropo (dee del
destino che tessevano o recidevano il filo del fato), dimostrerebbe forse una
comune ascendenza dei due miti. Resta però il dubbio che gli Zingari, molto più
semplicemente, possano aver riciclato il mito delle figlie di Zeus e Temi
quando vissero nel Peloponneso.
Come le «donne bianche» e le fate dei boschi, anche le Holypi, le streghe,
erano entità femminili, anche se non veri e propri spiriti ma donne trasformatesi
nel nuovo stato dopo una congiunzione carnale con il Diavolo.
Esse, considerate dagli Zingari dell'Europa centrale al pari di altre forze
soprannaturali negative, erano credute capaci di procurare malattie e sventure
e potevano essere combattute solamente attraverso numerosi riti di scongiuro.
Le streghe, essendo capaci di unirsi sessualmente col Diavolo, mantenevano
alcune necessità terrene, come quella di nutrirsi: il cibo che si supponeva
fosse loro gradito diventava così vietato agli esseri umani; un vero e proprio
tabù simile a quelli che ancora oggi, anche se con diverse motivazioni, vietano
ai Rom di assumere determinati alimenti.
Il ruolo d'intermediario tra gli spiriti femminili e i comuni mortali veniva
affidato alle maghe.
Maghe lo si poteva divenire in due modi: o essendo figlie di maghe, ed
ereditando in questa maniera il potere della madre, oppure tenendosi in
rapporto sessuale con i Nivaci, spiriti acquatici con sei dita alla mano
sinistra.
È più che probabile comunque che oltre alle figure già citate ne esistessero
numerosissime altre con numerosissimi altri riti dei quali si è persa ogni
traccia.
La malattia e la morte
In passato, ma è bene ricordare ancora una volta che
gli studi degli ziganologi si riferiscono sempre a particolari gruppi e che
quindi appare difficilissimo tracciare un quadro unitario di certe abitudini
rituali e di certe credenze, i Rom hanno spesso accreditato la provenienza
della malattia ad un' origine di tipo religioso, ed in particolare demoniaco:
un'ingerenza dei Demoni patogeni nel destino dell'individuo.
Gli Zingari, convinti dell'assoluta unitarietà tra ciò che è spirito e ciò che
è materia, sarebbero stati altrettanto convinti della profonda complementarità
del naturale e del sovrannaturale.
Un sovrannaturale che si sarebbe manifestato spesso sotto forme corporee che
vivevano in stretto contatto con gli esseri umani e che, penetrando in essi, ne
minavano lo spirito, ciò che noi chiamiamo anima e che essi definiscono come
«vita» (vodji, jipen, dùsa).
Contro i Demoni patogeni che potevano impadronirsi di un individuo, combatteva
il Butyakengo, lo spirito protettore che proveniva dagli avi defunti e che
trasmetteva ai discendenti una porzione dell'anima rimasta sulla terra.
La divisibilità dell'anima sarebbe stata l'anello di congiunzione che legava,
generazione dopo generazione, la famiglia zingara alla sua ascendenza.
Il Butyakengo restava comunque distinto dall'anima della persona che proteggeva
e, se veniva sconfitto dai Demoni, poteva allontanarsene fuoriuscendo dal corpo
attraverso l'orecchio destro.
I Demoni patogeni, figli della regina Ana delle Kechali, provocavano malattie e
avevano differenti nomi nei diversi sotto gruppi zingari. La Cozannet riporta i
nomi tratti da «Tziganes de Serbia et de Turquie», la cui funzione è stata ben
spiegata da H. von Vislocki nel suo «Aus dem inneren Leben der Zigeuner»
(1892):
- il Melalo (lo sporco), che portava malattie e calamità di vario tipo;
- la Lily (la vischiosa), che portava malattie del raffreddamento;
- il Tchulo (il grosso), che provocava malattie alle gestanti;
- la Tchridyi (la calda), che portava le febbri da parto;
- lo Schilayi (il freddo), che provocava febbri fredde;
- il Bitoso (il digiunatore), che provocava mal di stomaco, tosse e
inappetenza;
- il Lolmisho (il topo rosso), che causava malattie della pelle;
-la Minceskre (moglie del topo rosso), che provocava le malattie veneree;
- il Poreskoro (essere terrificante con quattro teste di gatto e di cane, un
corpod'uccello e la coda di serpente), che provocava la peste e il colera.
Quando il Butyakengo entrava in lotta contro uno di questi spiriti si
manifestavano le malattie, contro le quali ci si adoperava in diversi modi, ma
sempre sperando che lo spirito protettore facesse la sua parte.
Uno di questi modi era l'uso medicinale di una vastissima gamma di sostanze
vegetali, animali e minerali. Un uso medicinale che rientrava nell'insieme di
operazioni rituali nelle quali tanto le proprietà stesse delle sostanze
utilizzate, quanto i simbolismi religiosi tratti dalle religioni positive,
quanto, ancora, le capacità magiche delle guaritrici, entravano in gioco.
Quando la malattia si riteneva molto grave poteva infatti richiedersi
l'intervento di una maga, la quale cominciava anch'essa la sua personale lotta
con i Demoni patogeni presenti nel corpo dell'ammalato: essa, con l'ausilio di
parole e polveri magiche (probabilmente altre erbe medicinali), ordinava ai
Demoni, in nome di Dio, di lasciare il corpo sofferente.
Oltre la vita
È parere comune di tutti gli studiosi che nella loro
tradizionale psicologia religiosa gli Zingari intuivano l'immortalità
dell'anima in maniera totalmente diversa da quella teorizzata dalle religioni
positive.
Ciò che nella tradizione cristiana era stato proposto col Nuovo Testamento,
cioè l'esatta e per la prima volta ben definita finalizzazione della vita
terrena e delle sue sofferenze alla vera vita, quella ultraterrena, nella quale
avviene la retribuzione di ciò che di bene o di male si è fatto nel corso dell'
esistenza materiale, non sarebbe esistita affatto nelle credenze zingare.
L'immortalità dell'anima sarebbe stata da loro concepita come il suo passaggio
in un altro stato sensibile, che non rappresentava nel modo più assoluto la
finalità o la retribuzione della vita terrena, la premiazione o la punizione
causate dai comportamenti tenuti prima di decedere.
L'universo dei morti «... secondo la mitologia zingara non ha nulla di allegro,
è sostanzialmente un penoso vagabondaggio dell'anima in un atmosfera di terrore
e spavento. Questo regno dei morti non è situato in un luogo speciale, risiede
per ogni tribù zingara nella regione in cui essa è stanziata, ma nei luoghi
remoti alla frontiera tra la terra e l'immaginario aldilà».
Questa interpretazione orrorifica dell' aldilà per certi versi non sembra
affatto corrispondere a quanto da altri riportato. Nei racconti kalderasha, per
esempio, su e intorno alla morte, compaiono altri elementi che danno
dell'aldilà un aspetto meno drammatico e che smentiscono l'assenza del
principio di retribuzione.
Zlato e la Karpati, in Rom Sim, dicono per esempio che «È un tribunale, la
kris, che nell'aldilà delibera l'accoglimento nelle praterie beate, dove i Rom
continuano la loro vita, ma nella pace e nella gioia. È il morente, che nel
momento supremo raccoglie il frutto di una vita».
I riti funerari zingari non sarebbero stati delle vere e proprie celebrazioni,
o non soltanto queste: esse da una parte dovevano preparare l'anima del defunto
nei suoi vagabondaggi, benefici o malefici, nell' aldilà, e dall' altra avevano
un carattere esorcistico verso le sue eventuali manifestazioni nel regno dei
vivi.
Il passaggio dell'anima nel regno dei morti, si credeva non avvenisse
immediatamente dopo il decesso. Per questo motivo essa andava aiutata in tutti
i modi possibili: si vestiva il defunto con i suoi abiti più belli, lo si
incoraggiava con i canti e i lamenti funebri, gli si costruiva una bara grande
e comoda nella quale a volte si sistemavano le sue cose personali.
In certi gruppi, nel terzo giorno dopo la sepoltura, si ponevano su una tavola
imbandita del sale, del pane e dell'acqua per il defunto. Più avanti, durante
altre feste, il morto veniva ancora ricordato con altri .riti.
A volte lo si ricordava in modo speciale nel rito chiamato Pomana, che avveniva
sei settimane e un anno dopo la morte: nel corso di un banchetto una persona
della stessa età del morto ne recitava il ruolo, usando i suoi stessi modi di
vestire, di parlare, di mangiare. La Pomana, con tempi diversi, è ancora in uso
tra i Roma residenti a Cagliari.
L'atteggiamento generale nei confronti dei morti non era in definitiva la
celebrazione o la preghiera, ma la compartecipazione alle difficoltà insite in
quello che si credeva il suo nuovo stato.
Nello stesso momento, dato che la malattia e la morte avvenivano ad opera degli
spiriti del male, il defunto era anche temuto, quasi potesse ancora contaminare
i vivi. Si sa che in certi gruppi gli spiriti cattivi potevano manifestarsi
sotto molte sembianze. Venivano, e vengono ancora, chiamati Mulo, o Vampiro, o,
ancora, secondo la Karpati, Duxo: in questo caso l'entità di una persona morta
accidentalmente che doveva «continuare ad aggirarsi senza pace sulla terra
sotto forma di spettro per tutta la durata del tempo che gli era stata
assegnata da Dio».
La psicologia religiosa zingara e le religioni
positive
Gli Zingari ormai da circa mille anni hanno
conosciuto sia il cristianesimo che l'islamismo: resta difficile stabilire in
che misura si sia concretizzata la simbiosi tra vecchio e nuovo, quanto del
vecchio sia tutt' ora in vita e quanto di questo stia lentamente trasformandosi
in un ruolo che si potrebbe definire di superstizione residua, al pari di
quelle che sopravvivono nella psicologia religiosa cristiana come substrato di
elementi arcaici.
Di sicuro certi usi sono ancora in vita e, anche ad una lettura superficiale,
li si può facilmente notare nei gruppi Roma presenti in Sardegna.
La resistenza, per esempio, a parlare dei propri morti; i riti funerari stessi;
i tabù che impediscono di mangiare certi cibi, la paura per i cani primogeniti
e per certi gatti che potrebbero assalire i bambini; i tabù sull'impurità o i
riti utilizzati per curare certe malattie.
Esiste ancora il terrore dei fantasmi, sui quali ognuno ha storie da
raccontare: storie solitamente accreditate ai parenti più anziani.
I fantasmi sono, a loro parere, di due tipi: il Cohano, che si può vedere e che
sarebbe il più pericoloso perché assume forme materiali ed è capace di
aggressioni fisiche, e la Javista, che non si vede ma della quale essi spesso
dicono di sentire l'agitarsi fuori dalle baracche nelle notti ventose.
Quando si sospetta che in un posto possano esservi morti degli esseri umani,
gli uomini, da soli, vegliano la notte e si accertano se lì sia possibile o
meno costruire il nuovo accampamento: uno degli ostacoli maggiori al
trasferimento di un gruppo sul terreno assegnatogli da una amministrazione
comunale in provincia di Cagliari, oltre le condizioni davvero infami visto che
si trattava di un terreno adiacente ad un ex-inceneritore di rifiuti urbani, fu
la paura che nei pressi potessero aggirarsi i fantasmi di neonati morti (gli
Zingari sono rimasti molto colpiti dalla «abitudine» di certe donne non-zingare
di liberarsi dei neonati buttando li nei cassonetti dei rifiuti). Altri elementi
del passato sopravvivono sicuramente nella simbiosi presente all'interno delle
ricorrenze religiose: durante la Festa di Primavera si rinnova il rito del
Kurbano (il sacrificio dell' agnello), con il quale si prepara la Shastimace,
il cibo del ringraziamento per una grazia ricevuta.
La Festa di Primavera si ricollega poi alla concezione animistica della
rinascita della natura: cessa l'inverno, con il suo buio e le sue malattie, e
inizia la positiva Primavera, il mondo naturale si risveglia e inizia un nuovo
ciclo vitale.
Ma al pari di queste credenze, e ad esse ormai intimamente associate, sono ben
vive quelle apprese con l'islamismo.
A questo proposito c'è da domandarsi, ma è solo una domanda spontanea alla
quale forse potranno rispondere più competenti ricerche, se l'associarsi degli
Zingari all'islamismo o al cristianesimo, non abbia in qualche modo
rappresentato la naturale evoluzione di un senso religioso fatali sta e non
positivo.
Una tesi un po' azzardata: se non altro perché suppone non la simbiosi tra
credenze diverse, madre di un qualcosa che comunque resta autonomo e
differenziato, ma la piena e totale conversione.
Cosa che, senza dubbio, per tanti di loro oggi non è.
Capitolo sesto: la vita nei campi abusivi a Cagliari
Un uomo ha bisogno di cinque cose: una donna, una
tenda, le sue mani, un occhio acuto e qualche cosa per cui combattere
proverbio kalderasha
Organizzazione sociale tra passato e presente
Alessandro Galdi, in un'interessante monografia
apparsa sulla rivista «Etnia» nel 1982, scrive che la Kumpania rappresenta
l'unica forma di organizzazione sociale conosciuta dai gruppi zingari e che
essa sarebbe basata sulla famiglia nucleare.
Secondo J. Pierre Liégeois, più famiglie nucleari legate da vincoli di
parentela, formerebbero una Vitsa, secondo altri una Stamma, che potrebbe
arrivare sino alle duecento persone.
Più Vitse formerebbero gruppi ancora più ampi denominati Natsie e queste ultime
sarebbero alla base dei sotto gruppi fondamentali dei Rom, dei Sinti e dei
Gitani.
La Kumpania, che sarebbe struttura estremamente instabile e caratterizzata -
oltre che dai vincoli familiari - dalla corresponsabilità economica nello
sfruttamento delle potenzialità di un determinato territorio, verrebbe guidata
da un capo, il Baro Rom, il Grande Uomo, l'anziano «... che detiene l'autorità
nella sua famiglia, e più grande è la famiglia più ampia è la sua autorità, e
quindi più grande il rispetto che gli altri Zingari portano nei suoi confronti».
Nei gruppi Roma presenti a Cagliari molte di queste definizioni che sono facili
a trovarsi negli studi a carattere antropologico e sociale, sono quasi del
tutto sconosciute, segno forse di una modernizzazione rapida ed impietosa che
sta velocemente stravolgendo la tradizionale organizzazione.
Sino a pochi anni orsono, all'interno di ogni grande gruppo legato da vincoli
di parentela, si poteva riscontrare la presenza di un «personaggio
rappresentativo», che solo superficialmente potremo definire un «capo».
Il suo ruolo veniva riconosciuto per elezione delle sue capacità: saggezza,
moderazione, buona attitudine nel dare le coordinate di comportamento
nell'incontro-scontro con la società dei gagé. Le sue indicazioni venivano di
norma rispettate e applicate senza discussioni. Egli stabiliva il luogo della
sosta, sanciva le norme di comportamento da tenersi con la circostante
popolazione gagé, intratteneva i rapporti con le autorità e dispensava consigli
sulle controversie più spinose.
Oggi, a distanza di pochi anni, in alcuni gruppi questo delicato meccanismo
sembra essersi in qualche modo inceppato.
Anche se è difficile ipotizzare perché ciò sia avvenuto, mi sembra abbastanza
plausibile che l'unitarietà dei gruppi stia entrando in crisi anche a causa
dello scontro con la nostra società, con i suoi miti di ricchezza e di
individualismo esasperato e con gli altri disvalori caratteristici della nostra
civiltà dei consumI.
Un'altra possibile concausa sarebbe forse da ricercarsi nella nascita di un
nuovo tipo di povertà, quella urbanizzata e tendente a tracciare la strada per
una progressiva sottoproletarizzazione dei gruppi zingari, con tutte le
caratteristiche proprie di tale fenomeno.
Emblematica, nella sua semplicità, è l'esperienza di Nusret Selimovic, giovane
Zingaro proveniente dal Montenegro e residente a Cagliari da ormai quasi un
decennio, che sino ad alcuni anni orsono ricopriva il ruolo di «capo»
all'interno di una delle più affollate Kumpanie xoraxané.
Giovane, ma rispettato per la sua intelligenza e per il suo spiccato buon
senso, dopo la morte di sua figlia Tiziana, uccisa da una broncopolmonite
fulminante e martoriata dai morsi dei topi, entrò in contatto con i volontari
di un' associazione che da tempo si batte contro l'emarginazione degli Zingari.
Fattosi esso stesso promotore dei diritti della sua gente, divenne in qualche
modo la figura mediatrice tra i Roma, l'associazione del volontariato e le
autorità locali che, a più riprese, promisero la costruzione dei Campi Sosta e
altri interventi che avrebbero dovuto arrestare la falcidia dei bambini migliorandone
le condizioni di vita.
La delusione provocata dalle promesse non mantenute dalle autorità locali, alle
quali lui aveva invece creduto e delle quali in qualche modo si era reso
involontario garante verso gli altri Roma - dai quali continuava a pretendere
sia Il rispetto delle tradizioni che comportamenti di buon vicinato con i
non-zingari - provocarono lentamente quanto inesorabilmente una caduta di
prestigio che più avanti gli impedì di continuare a svolgere il proprio ruolo.
Nessuno poi l'ha sostituito, perché il gruppo originario è andato
trasformandosi e oggi appare sicuramente più instabile, disorganizzato, esposto
a maggiori rischi di quanto non lo fosse in precedenza.
Una delle tradizioni delle quali è invece rimasta qualche traccia, è quella
della Kris, l'organo giudiziario della Kumpania.
La Kris, che significa Consiglio, Tribunale, Giustizia, rappresentava un tempo
l'organo deputato a presiedere il buon andamento della comunità e la
«giustizia» interna. Essa non aveva potere esecutivo ma esercitava il compito
di giudicare, condannare e assolvere la persona imputata di qualche reato.
Questa sorta di tribunale, presieduto da un anziano chiamato Krisnitori (che
letteralmente significa giudice o mediatore), era completamente autonomo dalla
giustizia amministrata dai non-zingari e si pronunciava su diverse colpe
considerate gravi:
- adulterio;
- furto ai danni di uno Zingaro;
- rottura della promessa di matrimonio;
- delazione all'autorità non-zingara;
- violenza fisica su altri Zingari;
- violazione di certi tabù;
- contrasti di vario genere tra singoli o famiglie.
L'incarico di eseguire le sentenze, che erano inappellabili, spettava
all'intero gruppo. Le sanzioni potevano essere di quattro tipi diversi:
corporali, economiche, sociali e soprannaturali. Queste ultime, quando il
colpevole di una determinata colpa non veniva individuato, venivano invocate
sul suo capo, nella convinzione che la giustizia divina l'avrebbe prima o poi
raggiunto secondo quanto stabilito dagli uomini.
Oggi la Kris, termine che è più utilizzato dai dassikané che non dai xoraxané,
è praticato in modo assai informate e per problemi non necessariamente gravi.
A volte capita, più volte è capitato a Cagliari, che qualche Zingaro invece di
rivolgersi alla giustizia interna preferisca rivolgersi direttamente agli
organi di Polizia dei gagé. In un'occasione capitò che un nuovo arrivato nel
Campo abusivo di Selargius, contravvenendo alle indicazioni comportamentali
dategli in precedenza, entrasse in un appartamento vicino e rubasse gioielli e
preziosi per una considerevole cifra.
Il caso volle che del furto fosse poi accusato un altro Zingaro: la «Kris»
decise e mise in pratica la «cattura» dello Zingaro colpevole, la sua
«bastonatura» e l'immediata consegna alla Polizia.
Spesso la sanzione decisa dalla «Kris» consiste semplicemente nell'
allontanamento del o della colpevole, al quale ci si sottopone senza resistenza
e che solitamente non ha lunga durata.
Quando un uomo o una donna si sono comportati in maniera palesemente contraria alle
regole del gruppo, o hanno offeso gravemente e in maniera irrimediabile una
persona della propria famiglia, allora possono venire espulsi in modo che detta
espulsione sia pubblica e appariscente: la persona che si vuole allontanare è
costretta ad uscire dal Campo non per la strada principale ma da una via
laterale.
In un Campo abusivo che era provvisto di una recinzione metallica, una volta
venne aperto un varco nella rete per allontanare, proprio come un ladro, la
persona colpevole di un comportamento anomalo.
Quando tra due uomini, o tra due famiglie, viene a crearsi un dissidio, i
contendenti possono affidarsi al giudizio insindacabile del «Krisnitori», che
in questi casi esercita le funzioni di conciliatore.
Esso solitamente viene scelto tra le persone più anziane del gruppo e non deve
necessariamente essere di sesso maschile. In questo modo molti dissidi che
potrebbero altrimenti diventare più gravi, vengono ricomposti in modo pacifico
ed indolore.
La nascita e l'imposizione del nome
Le antiche credenze del popolo degli Zingari
volevano la nascita di un bambino come un evento carico d'impurità e quindi
sottoposto a numerosi riti e altrettanti tabù.
In certi gruppi il parto non poteva avvenire nello stesso spazio dove si
abitava. Venivano perciò predisposte apposite tende che più tardi venivano
distrutte.
In altri gruppi il parto poteva anche avvenire direttamente all'aperto.
Secondo Alessandro Galdi: «Il parto alla luce del sole ed a contatto con la
terra non è sconosciuto in altre culture. Esso implica un legame diretto tra la
vita nascente e la forza vitale derivante dalla natura».
La partoriente, prima della nascita, era usa sciogliersi i capelli. A parere
della Cozannet, questo rito riprendeva «... la credenza ben nota nella storia delle
religioni, che considera la capigliatura femminile carica di va lenze magiche;
sciogliendo la la madre libera tali forze per rendere più facile il parto».
Oggi le donne nomadi presenti a Cagliari e in tutta la Sardegna solitamente
partoriscono in ospedale e, visto il persistere di tutta una serie di ben
precisi tabù che circondano l'evento, è assai probabile che esse non lo
facciano solo per questioni di igiene e di sicurezza ma anche per trasportare
lontano dai luoghi da loro abitati un evento così carico d'impurità.
I riti e le abitudini che seguono il parto hanno duplice funzione: proteggere
gli adulti dall'impurità ed il bambino dalla cattiva sorte.
Quando è possibile la madre conserva il cordone ombelicale, il Bureko, del
nuovo nato. Dopo che il cordone si è completamente asciugato, esso viene
intrecciato e cucito insieme ad alcune fasce di tessuto. Si ottiene in questo
modo una specie di corda, la Fasha, che verrà tenuta avvolta intorno all'addome
del neonato per procurargli la buona sorte e per proteggerlo dagli spiriti del
male sempre in agguato.
Quando non è possibile conservare il cordone ombelicale esso viene sostituito
da una semplice fascia di lana arrotolata e ben cucita.
Benché i Roma che vivono in Sardegna siano quasi tutti di religione islamica, a
confermare la tendenziale interreligiosità degli Zingari, capita qualche volta
che sul capo del neonato venga posta una cuffia stracarica di medagliette e
immagini religiose cristiane, soprattutto per proteggerlo dall'invidia e dalle
maledizioni. In qualche caso le medagliette ricoprono a decine anche le fasce e
gli abitini.
Dopo il parto inizia per la madre un periodo di auto isolamento che può durare
mesi e mesi. Essa non esce dalla sua baracca se non nei rari momenti in cui non
corre il rischio di essere veduta dagli uomini delle altre famiglie. Per lo
stesso motivo, ovviamente, le sono precluse le visite nelle altre baracche e i
normali rapporti di relazione.
Sempre nello stesso periodo essa non può cucinare per il marito e per gli altri
figli, perché l'impurità, della quale è ancora portatrice, potrebbe
trasmettersi ai cibi che tocca, e, per lo stesso motivo, le è fatto divieto di
toccare gli abiti o le coperte dei congiunti.
Per le necessità quotidiane la famiglia viene aiutata da una parente,
rigidamente femmina, dato che la madre non può assolutamente essere vista dagli
uomini del gruppo.
L'uso di questa «quarantena», rispettato ancora in certe famiglie, sta invece
scomparendo in altre, specialmente in quelle formate da giovani o giovanissime
coppie.
Il mantenimento di queste tradizioni non dipende poi solamente dalla volontà di
preservarle o meno: esso presuppone una grande collaborazione da parte delle
altre famiglie, perché necessita di aiuto e di sostegno.
Una madre che non viene aiutata da nessun' altra donna nelle faccende
domestiche non può oggettivamente uniformarsi alle vecchie tradizioni, quindi
cucinerà, laverà gli abiti, andrà in giro per il Campo come sempre ha fatto
prima del parto.
La reazione degli anziani verso le giovani coppie che non si adeguano alla
tradizione a volte può invece essere molto dura. Se una donna che ha partorito
da poco tempo circola liberamente per il Campo, senza che abbia per questo
valide giustificazioni, il suo portamento viene ritenuto gravemente offensivo.
È capitato che qualche giovane imprudente, mentre si avvicinava ad un'altra
baracca, sia stata bruscamente invitata a tornare sui suoi passi, pena una
brutta «lezione» corporale.
La madre, già sottoposta a questa incredibile serie di restrizioni, deve mantenere,
per un certo periodo, alcune precauzioni nei confronti del bambino.
Per esempio se il piccolo, o la piccola, piange perché sta mettendo i denti,
essa non può assolutamente controllarle la bocca. Capita così che questa
incombenza venga magari affidata a qualche amico gagé, che controlla il piccolo
e poi tranquillizza la madre, preoccupata ma bloccata sui suoi timori.
Questo tipo di credenza (il timore che controllando la bocca del bambino si
possa provocare la caduta dei denti), è presente anche fra le popolazioni non
zingare della Polonia e dell'Ucraina.
Anche il padre del bambino è tenuto ad uniformarsi ad una serie di regole,
alcune tese a proteggere sé stesso dall'impurità ed alcune tese invece a
garantire il benessere del neonato. Esso non può toccarlo o prenderlo per un
periodo che può arrivare anche a dieci mesi, un anno. Per lo stesso periodo
egli farà in modo di essere presente nella baracca dove il piccolo dorme dal
tramontare al sorgere del sole. Questa abitudine ha forse le sue origini nell'antica
convinzione che «... è proprio durante la notte che la vita del neonato è
minacciata dagli spiriti cattivi, che la presenza del padre tiene invece a bada».
Tra i Roma che vivono a Cagliari non esiste il rito del battesimo, essendo la
loro fede musulmana. Il nome, il Romano Lab, viene così imposto in una
cerimonia chiamata Babine, alla quale vengono invitati parenti ed amici, tra i
quali anche i gagé, che sono ben accetti.
Gli invitati portano in dono una bottiglia di liquore, o un dolce, per i genitori
e un oggetto prezioso per il bambino. Quest'ultimo può essere la classica
catenina d'oro, o un bracciale e, se si tratta di una bambina, un paio di
orecchini.
Poi, seduti sui tappeti, ognuno degli invitati propone un nome di suo
piacimento. La scelta finale spetta al padre del bambino che può tener conto o
non tener conto dei suggerimenti degli amici.
I nomi zingari possono essere di ogni tipo, slavi, italiani, attinti dalla
tradizione o sentiti casualmente alla televisione, nomi di santi, di attori, di
parenti o di egregi sconosciuti. Secondo Kochanowski gli Zingari tendono ad
assumere, in generale, i nomi tratti dall' onomastica dei territori dove
abitano o dove hanno abitato.
Il De Foletier riporta invece quanto asserito da altri numerosi ziganologi:
«... in certi gruppi il nome scelto dalla madre per il proprio figlio resta
rigorosamente segreto, finché non è cresciuto, altrimenti gli estranei e anche
i geni cattivi, potrebbero avere un potere su di lui e nuocergli»7.
Secondo alcuni Zingari il nome segreto viene tutt' ora usato, e in questo caso
si imporrebbe pubblicamente solo il nome «pubblico», secondo altri no.
Di certo la cerimonia dell'imposizione del nome appare di particolare solarità
e spensieratezza, ed è, per certi versi, anche molto divertente. Dai classici
Omer, Svetlana, Airis, Katiza, amo, Sultano, Zumber, si passa a nomi
epico-televisivi quali Tarzan o a stratagemmi come Tersun, nome imposto da
Nusret al suo primo figlio maschio semplicemente invertendo l'ordine delle
lettere del proprio nome.
Quando il bambino sarà poco più grande, e se si verificano certe condizioni,
gli si cercherà un padrino. Solitamente al di fuori del parentado e in una
famiglia che sia stimata e potente.
Così la famiglia del bambino si lega a quella del padrino in un vincolo di
amicizia e di reciproca alleanza. La Cozannet riporta un brano di Mateo
Maximoff su quelle che una volta erano le usanze dei Rom Kalderasa: «Il padre e
la madre devono il più grande rispetto al padrino e alla madrina; in loro
presenza non hanno il diritto di proferire insulti, anche se hanno buoni motivi
per adirarsi. Non possono mentire loro; anche se fosse necessario. (...) Se i
genitori sono ricchi, offrono una camicia al padrino e un fazzoletto alla
madrina, anche se non si trovano nella stessa regione... Da parte sua il
padrino deve aiuto e protezione al figlioccio. Non può né colpirlo, né
ingiuriarlo, ancor meno maledirlo. I suoi figli carnali si considerano, nei
riguardi del figlioccio, come fratelli e sorelle della croce».
Questa testimonianza, che si riferisce ad un gruppo di fede cristiana, palesa
alla perfezione gli stessi ruoli assunti dal padrino, dai genitori e dal
figlioccio nei gruppi Roma di fede musulmana.
Dal momento in cui il padrino taglia una ciocca di capelli al figlioccio (e
deve essere necessariamente il primo taglio di capelli della sua vita),
l'impegno assunto reciprocamente resterà valido per tutta la vita.
I matrimoni
La Cozannet ha scritto che nel vasto universo
zingaro il matrimonio, di norma, segue i canali di una struttura
«matrilineare», cioè per filiazione uterina.
Questo significa che i legami di parentela si costituirebbero attraverso la
madre ed è lo sposo che si assocerebbe alla famiglia e quindi alla Kumpania
della sposa.
In questi casi la donna ricoprirebbe un ruolo molto importante: «Il posto della
donna in una società puramente nomade è di particolare responsabilità; signora
del focolare domestico, essa lo è anche di tutto quanto sia strettamente
caratteristico della vita errante, della necessità di fare fagotto senza sosta,
di rifare eternamente lo stesso accampamento, di smontare e rimontare in
continuazione, tra le preoccupazioni della madre di famiglia ».
Questa interpretazione del matrimonio e della composizione delle nuove famiglie
è stata considerata dai più autorevoli ziganologi italiani, come ad esempio l'
antropologo Leonardo Piasere, del tutto infondata.
Di certo infondata lo è rispetto agli usi dei Roma xoraxané e dassikané
residenti in Jugoslavia e in Sardegna, nel senso che di norma è la donna che si
associa alla famiglia e alla Kumpania dello sposo.
Il matrimonio avviene di solito in un' età giovanissima, dai quattordici ai
sedici anni per ambedue i coniugi, anche se non è raro che qualche uomo più
«vecchio» si unisca con una donna molto più giovane.
L'interruzione precoce di un'adolescenza che tra i non-zingari si protrae
ancora per diversi anni è un dato assolutamente normale: tra gli Zingari si
cresce in fretta e le difficoltà della vita non lasciano spazio ad una crescita
dilazionata nel tempo.
Quando un giovane ha deciso di sposarsi, e ha il consenso della famiglia su
quella che è stata la sua scelta, i suoi genitori si recano a far visita al
padre e alla madre della futura sposa e qui comincia una trattativa che a
volte, a quanto ho potuto vedere, coinvolge anche altri parenti stretti. I
richiedenti portano in dono una bottiglia di liquore adornata con nastrini
colorati, tra i quali viene inserita qualche banconota.
Quando si parla di trattative, o meglio di «contrattazione del prezzo» del
matrimonio si fa riferimento al fatto che la famiglia dello sposo deve
risarcire quella della sposa con una certa quantità di denaro.
Ma non si tratta, come superficialmente si sarebbe portati a credere, di una
vera e propria vendita della ragazza. Il prezzo della donna sembra essere più
un agente mediatore tra le due famiglie che non un costo in assoluto.
Esso può, attraverso una serie di concessioni, ridursi o annullarsi se tra le
famiglie esistono rapporti di stima e rispetto, oppure elevarsi in modo sproporzionato
per impedire di fatto le pretese avanzate da una famiglia poco gradita.
La trattativa avviene in questo modo.
Il padre del pretendente chiede il «prezzo» della donna. Se la famiglia è
stimata il genitore stabilisce una cifra che già sa accessibile e che deve
essere versata immediatamente.
Ora, quando i rapporti sono davvero buoni, non è raro che parte di questi soldi
vengano restituiti seduta stante, un po' per gli sposi, un po' per il banchetto
nuziale, qualche volta in semplice regalo ai genitori dello sposo.
Gli Zingari che ignorano queste «buone maniere», quelli troppo avidi o comunque
troppo interessati al denaro, sono disprezzati e tenuti ai margini della vita
sociale del gruppo.
Se le due famiglie non vanno d'accordo, e i due ragazzi intendono ugualmente
unirsi in matrimonio, il giovane farà in modo di organizzare il «rapimento»
della ragazza, ovviamente dietro precisi accordi: si tratta insomma di un
rapimento su «appuntamento». I due fuggiaschi, dopo aver trascorso due o tre
giorni insieme, rientrano nelle rispettive famiglie che a quel punto, volenti o
nolenti, sono costretti a riaprire le trattative.
Dall'incontro fra i genitori alla cerimonia del matrimonio trascorrono pochi
giorni, di solito una settimana.
Nel Campo del ragazzo fervono i preparativi per la grande festa, mentre la
famiglia della ragazza prepara l'abito nuziale, bianco e con tanto di velo
intorno. La cerimonia del matrimonio, l'Abijav, comincia sulla tarda mattinata:
un giovane messaggero, il Ciajo, si reca di Campo in Campo per annunciare
l'evento.
Successivamente lo Starisvat, solitamente un uomo di prestigio che ha il ruolo
di gran cerimoniere, organizza il corteo di auto che porterà tutti gli Zingari
verso il Campo della ragazza. Lo sposo invece aspetterà, da solo, che la
giovane gli venga portata sino alla soglia della nuova baracca, costruita
appositamente per la nuova famiglia.
Il corteo delle auto, agghindate a festa con centinaia di fiori, percorre la
città in un frastuono di clacson e urla. L'importanza dell'avvenimento deve
essere manifestata anche ai gagé.
Nel Campo della sposa, dopo un breve banchetto e un primo scambio di doni e
denaro, la ragazza viene affidata alla nuova famiglia. Essa verrà presa in
consegna dallo Jevero, un valletto, ma a volte sono due, che le resterà
incollato per tutto lo svolgimento della cerimonia e della festa. Lo Jevero,
solitamente un giovanissimo prossimo candidato alle nozze, indossa un'ampia
fascia colorata che ne distingue il ruolo. Prima di andar via i parenti del
ragazzo, per buona sorte, tentano di «rubare» un oggetto nella baracca della
famiglia della sposa, un piatto, un coltello o altro ancora.
Poi, nel viaggio di ritorno, la carovana di auto, alle quali si sono aggiunte
quelle dei parenti della ragazza, viene preceduta da un altro messagero, il
Bajrakgija, che stringe in mano una bandiera. Questa bandiera verrà poi
sistemata sulla baracca degli sposi.
Uno dei momenti più festosi e commoventi della cerimonia si compie quando la
ragazza mette piede nel Campo del suo futuro sposo. Essa, tenendo lo sguardo
chino in segno di umiltà, bacia la mano di ogni invitato e poi la porta sulla
fronte in segno di rispetto: dopo di che si avvia verso la nuova baracca, dove
lo sposo l'attende col braccio teso sullo stipite della porta, a formare un
arco sotto il quale dovrà passare.
Quando, sempre a capo chino, passa sotto il braccio teso ed entra nella
baracca, l'Abijav si è compiuto, i due giovani sono diventati marito e moglie.
Il passaggio della donna sotto il braccio dell'uomo, e la sua entrata nella
nuova casa, rappresentano il vero rito del matrimonio. Il vasto cerimoniale che
precede e segue questo momento è più legato all'idea della festa che non al
rito stesso. Un rito che conclude quanto di più naturale possa esistere:
l'unione volontaria e pubblica di due persone in una nuova famiglia.
Alcuni ziganologi, di fronte a questa semplicità rituale che sembra essere la
caratteristica di quasi tutti i gruppi zingari, hanno ipotizzato che in un
remoto passato non esistesse tra di loro alcuna traccia di cerimonie ufficiali:
«Presso popolazioni vicine al ritmo della natura, nelle quali il matrimonio è
considerato la realtà umana sociale di base e in cui la sessualità è oggetto di
strette regolamentazioni, l'effettiva realizzazione della essenzialità del
matrimonio, ossia del vivere maritalmente insieme, sembra essere sufficiente e
rende inutile qualsiasi rito che esprima l'atto di volontà reciproca che si
suppone sia stato formulato al momento di iniziare la coabitazione».
È certo comunque che, a prescindere dall'elementarità dell'atto, attorno ad
esso venga poi a manifestarsi una delle feste più belle e gioiose del mondo
zmgaro.
Un grande banchetto accoglie i numerosissimi invitati. Sulla spalla di ognuno
di essi verrà appuntato lo Svatu, un fazzoletto colorato che ne designa la
qualità di ospite gradito.
Sulle lunghe tavolate il piatto principale, come sempre, è la pecora arrosto,
che viene presentata intera, a volte ripiena, e che sempre viene farcita con
erbe aromatiche. Nel corso della festa numerosi sono i balli e i canti, nei
quali vengono invariabilmente coinvolti anche gli ospiti gagé: balli e canti
che durano sino a notte inoltrata e che in alcuni casi possono proseguire anche
per diversi giorni.
Durante il banchetto la sposa, sempre affiancata dallo Jevero, è presente ma
separata dal gruppo festante. Per consuetudine essa deve restare immobile e a
capo chino, sia per manifestare il dolore che prova nell'abbandonare la sua
famiglia d'origine e sia per manifestare umiltà e rispetto nei confronti di suo
marito.
Sul finire della serata, lo Starisvat, il cerimoniere, dà inizio alla raccolta
di fondi per i giovani sposi.
Egli è il primo a deporre, su un grande piatto circolare, una certa somma di
denaro. I genitori della sposa dovranno offrire almeno la stessa cifra proposta
dal cerimoniere, mentre i parenti del ragazzo solitamente la superano. Poi
tutti gli invitati danno il loro contributo. Ultimo a deporre sarà lo Jevero,
secondo il detto «Jevere isgore cesa» (il valletto brucia il portafoglio), e
solitamente è quello che offre più di tutti.
La prima notte di nozze dei due giovani viene preceduta da un' altra formalità.
Alcune donne anziane, solitamente le due madri più qualche altra parente,
devono visitare la sposa e accertarsi della sua illibatezza. Il tabù della
verginità, un tempo molto importante, sembra aver perso parte della sua
rilevanza.
Se anche le donne dovessero verificare che la giovane ha già perduto l'
illibatezza prima del matrimonio, questo non sarebbe necessariamente un valido
motivo per la rottura del patto matrimoniale.
Se però le donne dovessero accertare che la sua verginità è ancora intatta,
allora la festa proseguirà per alcuni giorni ancora, a volte anche per un'
intera settimana.
Dopo la prima notte, sempre nel caso la sposa fosse ancora illibata, le
lenzuola sulle quali la giovane coppia ha dormito vengono esposte sul tetto
della baracca, ma prima ancora devono essere controllate dalla madre dello
sposo.
Nei giorni a venire la festa continua, a volte anche con lo svolgimento di gare
di corsa divise per categorie: bambini e bambine, donne e uomini.
Alcuni giorni dopo, di mattina presto, si svolge poi un altro rito assai
curioso. La giovane coppia, insieme al padre e alla madre dello sposo, si
recano sino alla baracca dei genitori della sposa. Qui accendono il fuoco,
svegliano marito e moglie e gli portano una bacinella colma d'acqua perché
possano lavarsi. Dopo di che preparano la colazione.
In Montenegro, sino a qualche tempo fa, la sposa eseguiva questo servizio anche
nelle baracche vicine a quelle dei suoi genitori.
Il divorzio zingaro
Solitamente la coppia zingara è molto salda ed unita
dal vincolo di fedeltà, per quanto il ruolo della donna sia subordinato a
quello dell'uomo.
In certi casi però è previsto il divorzio che avviene semplicemente per
distacco di un coniuge dall' altro.
I motivi che possono portare ad una separazione possono essere tra i più
svariati: primo fra tutti quello di un'incompatibilità di carattere che non
riesca ad essere ricomposta neanche dall'intervento dei parenti più anziani. In
secondo luogo altra causa di rottura, come succede ad ogni diversa latitudine
umana, può essere l'infedeltà, che, se qualche volta può essere perdonata
all'uomo, come in tutte le società fortemente maschiliste, quasi mai viene
perdonata alla donna.
Quando gli usi di una comunità restano ancora ben compositi nel persistere
della tradizione, il marito o la moglie infedeli possono essere messi al bando,
cacciati dal gruppo senza appello e senza perdono.
Un altro valido motivo per il divorzio resta certamente quello della sterilità
della donna: in una società perennemente esposta al rischio dell' estinzione la
capacità di riprodurre è considerata la vera base di una buona unione
coniugale. La donna, da parte sua, può legittimamente abbandonare il marito
quando questo esercita su di lei una qualsiasi violenza fisica: in questo caso
l'intervento dei parenti è immediato, la donna viene riaccolta nel proprio
nucleo familiare d'origine e l'uomo può venire allontanato, a volte anche assai
bruscamente, dal Campo.
Ma, come per tutte le tradizioni zingare, anche quelle del matrimonio e del
divorzio, con relativi principi e tabù, sono soggette all'influenza di agenti
culturali esterni che a volte si possono prestare alle intenzioni più o meno
corrette di uno dei due coniugi.
Ciò a volte porta al manifestarsi di eventi che, almeno per chi li vive
dall'esterno, non possono non considerarsi curiosi e divertenti.
Una volta, in un Campo di Cagliari, capitò che Bijaco, giovane zingaro dal portamento
assai focoso, tornato da un viaggio in Montenegro, portasse con sé un'altra
donna, peraltro neanche più bella e intelligente della legittima moglie, che
già gli aveva dato tre figli. Egli con la massima serietà, e con la massima
faccia tosta, asserì di averla sposata poiché, essendo loro di fede musulmana,
potevano, volendo, avere anche più di una moglie.
Ben presto tutto il Campo fu avvinto da litigi e discussioni: poteva Bijaco
fare ciò che aveva fatto senza offendere le tradizioni zingare?
Chi si mostrò assai poco disponibile alle dissertazioni teoriche fu invece
Jasmine, la sua prima moglie, le cui reazioni inizialmente non furono
propriamente ortodosse.
Le due donne, nei pochi giorni in cui durò questa paradossale situazione, si
aggiravano per il Campo sempre più tristi e sconsolate, mentre il giovane
Bijaco difendeva con baldanza la sua scelta facendo riferimento a quanto stava
scritto su alcuni libretti musulmani che tutti si affannavano a leggere. Poi,
come spesso succede, le due donne strinsero una sorta di alleanza. Presero a
muoversi sempre insieme, inseparabili, e il loro umore sembrò sollevarsi di
molto soprattutto quando avevano l'occasione di maltrattare pubblicamente
Bijaco, che cominciò a non essere più tanto convinto della sua scelta. Alla
fine preferì cedere. La ragazza venne rispedita in fretta e furia in Montenegro
con gran soddisfazione di Jasmine e un sospiro di sollievo di tutti gli anziani
del Campo.
La morte, i funerali, i lutti
Gli Zingari che si avvicinavano alla religione cristiana
erano usi, quando ciò gli veniva permesso, celebrare i riti funerari nelle
chiese cristiane. Il De Foletier ha trovato le tracce di queste cerimonie
funerarie in molte nazioni europee.
I registri delle parrocchie inglesi conterrebbero molti atti relativi a queste
sepolture.
Oggi gli Zingari convertiti al cristianesimo affidano i propri morti ai riti
ecclesiastici cristiani, mentre gli Zingari slavi, convertiti all'islamismo, di
norma fanno svolgere i funerali nelle moschee delle nazioni dove risiedono.
Ma sia in un caso che nell'altro, oltre la celebrazione del rito religioso
ufficiale, continuano a persistere usanze e specifici riti la cui origine si
perde in un lontano passato.
Nei gruppi residenti a Cagliari, quando avviene un decesso, la prima e più
appariscente reazione è l'immediata e fortissima solidarietà che accompagna i
familiari della persona scomparsa. Attorno alla famiglia si stringe tutto il
Campo e non è affatto raro che altri parenti ed amici arrivino da altri Campi
lontani anche centinaia di chilometri.
Nella baracca del defunto, che è stato rivestito coi suoi abiti più eleganti da
alcuni parenti del suo stesso sesso (per un'ultima forma di rispetto e di
pudore nei suoi confronti), inizia una lunga veglia che può trascinarsi,
secondo l'importanza che la persona ha avuto in vita, anche per un'intera
settimana.
Durante la veglia funebre si parla di ciò che la persona scomparsa ha fatto di
positivo nel corso della sua vita. Ognuno ricorda qualche episodio, cercando
sempre di porre in evidenza quelli che sono stati i suoi lati migliori e
tacendo invece di quelli non proprio positivi, che vengono rimossi dalla
coscienza collettiva.
Anche gli Zingari cagliaritani mantengono vive quelle usanze che la Cozannet ha
definito come «riti ausiliari della sopravvivenza», nella convinzione che la
persona deceduta debba essere aiutata ad affrontare il mondo ultraterreno in
ogni modo possibile.
Così all'interno della bara vengono riposti i suoi oggetti personali, salvo
quelli che potrebbero costituire un ricordo per i parenti o quelli di reale
valore.
Ciò che non si può sistemare all'interno della bara viene solitamente
distrutto. A volte la sua stessa baracca viene data alle fiamme e così i suoi
indumenti personali, il materasso dove dormiva e le coperte con le quali si
copriva. Tutto quello che non si può bruciare, come il suo piatto, o il suo
specchio, o altro ancora, viene frantumato e ciò che ne resta gettato in un
corso d'acqua: un ruscello, un fiume, o anche un lago.
In questi anni ho potuto assistere ad alcuni funerali, soprattutto, e
purtroppo, a quelli relativi ai decessi dei bambini morti per disgrazie o, come
quasi sempre è successo, per broncopolmoniti fulminanti.
Uno, quello relativo alla morte di Nedziba Bajiaramovic, una delle donne più
anziane e carismatiche del suo Clan, si è differenziato dagli altri non solo
per la partecipazione di un gran numero di amici e parenti, alcuni giunti a
Cagliari anche dall' estero, ma vieppiù per l'estemporanea partecipazione e
collaborazione di un gruppo di musulmani senegalesi.
Questa decina di giovani, provenienti dalla comunità senegalese di Cagliari ed
evidentemente più addentro di quanto non lo fossero i Romà nei cerimoniali
islamici, funsero da improvvisati mullah. Recitarono le preghiere islamiche
atte a concedere a Nedziba l'ingresso in Paradiso: non prima però di aver fatto
allontanare di un centinaio di metri tutti gli ospiti gagé cristiani che
evidentemente, con la loro presenza, avrebbero potuto compromettere il buon
fine della cerimonia.
Dopo la sepoltura, che in Sardegna si effettua nei cimiteri comunali (solo
raramente la salma viene riportata in Jugoslavia), comincia il periodo del
lutto che può durare anche per un anno intero per i parenti più stretti, mentre
per gli altri dura molto meno.
Almeno per quaranta giorni tutti debbono uniformarsi ad un comportamento
particolarmente sobrio. Gli uomini indossano un capo di vestiario nero e non si
radono più la barba, nelle baracche non si accendono più i televisori e le
radio, non si partecipa alle feste e non si può fare né ascoltare musica.
Nel periodo del lutto si svolgono alcune celebrazioni rituali legate alla
persona scomparsa.
Anche in questo caso appare difficile separare il significato che gli Zingari
danno a queste celebrazioni da quello che un tempo caratterizzava usanze molto
simili. È probabile che, come in passato, questi riti si ricolleghino all'idea
specifica che gli Zingari avevano del mondo ultraterreno, non un mondo del
tutto immateriale, quindi, ma solo un diverso stato dell'esistenza nel quale i
trapassati devono affrontare solitudine, problemi di varia natura, sofferenze e
disagi anche pratici.
Per questo motivo un tempo, all'interno dei numerosissimi riti ausiliari della
sopravvivenza, alcuni erano finalizzati al sostentamento alimentare del defunto
nel difficile mondo che egli andava ad abitare.
In Germania alcuni gruppi usavano porre nella bara un po' d'acqua e un po' di
cibo, in altri gruppi esisteva invece l'usanza di banchetti funerari veri e
proprI.
La Cozannet dice invece che in altri gruppi ancora, di fede cristiana, in
occasione di qualche festa (Ognissanti, Natale, Capodanno, etc.), in ogni pasto
o libagione era «... riservata una parte al morto, o almeno si fa
un'ovazione sulla tomba su cui si versa una bella quantità di grappa»!! In
altre parti d'Europa si organizzava invece la Pomana, un banchetto nel quale
un'altra persona recitava la parte del defunto e mangiava e beveva secondo i
suoi gusti.
Sicuramente è in queste antiche usanze che si trovano le radici di quelle che i
Romà residenti a Cagliari sono soliti porre in essere anche ai nostri giorni.
Innanzitutto dopo la cerimonia di sepoltura i partecipanti non possono
rientrare direttamente al Campo, ma devono assolutamente fermarsi in qualche
trattoria e consumare almeno un po' di cibo. Se non gli è possibile recarsi in
una trattoria, molti soddisfano l'esigenza del rito bevendo e mangiando
qualcosa in un bar della zona.
All'ora prestabilita tutti devono rientrare al Campo per partecipare ad un
pasto in comune durante il quale, ancora una volta, si lodano le doti del
defunto.
Sette giorni dopo la sepoltura si organizza un altro banchetto in onore della
persona scomparsa. Per questo pasto devono essere preparate non meno di tredici
differenti pietanze e particolare cura si porrà nel cucinare quei cibi che più
rientravano nei gusti del morto.
A quaranta giorni di distanza si tiene un altro pasto simile al primo:
questa volta però il numero delle portate non dovrà essere inferiore a undici.
Dopo sei mesi e dopo un anno lo stesso rito viene riproposto ai parenti e agli
amici. In queste due occasioni il numero delle portate scenderà prima a nove e
poi a cinque.
Il cibo che non viene consumato in queste occasioni va diviso tra tutti i
partecipanti, che poi finiranno di consumarlo nelle loro residenze. Gli avanzi
dei pasti non possono essere buttati nella spazzatura, ma vanno accuratamente
raccolti sino all'ultima briciola e poi gettati in un corso d'acqua.
Un'altra usanza che richiama alle antiche credenze dei padri è quella che vede
i parenti del defunto, recatisi in visita al cimitero, deporre ai piedi della
tomba un po' di cibo e un po' d'acqua.
Di fronte al persistere di queste usanze è legittima una domanda: gli Zingari
slavi di fede musulmana come immaginano l'aldilà: come il paradiso islamico o
come l'Oltretomba pagano e animista di altra tradizione?
Questa la risposta del vecchio marito di Nedziba: «... certo il Paradiso
esiste, ma sarà qui sulla terra, quando tutte le sofferenze che ci sono ora non
esisteranno più. Niente case, niente baracche, niente fabbriche, niente città,
niente ricchi e niente poveri, niente Zingari, niente Gagé, niente Polizia. Ci
saranno fiumi, prati, boschi e cibo quanto ne vuoi. E tutto questo sarà per
sempre».
Il Gurgevdan
Roger Bastide, nel volume «Ethnologie Général,
EncycIopedie de la Pléiade», dice che ogni rito «... è un ricominciare ciò che
è accaduto nei tempi primordiali, ma non è una semplice commemorazione,
abolisce il tempo profano per fare penetrare l'uomo nell'eternità. Il mito
rivive, il tempo mistico viene restaurato, ridi viene presente, con tutta la
sua forza attiva. Cosicché tutte le feste, tutte le cerimonie, non sono altro
che il ricominciare di ciò che è accaduto... La natura e la storia vengono
rigenerate mentre sono reintegrate in questo "illo tempore ", che in
effetti ha fondato all'inizio del mondo sia la natura che la storia».
Il rivivere di questo mito, la restaurazione di questo tempo mistico, esplode
con incommensurabile vitalità quando i Roma cagliaritani festeggiano alcune ricorrenze
di carattere religioso, delle quali la più importante e la più sentita è
certamente la Festa di Primavera, che si svolge il 6 Maggio e che viene anche
chiamata Gurgevdan, cioé Festa di San Giorgio.
È parere di alcuni ziganologi che gli Zingari festeggino le ricorrenze in
qualche modo assimilate dalle popolazioni cristiane e islamiche che hanno
incontrato lungo la strada dall'India.
Di questa assimilazione sarebbero un esempio i festeggiamenti più noti tra gli
Zingari di fede cristiana, quelli cioè relativi al pellegrinaggio che ogni anno
essi fanno sino al Santuario di Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue, dove la
leggenda vuole che nel 40 d.c. fossero approdate tre donne, insieme a San
Lazzaro resuscitato, a Massimino e a Sidone, su una barca abbandonata in alto
mare dagli Ebrei.
Delle tre donne, le cui reliquie sarebbero state riportate alla luce da Re
Renato di Provenza nel 1448, gli Zingari ne venerano in particolare una, Santa
Sara l'Egiziana, la santa di pelle nera che essi hanno adottato come loro
patrona e che dicono fosse della loro stessa razza.
Secondo il De Foletier è probabile che questo culto abbia avuto inizio solo in
tempi non troppo remoti e grazie all'identificazione in una santa che come loro
era «Kalé», cioè di pelle scura.
Nel caso del Gurgevdan invece le origini sono probabilmente assai più lontane
nel tempo e se assimilazioni vi sono state è altrettanto probabile che esse si
siano innestate alla perfezione su ricorrenze ancora piu antiche.
Il San Giorgio, la Festa di Primavera, come cadenza temporale, si collega ad un
periodo che per gli Zingari ha un'importanza fondamentale: viene a morire
l'inverno e la Primavera dà inizio ad un nuovo ciclo vitale, le tenebre vengono
sostituite dalla Luce, cessa il sonno della natura che si risveglia nella sua
nuova esistenza.
Può essere un fatto casuale, o da ricollegarsi ad altre usanze rituali, ma
appare opportuno ricordare che anche nel Peloponneso, e parliamo di più di
seicento anni fa, gli Zingari del Feudo degli Acingani, nel mese di Maggio, si
recavano in festante corteo sino alla residenza del feudatario e qui, tra balli
e canti, rizzavano l'Albero di Maggio.
E sono proprio l'albero e l'acqua, come vedremo più avanti, i simboli
primordiali della vita, che ritornano con puntualità nelle celebrazioni della
Festa di Primavera e in quella, per gli Zingari cristiani, del San Giorgio
Verde (altra ricorrenza che si svolge in primavera).
Nel San Giorgio Verde un ragazzo viene «vestito» con rami e foglie di salice,
quasi a diventare un albero vivente il cui compito sarà quello di esorcizzare,
tra le altre cose, i corsi d'acqua.
Nel Gurgevdan invece i corsi d'acqua e gli alberi trovano una diversa
collocazione. Prima di descrivere nei particolari lo svolgersi della festa
occorre dire due parole sulla figura di San Giorgio, che nella mistica
cristiana è il simbolo della lotta del bene contro il male e di cui si sa, ma
con poca certezza, che potrebbe essere stato un guerriero martire a Lydda, in
Palestina, sotto l'impero di Diocleziano.
Ma San Giorgio è un santo particolare anche per un altro motivo: egli è l'unico
riconosciuto tale sia dai cattolici, sia dagli ortodossi e sia dai musulmani.
Viene festeggiato anche nella ex-Jugoslavia e più in generale in tutti i
Balcani. Nel Kosovo, il 6 Maggio di ogni anno, i pellegrini si recano alla
Roccia di Drahovco, luogo in cui, secondo le leggende locali, San Giorgio
arrestò il proprio cavallo sul finire di una dura battaglia. Perito ed assetato
venne salvato dall' animale, il quale, battendo gli zoccoli su una grande
roccia nera, ne fece sgorgare l'acqua che lo dissetò.
Nei Campi di Cagliari i preparativi per la ricorrenza cominciano solitamente
alcuni giorni prima. Tutte le famiglie, anche quelle più povere nelle quali di
norma i pasti non sono certo abbondanti, si sono costrette al risparmio perché
per il giorno della festa niente venga a mancare.
Gli uomini hanno provveduto per tempo ad ordinare una o più pecore, il piatto
più importante dei banchetti, presso i pastori che pascolano le greggi nelle
campagne circostanti la città.
La mattina presto, appena sorge il sole, le donne, gli uomini e i bambini più
grandi, preparano i fuochi. Mentre il Campo prende vita e il fumo dei fuochi si
confonde con la bruma, tutti si scambiano i saluti augurali: un abbraccio e un
bacio sulle labbra ripetuto alcune volte.
Poi, mentre le auto sono state agghindate con fiori e pezze di tessuto
colorato, ci si prepara ad un breve viaggio: la sua meta è un corso d'acqua, un
fiumicciatolo, sito ad una ventina di chilometri dalla città. Quando la
carovana di auto giunge sul posto è ancora molto presto e le acque del piccolo
fiume sono molto fredde.
Nonostante questo tutti fanno in modo di bagnarsi almeno le gambe; per alcuni
minuti, tra grida di gioia e grandi risate, si cammina o si corre nell'acqua,
poi ci si avvicina agli alberi che cingono le rive del fiume e ognuno prende
alcuni ramoscelli.
Anche i ramoscelli vengono immersi nell'acqua.
Prima di andar via si effettua un brindisi e si scambiano altri saluti
augurali. Rientrati al Campo i ramoscelli vengono offerti a quelli che non
hanno potuto recarsi al fiume (gli anziani, i malati, le donne rimaste a
custodire i bambini più piccoli) e altri vengono posti sulla porta di ogni
baracca. L'intera mattinata verrà poi trascorsa nei preparativi per la festa
vera e propria, che comincerà nelle prime ore del pomeriggio.
Le pecore vengono uccise, appese sui pali o sui rami degli alberi e
accuratamente scuoiate. Poi, ripulite, vengono infilzate su lunghi pali e
lasciate un paio d'ore ad asciugare al sole.
Sulla tarda mattinata gli uomini, che hanno già preparato i tappeti di brace,
sistemano le pecore sui fuochi e ne curano la cottura, girando ogni tanto i
pali per far sì che essa sia ben uniforme. Nel pomeriggio, quando anche gli
ospiti gagé sono ormai arrivati al Campo, si dà inizio alla festa.
Non si tratta, in questo caso, di un unico grande banchetto: ogni famiglia
prepara nella sua baracca il proprio personale pranzo, che viene sistemato o su
lunghi tavoli o su grandi piatti circolari chiamati Tevsie e direttamente
poggiati sui tappeti: la pecora arrosto, E Bakri, riveste un significato
particolare. Il suo sacrificio, secondo i Roma più anziani, ricorda l'episodio
di Abramo e Isacco presente nel Vecchio Testamento ed in qualche modo funge da ringraziamento
per le grazie ricevute. Se queste vengono ritenute particolarmente importanti
allora il Kurbano (il sacrificio), assume un significato più solenne e con la
carne della pecora viene cucinata la Shastimace, il cibo della guarigione.
Esso viene poi offerto a tutte le famiglie del Campo perché ognuno possa
partecipare alla gioia del ringraziamento.
Il fatto che ogni famiglia abbia preparato il suo tavolo imbandito non
significa affatto che la festa venga celebrata in forma privata.
Infatti, mentre tra le baracche cominciano a risuonare le musiche slave emesse
ad altissimo volume dagli altoparlanti, l'intero gruppo si muove compatto e dà
inizio ad un'interminabile teoria di visite che lo porterà, di baracca in
baracca, a rendere reciproco omaggio a tutte le famiglie del Campo.
Sulla porta di ogni baracca tutti vengono accolti dal capo-famiglia, al quale
entrando si rivolge il saluto «Bahatalò givé» (felice giornata) e dal quale si
riceve l'augurio «The avé sasto taj bahatalò» (vieni salvo e fortunato).
Il capofamiglia porge poi ad ognuno dei nuovi arrivati un bicchierino di
liquore, che viene bevuto tutto d'un fiato prima di accomodarsi sui tappeti.
Poi, incrociando le gambe, ci si siede e si fa veramente festa.
Rispetto alla povertà dei pasti di ogni giorno la quantità di cibo messa in
mostra appare addirittura spropositata. Oltre alla pecora arrosto, che a volte
viene presentata ripiena con patate e riso, vengono offerti altri piatti
tipici, come la Pita, un torti no a base di farina, uova e formaggio, o la
Sarma, un involtino di foglie di cavolo verde con un ripieno di riso, cipolle,
salsa di pomodoro e altre spezie. Altri piatti che veramente vale la pena di
assaggiare sono il Suguko, una salsiccia di carne bovina, i Peré Paprike,
peperoni scottati al fuoco e poi infarciti con carne macinata, spezie e riso, e
la Baklava, un dolce a sfoglia i cui ingredienti sono farina, zucchero,
strutto, noci e uva passa. Nel corso di ogni visita tutti badano bene a non
esagerare: si assaggia qualcosa per rendere omaggio alla famiglia ma non si
dimentica che si è attesi da altre visite e da altri banchetti: tanti quante
sono le baracche del Campo.
Più di un vero e proprio pasto si tratta insomma di una forma di convivialità
che si esprime nei canti, nelle chiacchiere, nelle risate, nella gioia di
un'intensità rara a trovarsi e che traspare con forza dai visi segnati da rughe
precocI.
È in questo momento che l'ospite gagé, frastornato e reso partecipe della
stessa gioia, capisce con quanta forza gli Zingari vivono la propria vita oltre
tutte le difficoltà alle quali sono sottoposti nella quotidianità.
Tra una visita ad una famiglia e ad un' altra, ma a volte anche durante i
banchetti, si svolgono i Celipé: uomini e donne, gli uni vestiti spesso di
bianco e le altre coi loro migliori e più sgargianti abiti, danzano il Kolo
(molto simile al Su Ballu Tundu sardo) o l'Ingra Indja. A volte, ma solo per
pochi intimi, viene ballato un ballo che ricorda la danza del ventre turca e
che appare di rara bellezza e plasticità di movimenti.
Così la festa va avanti per ore e ore sino al tramonto del sole.
Altre feste
Le altre principali ricorrenze religiose dei gruppi
zingari residenti in Sardegna sono il Vassili e la Pasomilàj, la Festa di Mezza
Estate.
Il Vassili è una ricorrenza che si celebra il 14 Gennaio e rappresenta il vero
Capodanno Zingaro. La mattina del giorno di festa gli uomini si alzano di
buon'ora e si portano fuori dalla città, alla ricerca di un bosco. Una volta
l'usanza prevedeva che si tagliassero tanti alberi quanti erano i figli maschi
di ogni famiglia; oggi, anche perché il verde rimasto è assai poco, ci si
accontenta di prendere qualche grosso ramo.
Su questi rami, una volta che i capo-famiglia li avranno riportati al Campo, le
donne gettano chicchi di riso, di caffè o, ancora, di granturco. I rami vengono
poi sistemati in capaci vasi e portati all'interno delle baracche: ogni
famiglia ha il suo e, con grande gioia dei bambini, questa sorta di alberello
viene decorato con festoni e qualche volta con luminarie. Assumerà l'aspetto,
né più né meno, di uno dei nostri alberi di Natale.
Il giorno successivo la festa si ripropone con buoni pasti, visite di amici e
parenti e auguri di buona sorte.
Il Pasomilàj, la Festa di Mezza Estate che si celebra il 2 Agosto di ogni anno,
ricorda invece molto da vicino, a parte i riti relativi agli alberi e
all'acqua, la Festa di Primavera.
Di nuovo ardono i fuochi e di nuovo le pecore vengono preparate per i tanti
banchetti allestiti da ogni famiglia. Anche l'intensità dei balli e dei canti è
la stessa del Gurgevdan, forse anzi l'atmosfera più solare la rende ancora più
bella e suadente. Gli unici che non partecipano alla conviviale allegria della
ricorrenza festiva sono quelle persone colpite da un lutto ancora recente.
Oltre queste ricorrenze esistono poi altre occasioni di festa e sono quelle
nelle quali si ringrazia Del per una grazia ricevuta: una guarigione da una
brutta malattia, il ricongiungimento con persone care rimaste a lungo lontane,
lo scampato pericolo occorso in un incidente stradale e altro ancora.
Si tratta, in questi casi, di feste private alle quali vengono invitati a
partecipare solo i parenti più stretti e gli amici più cari. Spesso questo
genere di feste diventano le personali ricorrenze di una famiglia: ogni anno,
in quel dato giorno, si continua a celebrare il ringraziamento, quasi che il
non farlo potesse attirare sui congiunti una nuova disgrazia, poiché vorrebbe
dire mostrare superbia e indifferenza verso Del che ha concesso la grazia.
Questo è il vero senso della religiosità zingara: la manifestazione della
propria gioia di vivere, della ostinazione contro le difficoltà della vita, del
ringraziamento genuino e modesto per quel poco di buono che all'esistenza
quotidiana si riesce a strappare.
Capitolo settimo: immagini fotografiche
Capitolo ottavo: la letteratura orale
Non si pone un cartello con scritto: - Non soffiare
qui -, poiché il vento non sa leggere...
proverbio kalderasha
Un vasto movimento internazionale (in Italia
soprattutto il Centro Studi Zingari) sta oggi lavorando per associare la lingua
zingara, la Romani cib o Romanés con le sue tante varianti, alla tecnologia del
segno scritto.
La Romani Union, che raggruppa una settantina di associazioni nazionali e che
dal 1979 è titolare di un seggio permanente alle Nazioni Unite, starebbe
focalizzando i suoi sforzi sulla normalizzazione delle regole ortografiche.
Ma, nonostante studi e ricerche e nonostante siano ormai abbastanza numerosi
gli autori zingari di opere scritte di varia natura, la letteratura zingara era
e resta di tipo «orale». Il che apre una questione squisitamente di metodo: la
stessa dizione «letteratura orale» appare in qualche modo impropria e figlia
unica di un escamotage che a ben vedere è un paradosso in termini.
Letteratura infatti, tanto a livello di origine etimologica che a livello
semantico, significa «produzione di segni scritti». Poetica o prosastica, ma
indubbiamente e definitivamente «scritta».
Il concetto di «letteratura orale» appare quindi come uno slittamento, una
concessione semantica elaborata per trattare, e scrivere, del diverso
manifestarsi di determinati patrimoni, di determinate civiltà, che non si sono
associate alla tecnologia del segno scritto o che ad esso si sono associate
seguendo un percorso ritenuto tanto graduale quanto ineluttabile.
In questo senso si parla di civiltà preletterate, quelle cioè che, lungo la
strada, si sarebbero evolute dotandosi di un proprio alfabeto, di una propria
struttura, di una propria filologia e di una propria esegesi.
Le letterature orali, che secondo Mircea Eliade si confonderebbero alle origini
con le religioni, trattavano di «... leggende in cui si mescolano animali,
comuni mortali, eroi, forze della natura, dei, racconti di grandi imprese
guerriere o di prodezze contadine, cicli di canzoni destinate ad essere cantate».
Si tratterebbe insomma delle manifestazioni di quelle civiltà che si nutrirono
di miti e primordi concettuali, destinate a diventare maggiorenni solo con
l'acquisizione della scrittura: culture, appunto, pre-letterate.
Lo stesso ragionamento, se applicato agli Zingari, assume l'insopportabile
sapore di un etnocentrismo culturale esasperato e corrosivo. La cultura zingara
sarebbe cioè preletterata, cioè primordiale, cioè destinata per forza di cose a
trovare una propria emancipazione nella scrittura: un pregiudizio, avvisa
Giulio Soravia, «... che si nutre dell'intima convinzione che non solo una
cultura orale sia un punto di partenza e mai una modalità non tanto d'arrivo
quanto diversa rispetto alla civiltà della scrittura, ma anche che lo scritto
abbia una sorta di prestigio maggiore ed assoluto, di validità e di perfezione,
tanto che solo il testo scritto è testo».
In realtà la cultura zingara, termine che racchiude tutto e niente, non è
affatto preletterata, né la si può considerare tale anche se oggi corre
apparentemente verso la scrittura.
Essa da sei secoli convive con le civiltà letterate per eccellenza, quelle
occidentali, assorbendone magari quel «vocabolario incompleto» teso vieppiù a
comprendere e comunicare col mondo dei gagé in modo direttamente proporzionale
alle sue esigenze ma senza per questo trasfigurare sé stessa. In questo senso,
se anche per convenzione si accettasse la dizione «letteratura orale», ma
sarebbe assai più corretto coniarne una nuova, non c'è dubbio che essa sia
stata sempre esaustiva dei bisogni della comunità, senza perciò soggiacere,
almeno per motivi interni, al bisogno di associarsi alla scrittura.
Un'estraneità che ha senpre avuto il carattere della difesa ad oltranza della
propria Weltanschauung, quasi come se gli Zingari davvero si rendessero conto
che il sistema di comunicazione scritto è insieme figlio e padre di un altro
modo di intendere la vita, sé stessi e le relazioni sociali.
Leonardo Piasere ha scritto che «... antropologi cognitivisti e psicologi dello
sviluppo sono abbastanza concordi nell'evidenziare (...) cambiamenti che il
modo di comunicare scritto provoca nel modo di pensare in rapporto al modo di
comunicazione orale»4.
Tra questi, la decontéstualizzazione della conoscenza, la rigidità del
discorso, un diverso tipo di memoria, lo sviluppo dell'individualismo: tutti
aspetti dell' essere e del comunicare che non appartengono alla civiltà nomade.
La trasmissione orale del patrimonio culturale zingaro, comprese le creazioni
fabulatrici tese a rigenerare la Weltanschauung specifica, va quindi intesa
come esperienza a sé stante e non necessariamente omologabile ad altri percorsi
seguiti da altre civiltà.
Ciò risulta fondamentale al fine di costruire, nell' accostarsi a questo
patrimonio, un corretto punto di vista, ossequiosamente esterno e non invasivo
di concetti, e strumenti stessi d'indagine, che restano estranei ai concetti e
agli strumenti di comprensione di una diversa civiltà.
Certo non è facile: quando si analizzano i racconti, o i proverbi, o i canti
zingari, lo si fa con tecniche e punti di riferimento concettuali della nostra
storia letteraria.
Qualcosa insomma potrebbe non quadrare: è un approssimarsi che resta
necessariamente imperfetto, un metalinguismo spurio e in buona parte di
facciata.
Nonostante ciò la tecnologia del segno scritto, utilizzata per e sulle cose
zingare, non è rimasta esclusivo appannaggio di quegli ziganologi gagé che
hanno elaborato una letteratura «riscritta» più che scritta, «riprodotta» più
che prodotta. Da qualche decennio a questa parte si è infatti fatta più concreta
una produzione letteraria scritta da autori zingari, soprattutto all'interno di
un rapporto di difesa politica della propria etnia rispetto alle violenze e
alle sopraffazioni di quelle circostanti: una mediazione culturale che agisce
su un bilinguismo il cui grande fruitore resta ancora oggi il mercato
letterario gagé ma che si apre in prospettiva in ambedue le direzioni.
È difficile dire quanta influenza abbia oggi la produzione scritta in Romanés
sulle diverse comunità nomadi.
Certo riveste molta importanza, e trova maggiore fruibilità, presso quelle
comunità la cui alfabetizzazione è un processo già risoltosi o in via di
risoluzione, cresciuto di pari passo con un'integrazione sempre più pregnante
nella società dei gagé (ad esempio tra i Gitani spagnoli).
Molta meno importanza gli scritti in Romanés rivestono sicuramente presso
quelle comunità la cui oralità è ancora regina assoluta.
Nei gruppi Roma residenti in Sardegna, ai quali ancora si adatta alla
perfezione quanto scritto da Piasere sull'uso strumentale dell'alfabeto
incompleto, il libro resta oggetto sconosciuto, o comunque non utilizzato
necessariamente per i suoi fini «istituzionali».
Anche in questo caso però si possono notare i primi sintomi, se non di
cambiamento in assoluto, almeno di un nuovo interesse.
Alcuni libri in Romanés vengono gelosamente e orgogliosamente conservati:
parlano di cose zingare, possono anche spiegare agli amici gagé quelle «cose
antiche» che qualcun altro ha scritto sulla loro vita. In diversi casi questi
libri sono stati utilizzati per cercare conferme o smentite sulla validità di
certi comportamenti inusuali rispetto all'odierna convenzione sociale, come nel
caso del giovane che dopo un viaggio riportò a casa una seconda moglie e
scatenò così grandi discussioni nel suo Campo.
È probabile che l'esigenza di scrivere, o di cercare nei libri le origini e i
perché della propria vita zingara, si farà sempre più pressante man mano che le
attuali strategie di sopravvivenza verranno meno e man mano che l'integrazione,
o la sopraffazione, nella società dei gagé, nel bene come nel male, si farà più
importante.
Estendendo forse in modo un po' fazioso la stessa ipotesi a tutte le diverse
comunità, si potrebbe anche supporre che la letteratura scritta zingara cresce,
paradossalmente, quanto più la letteratura orale, e con essa la stessa vita
zingara, tende ad estinguersi e a diventare ricordo di cose che furono e che
non saranno più.
Non è detto comunque che ciò che verrà sarà peggiore del passato ed è probabile
che, se cambiamento deve essere, esso possa trovare buone armi di autodifesa e
di progresso proprio nella coltura attenta e fattiva di una memoria storica
veicolata in una letteratura scritta.
Letteratura scritta e riscritta
Angela Tropea, nota per i suoi studi analitici sulle
fiabe zingare, opera una distinzione tra produzione letteraria scritta e
produzione letteraria «riscritta».
«Quale sia la differenza appare subito chiaro, giacché saranno compresi nel
primo gruppo gli autori zingari che hanno scritto - per lo più poesia - nella
loro lingua; nel secondo gruppo si parlerà invece di autori che hanno cercato
di mantenere vivo il patrimonio orale narrativo - fiabe e canti - raccolto e
trascritto nel corso degli anni».
Il patrimonio letterario riscritto, composto da Paramica (leggende, fiabe,
racconti) e da Gilja (canti), abbraccia un campo assai vasto e non sempre ben
riportato nelle diverse lingue nelle quali è stato tradotto.
Si tratta per lo più di difficoltà organiche: le modalità di esposizione orale
sono necessariamente differenti da quelle scritte, e quella degli Zingari in
particolare spesso risulta ostica e incomprensibile se trasposta fedelmente su
una pagina stampata. Così le fiabe e i racconti trascritti, e in qualche modo
un po' ammaestrati, sono un qualcosa di molto diverso dalla loro versione
originale, anche se ugualmente interessanti e significativi.
Diane Tong ha trascritto e pubblicato un buon numero di fiabe raccolte
praticamente in tutto il mondo: trattano degli argomenti più disparati, dalle
origini del mondo alla felicità coniugale, dallo scontro eterno con i gagé al
timore dei morti.
La maggior parte di esse sono creazioni fabulatrici tendenti a trasmettere una
morale e ben manifestano la Weltanschauung zingara: l'amore per la libertà
dall'affanno esistenziale del lavoro salariato, l'adattamento alle difficoltà
della vita, l'accomodamento parziale e strumentale a particolari espressioni di
altre civiltà, il senso di appartenenza al gruppo, il rapporto quasi ani
mistico con la natura.
Certo, come sempre, è difficile generalizzare, né si può pretendere di
riportare tutte queste espressioni narrative all'interno di un unico quadro
unitario: le fiabe e i canti, proprio come i loro creatori zingari, sono sparsi
per tutti i continenti ed in qualche modo figli dell'incontro con diverse
civiltà.
In certi casi, forse in molti casi, le fiabe zingare traggono origine, o hanno
dato origine, ad altre fiabe patrimonio di altri popoli e altre culture.
Protagonisti, simboli e schemi si rivelano simili e a volte speculari: basti
pensare alla fiaba zigana greca raccolta dalla Tong a Salonicco (Lo Zingaro e
il Gigante) e all'antica fiaba raccolta da Afanasjev (Il serpente e lo
Zingaro), nelle quali gli schemi e lo svilupparsi della storia sono del tutto
simili.
In questo caso ciò che più fa pensare è che il serpente - che nella psicologia
zingara avrebbe valenze simboliche particolamente significanti - è presente
nella fiaba russa ma viene sostituito in quella zingara dal gigante.
Oltre a questo tipo di racconti ne esistono altri più intimamente legati alla
vita quotidiana, nel senso che sono narrati e vissuti come vere e proprie
lezioni di vita e che fungono da collante tra esperienza ed esperienza e
soprattutto da veicolo di precetti comportamentali anche di natura pratica.
lane Dick Zatta, analizzando i racconti dei Rom sloveni, ne ha messo in
evidenza la funzione prettamente didattica: «Essa serve a trasmettere le
esperienze e gli atteggiamenti del gruppo e ad influire sul comportamento
dell'individuo, piuttosto che semplicemente divertire».
La principale caratteristica di questi racconti sarebbe quella di dire «la
verità».
«I Rom garantiscono la verità dei loro racconti in due modi. Il primo è
l'abitudine di accompagnarli con un giuramento ritualistico che afferma la
verità di quello che sta per essere raccontato, di solito Ti Muli Mavra Mri
(che la mia Mavra sia morta!), Mavra essendo il nome del figlio più piccolo del
narratore, o Sa Mre Mule (tutti i miei morti) o Te Khalavv Ti Meru (possa io
morire se dico bugie».
Il fatto poi che il narratore racconti anche cose del tutto inverosimili non ha
nessuna importanza: il «willing suspension of disbelief», la sospensione totale
delle facoltà critiche, diventa addirittura un atteggiamento di vita, lo stesso
che si manifesta, secondo Zatta, anche nei confronti delle storie «narrate»
dalla televisione (che immaginiamo in questo modo mille volte più pericolosa e
invadente).
I racconti dei Rom sloveni manifestano soprattutto l'emozione della paura
rispetto ai mille pericoli della vita zingara, tra i quali quello più pressante
sarebbe la minaccia alla sopravvivenza della propria cultura.
I racconti sui serpenti, simbolo dei gagé (ci sono più serpenti nelle case che
non fuori), rappresenterebbero la riflessione «... a livello del pensiero
simbolico sulle implicazioni dell'opposizione fra Rom e gagé».
Alcune caratteristiche stilistiche, le stesse che mettono in difficoltà il
traduttore zelante, sono strettamente connesse alla funzione didattica. Ciò che
per iscritto solitamente stona, la ripetizione, l'iperbole reiterata,
l'improvviso mutamento del punto di vista, l'inserimento di una serie di
particolari apparentemente fuori tema, sono tutti aspetti strutturali del
racconto che servono a favorire l'identificazione dell' ascoltatore col fatto
narrato, il suo essere fagocitato dalla storia narrata e portato sin dentro lo
svolgersi degli avvenimenti.
Il narratore di una Paramica, solitamente il Phurano Dat, l'anziano del Campo,
infarcisce l'avvenimento principale (quello che racchiude la lezione della
storia narrata) di luoghi, persone, avvenimenti del tutto secondari o
addirittura estranei: l'importante è che tramite essi chi ascolta possa
associare agli eventi la sensazione di verità.
Nel raccontare una storia, improvvisamente, il narratore cambia tempo verbale e
punto di vista, accentuando l'attenzione e trascinando l'ascoltatore dentro il
racconto: «tutti volavano giù dalla strada e ti correvano dietro, Bum! Bum!»,
oppure «Mia madre ha visto, che io non ho visto nessuno. Mi voleva bene, no? Dal
gran bene che mi voleva, è tornata da te, e ti ha detto addio».
Il patto narrativo, così come lo consideriamo di norma nella nostra
letteratura, risulta dal tutto infranto, o meglio ancora del tutto
disconosciuto, nel senso che il «point of view», l'angolo di ripresa della
storia, non è proprio del cosiddetto «narratore omodiegetico» (quando il
narratore è presente nella scena narrata), né eterodiegetico (quando il
narratore è assente dalla scena narrata): esso salta a pie' pari dall'uno
all'altro, poi corre tra chi dice e chi ascolta, trascina il primo e il secondo
all'interno dello stesso universo, crea un patto narrativo inedito e specifico.
Allo stesso modo, nella narrativa zingara, altri canoni vengono infranti: un
diverso uso dello spazio e del tempo, ammaestrati e finalizzati allo scopo
didattico, stanno a smentire l'immutabilità degli schemi classici della nostra
letteratura.
Secondo Zatta «... sia i riferimenti pronominali che i tempi verbali sono usati
per funzioni che non sono soltanto quelle di indicare il tempo o il soggetto
grammaticale».
Cercare di interpretare la narrativa degli Zingari attribuendo ad essa stessa
struttura e stesse valenze semantiche della nostra, sarebbe davvero un errore
madornale.
Ancora una volta insomma si arriva alla conclusione che ciò che si conosce, o
si pensa di conoscere sugli Zingari, è in realtà tutto da verificare, tutto da
comprendere.
Le fiabe che seguono, anche se indicative ed interessanti, non hanno comunque
la pretesa di essere esemplificative della oralità zingara. Si tratta, a parte
il racconto «I due fratelli», di fiabe riscritte e ammaestrate nella nostra
lingua e con la nostra tecnica letteraria.
Il canto, così come i proverbi scelti per questa pubblicazione, e tratti da
altri studi, sono indicativi più di antica saggezza e sofferenza che di altro
ancora; le poesie, in particolar modo quelle di Rajko Djiuric, pur nella
traduzione in italiano, mi sono sembrate di assoluto valore e di grande
spessore formale: merito anche di Angela Tropea che le ha tradotte.
Capitolo nono: fiabe, canti, poesie, proverbi
Parliamo della felicità
Con parole straniere
E il giorno smarrito il nome
Per un discorso litiga
Rajko Djuric
Storia di Son e di Danitza
(da Rom Sim di Semzejana-Zlato)
Una volta, quando c'era poco mondo, poco popolo, Dio
e i suoi compagni facevano consiglio; quei pochi che c'erano, e non c'erano
femmine. Discutono di Son che vuoI prendere in moglie sua sorella Danitza, la
stella, quella che gli è sempre vicina.
Là al consiglio c'era anche il diavolo con il suo cavallo. Quando il diavolo ha
sentito che si sposano fratello e sorella, si è arrabbiato molto. Va fuori,
prende il cavallo e via. Era arrabbiato forte. Gli altri guardano se c'è anche
lui, non c'è più, è scappato via.
Allora cosa fa Dio?
Si rivolge all' ape: tu devi andare dietro di lui, finché non senti che cosa
dice.
- Va bene.
Allora l'ape gli va dietro e non si fa vedere. Il cavallo del diavolo era tutto
sudato, perché dalla rabbia lo guidava forte. Davanti a lui c'era un canale
grande, come il Danubio, il diavolo porta il suo cavallo a bere e gli dice:
- Bevi acqua finché puoi, perché adesso si asciugheranno le acque nei fossi e
dappertutto, perché fanno un peccato grande, se Son prende Danitza per moglie.
Come lui parlava, l'ape è volata vicino al suo orecchio per sentire meglio.
Allora il diavolo prende la frusta e paff! contro l'ape; l'ha tagliata quasi a
metà in vita. È rimasto solo poco attaccato, quasi come un fiammifero.
L'ape allora fila indietro. La vede Dio e le domanda:
- Beh, che cosa ha detto? Lei
ha vergogna, poveretta, tagliata così quasi in due
pezzi.
- Dimmi che cosa ha detto!
- Ho vergogna. Mi ha detto cose che ho vergogna a dire.
- Dille pure; non vergognarti. Dimmi!
- Che cosa ha detto? Lo vuoi proprio sapere? Ha detto che chi mi ha mandato
dietro a lui, mangi la mia merda.
- Ma tu hai paura per questo? Mai paura, perché io farò in modo che gli uomini,
né da vivi né da morti saranno capaci di stare senza la tua merda.
Ed è vero, perché dalla merda dell'ape viene il miele e la cera.
Gli uomini da vivi mangiano il miele e da morti adoperano la candela accesa. E
questa storia è proprio verità, perché il taglio nell' ape si vede, il miele si
mangia e le candele si accendono quando uno muore, perché così è bene.
Dio ha sentito che sposare San e Danitza è un peccato, perché il diavolo sa
quasi più di Dio sul peccato.
Erano innamorati forte. Allora Dio li mette distanti uno dall' altro, non
molto, e dice:
- Quando vi incontrerete, quando vi abbraccerete e vi bacerete, allora vi
sposerete. Prima no.
E tu vedi che sono sempre lontani. San va sempre dietro a Danitza e non la
prende. Qualche volta vengono più vicini, soprattutto in estate; allora c'è
meno acqua.
Ma non manca mai, perché non riescono a congiungersi.
La nascita
(da Rom Sim di Semzejana-Zlato)
Questa storia è bella ed è vera, per quelli che
vogliono capire. Ora ti racconto. Ero un ragazzo più o meno di dodici anni. Era
sera tardi, perché mio nonno Guka ci raccontava delle storie che erano proprio
una melodia a sentirle, proprio simpatiche, proprio belle.
Stavamo vicino al fuoco e lui ci raccontava. Viene l'ora di andare a dormire.
lo e mio fratello Tosa, che aveva diciotto anni, dormivamo a destra, entrando
nella tenda, lungo il «pogi», uno con la testa di qua e l'altro con la testa di
là. Mio padre Abramo e mia madre Terka dormivano sotto il «vuluv» e con loro il
mio fratellino Mile, che noi chiamavamo Moso.
Mio nonno Guka dormiva «maskaré», in mezzo, vicino al carro. Ho preso sonno e
ho dormito. Un certo momento sento qualche cosa, mi sveglio e mi alzo. Cosa
vedo?
Nella tenda dappertutto tutti con la barba. Uno era all'ingresso vicino al
«vuluv», vicino a là dove mio padre, ascolta, dove mio padre dormiva. Un altro
nel carro sedeva sul «lovitro», con le gambe giù e mi faceva cenno con la
testa.
Proprio così, mi faceva cenno con la testa. Un altro ancora sotto il «vuluv»,
dietro a mio padre, mi guardava, come pure quello dalla porta, che diventava sempre
più grande, capisci, grande, grande signore, e parlava come uno spirito, lo
spirito che sta negli uomini. Intorno a Moso era buio, non vedevo niente.
Subito dopo c'è stato come un lampo ed è diventato tutto chiaro, chiaro come
cento di queste lampade.
E chi faceva tutta quella luce? La testa di quel bambino, che era riccio;
era bello e pieno di capelli. Intorno a lui era tutta un'aureola.
Guardo mio fratello più vecchio, che non si muoveva; allora mi infilo sotto la
coperta e passo dalla sua parte. Hai capito? Vado vicino a lui e lo sveglio.
- Che c'è?
- Non vedi niente?
- No, non vedo niente. E tu che hai visto? Forse la fortuna?
- Non vedi, fratello mio, quello che siede sul letto, vicino al piccolino,
vicino a nostra madre? Non vedi l'aureola?
Ascolta, poi ho visto che allungava la mano su di lui e poi sono scomparsi. Ho
scosso e ho chiamato più volte il bambino: Mose, Mose! Ma quello non si muoveva
e mi guardava fisso. Poi mi sono messo a letto, mi sono addormentato e non ho
saputo più niente.
Forse erano quelli del destino, i Vrsitori, che vengono a dare a ognuno il suo
destino. Solo qualcuno può sentire. lo ero bambino e non ho raccontato neanche
a mio padre, neanche a mia madre. Solo mio fratello sapeva.
Se sapevo, dicevo una messa, andavo in chiesa a dare candele a questi santi. Ma
un bambino di dodici anni non capisce niente.
Moso l'hanno ammazzato a Jazenovac con la moglie e il figlio.
San Pietro e Dio
(da Rom Sim Di Semzejana-Zlato)
San Pietro è il compagno di Dio; sono due colleghi e
vanno sempre insieme. Ti racconterò anche questa storia, ma non è tanto bella;
i «rasai» (i preti NdA) non sono tanto contenti, quando si racconta, perché
allora tutti dicono che neanche Del fa bene. Capisci?
C'era un povero e un ricco, molto ricco. Sai come fanno in campagna per
lavorare? Vanno via la mattina e ritornano la sera, perché hanno i campi
lontani.
Il povero aveva solo un cavallo, poveretto, e tanti figli sul carro.
Quell'altro aveva tre cavalli attaccati e niente figli; solo lui e la moglie.
Bene! Finito il lavoro, tornano. Prima viene quello con tre cavalli. Sulla riva
del fiume ci sono due, tutti stracciati, con la barba lunga e dicono:
- Ci fai un piacere? Fai passare anche noi il canale con il tuo carro?
- No, no. Non faccio passare nessuno. -
Che cosa facciamo? dice San Pietro a
Dio.
- Quando passa il fiume, che il suo terzo cavallo non vada più avanti e
batta
con la zampa così, come fanno i cavalli, e venga fuori un recipiente di
sterline d'oro!
Così succede: il cavallo si ferma, batte nella caldaia dove c'erano le sterline
dentro: pum, pum, pum. Ce ne sono molte, perché un tempo nascondevano così i
soldi. Il ricco la vede, la tira fuori e via.
Ecco che viene il povero.
- Mi fate passare il canale di là? Mi fate questo piacere?
- Sì, con la volontà di Dio, dove passano cinque bambini e io sei, passeremo
anche in otto. Con la volontà di Dio passeremo. Montate.
- Cosa facciamo con questo qui? dice San Pietro.
- Con questo qui, quando arriva a casa, che trovi il bambino morto, quello che
è rimasto a casa, e il vitello che ha a casa, che lo ammazzi per fare la
«pomana».
Ecco così è finita.
È proprio vero: con i buoni Dio è cattivo, con i cattivi è buono.
Non so se anche lui ha paura dei cattivi. Chi può dire che Dio ha fatto bene?
Non ha fatto bene: al povero, invece di aiutarlo, fa morire il suo bambino e
ammazzare il vitello per la «pomana». Al ricco dà ancora più soldi.
Anche in mezzo ai Rom i cattivi stanno bene e quelli che pregano sempre sono i
poveri. Ma io non sono mai stato cattivo.
I due fratelli
(Da Lacio Drom - trasposizione letterale di Angela
Tropea)
C'erano due fratelli identici l'uno all' altro come
due mele. Giorno per giorno crebbero fino ad età da sposarsi. Allora dicono
alla madre:
- Mamma forse avevamo qualcuno vivo, avevamo noi una famiglia? Allora la madre
dice:
- Eh, figlio, voi avete... Vostro padre se n'è andato da molto tempo... Se n'è
andato nella notte e ancora non è tornato a casa.
- Mamma dacci qualcosa che andiamo a cercarlo, nostro padre, a vedere dov'è
nostro padre. .
- Eh, ragazzi, andate ma è difficile che voi possiate trovarlo, mi dispiace per
voi, che voi ve ne andiate e mi lasciate qui sola: come farò senza di voi?
- Niente, tu non devi preoccuparti per noi, dacci piuttosto la tua benedizione,
dacci la tua preghiera, daccele e noi andremo a vedere dov' è nostro padre,
nostro padre.
- Bene, ragazzi, se volete così, ecco a voi tutto ciò che vi serve e andate.
La loro madre li benedì:
- Andate, figli, che la vostra strada sia fortunata, che siate sempre
fortunati, che siate sani e vivi.
Prendono, i due fratelli, montano a cavallo, mettono sopra tutto ciò che gli
serve, e prendono per la strada. Prendono le loro sciabole, le loro spade,
prendono i loro coltelli, tutto ciò che gli serve per la strada, e andarono.
Quando arrivano ad un incrocio, arrivano ad un incrocio, dove vedono
un'indicazione: - Chi va a destra va al Regno, chi va a sinistra va alla Morte
-.
Allora dice il fratello più anziano:
- Fratello, qui dobbiamo dividerci, poiché tu devi andare per una strada ed io
per un' altra strada. Tu vai per quella strada dov' è scritto «Verso il Regno»
ed io andrò per quella strada dov' è scritto «Verso la Morte», perché tu sei il
più giovane. Pianteremo i nostri coltelli qui, in questo incrocio, li
pianteremo in terra e come un coltello si arrugginirà, colui che va in quella
direzione sarà stato ucciso. E chi resta vivo che venga in questo posto per
guardare i coltelli.
Bene, prendono i due fratelli, piantano i due coltelli per terra, il giovane
andò dov'è scritto «Verso il Regno», il più anziano andò dov'è scritto «Verso
la Morte».
E questo fratello, il più giovane, come se ne andò nel regno subito là lo
accolsero tutti davanti a lui (...).
Allora davanti a lui portarono una corona d'oro e subito lo posero come zar e
lui si meravigliò di tutto questo. E poi gli diedero una fanciulla, così
diventò zarina perché suo padre zar era morto e lei era rimasta al suo posto e
lo aveva preso. Allora i cannoni tuonarono e capo diventa zar. Perché a quel
tempo c'era chi veniva in quella terra, e venivano uomini e vecchi uomini e
donne, chiunque, arrivarono stranieri in quella terra, in quel tempo, e così
quel giorno diventò zar, lo accolsero, fu fatto capo e così visse in quel
tempo.
Vivendo là aveva un palazzo, e di tutto, poiché ha zar.
Allora dice a sua moglie che era la zarina, dice:
- Me ne vado a caccia.
Come se ne va a caccia, ecco che arriva davanti a lui una lepre, una lepre
davanti a lui, vanno, vanno, vanno, vanno, la insegue, lui a cavallo, con il
suo cavallo, quando la lascia andare perché davanti a lui c'è un' anatra.
Nuotava nell' acqua.
Egli si propose di prendere quell' anatra, la uccide, prende quell' anatra,
così egli, mio Dio, la mise da parte; se ne va lontano, come in un deserto, non
c'era niente, quando vede una capanna. Arriva, Dio mio, aveva fame, dice:
- Me ne vado, vado a vedere in quella capanna che cosa c'è.
Se ne va e vede che là c'è una padella, che il fuoco era acceso e che non c'era
nessuno. Prende, in fretta e furia, spenna l'anatra (...) la mette a cuocere.
Quando fu cotta si mise a mangiare, e appare alla porta una ragazza (...) dice:
- Forse non posso mangiare con te?
- Perché no? Mangia, chi te lo proibisce, tu mangia liberamente, siediti e
mangia con me.
Come disse ciò, la ragazza cominciò a gonfiarsi e trafisse il ragazzo.
Dopo di che lo invitò e lo tramutò in pietra.
Giorno dopo giorno... sua moglie lo aspetta, la zarina, e lui non viene. Lei
piange tristemente e il popolo e tutti e quel popolo che (...).
Niente, suo fratello, che era andato dov'era scritto «Verso la Morte», viaggiò
notte e giorno, tre mesi. Tre mesi viaggiò finché giunse in quel paese, e quel
paese era a lutto e tutti gli stendardi reali e il popolo era triste, non c'era
gente felice in nessun luogo.
Così quando arrivò in quel paese, dice:
- (...) Perché la gente è così? Tutti tristi e le bandiere nere, e cantano
canzoni tristi.
E chiese che cosa c'era in quella terra, che la gente non era felice:
- Eh - dice - qui c'è un drago, e ogni giorno deve mangiare una persona, così
ci lascia 1'acqua. E ora è il turno della famiglia dello zar ed è stata legata
una figlia dello zar, è stata legata in terra fino al collo (...). Finché verrà
il drago a mangiarla. E così, così.
Allora lui subito salta a cavallo, va, va, va, arriva al mare e dopo che è
arrivato al mare vede la ragazza legata, sotterrata. Allora, prende, subito
libera la ragazza, le scioglie le mani, la tira fuori da quel buco e le dice di
sedersi. E come il drago viene per mangiare la ragazza, non la trova. Allora,
lui subito prende la sua spada e il drago respinge, respinge, colpisce,
colpisce; allora la spada si arroventa, non si può tenerla in mano, allora le
dice (alla ragazza):
- Principessa, metti il tuo scialle nell' acqua e tiramelo per avvolgere
l'elsa.
Quando ebbe tagliato la testa del drago, l'acqua diventò scura ed egli era così
stanco che cadde addormentato profondamente.
Il fuoco si spense. A mezzanotte lo zar dice: Ehi, tu, zingaro, prendi il tuo
boccale. E il rom era 1'acquaiolo del re e va.
- E vai a raccogliere le ossa della mia ragazza, raccogli bene, e riportale a
casa.
Allora lo zingaro prende il boccale, tutto ciò che gli serve, il calesse, i
cavalli, si siede e va. E pensava che lei era ormai uccisa, che l'aveva mangiata
il drago e che le sue ossa le aveva gettate via. Quando arrivò e vide la
ragazza viva, se ne andò, prese la cote per affilare il suo coltello e dice
alla ragazza:
- Che cosa fai? Sai che cosa? (voglio fare che) ti ucciderò se tu non dirai che
sono stato io a salvarti.
Allora la ragazza ebbe paura:
- Bene - dice - dirò così.
La mise a sedersi sul carro e se ne vengono a casa e la ragazza parla al padre.
Quando il padre vide che era viva (ne fu contento), gli fu caro. Allora dice lo
zar a sua figlia:
- Chi ti ha salvato? Ti ha salvato lo zingaro?
- Certo, certo.
Allora i cannoni tuonarono, forse non più (...).
Il genero dello zar... quello che 1'aveva salvata, l'acquaiolo, lo zingaro, è
il genero dello zar, tzarezet, tzarezet, dicono. Niente, così. Mio Dio (...) e
allora il rom prese le camicie dello zar, prese tutto ciò che gli serviva
perché era genero dello zar. Eh, mio Dio, la ragazza (n.) era triste, non le
era caro (gradito), ed era triste.
Dice la sua serva:
- Perché sei triste? Perché piangi? Perché non sei qui? (.n) Tu sei salva, sei
la figlia dello zar, devi essere felice. Perché sei spaventata? Tuo marito è un
grande eroe, quello che ha ucciso il drago, e cosÌ.
- Niente - dice - sai che cosa? Parlerai tu a mio padre di ciò che io non posso
parlargli: qualunque anima (viva) passi sotto la nostra finestra (...).
- Bene, lo dirò. Vado.
Lei parla allo zar e lo zar ordina che gli portino qualunque anima debba
passare sotto la finestra dello zar, quando verranno.
Più tardi, passò quel giovane che aveva ucciso il drago.
- Ecco - dice - io l'ho salvata.
- Ecco lo scialle, che ho preso dalla mia testa, che gli ho gettato mentre
combatteva, che lui ha avvolto sull' elsa della spada. Perché quell' altro
zingaro ha mentito.
Allora lo prendono e lo avvolgono nel catrame, lo imbrattano nel concime e lo
bruciano. Bruciarono lo zingaro. Allora, lui, l'altro, diventa il genero dello
zar, tsarezet, tsarezet.
Quello, il giovane, prende là, ecco tutto pronto ciò che gli serve dallo zar e
là visse felice e contento. E aveva di tutto.
Poi un giorno indugiò su suo fratello:
- lo andrò a vedere in quel posto se mio fratello è vivo.
Quando venne in quel posto, dove aveva messo il coltello, vide che era
arrugginito.
- Eh - dice - mio fratello è stato ucciso. Devo andare a cercarlo.
Va, va, va, giunge in quel paese dov'era suo fratello, dove era diventato zar.
Quando giunse in quel paese, chi lo vedeva diceva:
- Ecco, è venuto lo zar!
Lui assomigliava a suo fratello, era proprio uguale, come due mezze mele.
Allora, come giunse, lasciò i suoi cavalli che lo presero i servi, lo legarono
e così (e vide) trovò sua moglie. Sua moglie, e pensò che il rom fosse suo
marito.
Voleva baciarlo, voleva spogliarlo, e lui non gliela permette.
- Ah - dice -. Lasciami che sono stanco, lasciami dormire.
Prende e cadde nel letto per riposarsi, a dormire. Viene sua moglie, vuole
carezzarlo, vuole baciarlo. Lui prende la spada, e vuole colpirla. (Perché non
mi lasci? lo che sono tua moglie... dice). -
Lasciami dormire, sono
stanco.
Bene.
- Eh - dice - me ne vado, decido così, me ne vado a caccia.
Prende, se ne va a caccia quando davanti a lui arriva una lepre.
Quando vuole ucciderla ecco un'anatra davanti a lui. Prende e uccide l'anatra.
Quando l'ebbe uccisa, scorge la capanna, se ne va là, dove vede il fuoco, vede
tutto. Prende, - Eh - dice - me ne vado a farmi da mangiare: ho fame.
Quando ebbe preparato (...) voleva mangiare (...). C'era una ragazza bella. E
allora cosa dice la ragazza:
- Posso mangiare con te? Posso....
- Sì, perché no? Mangia, siedi e mangia.
Quando lui prende e si meraviglia di (...) ma il cavallo la prende per il
collo:
- Ah, tu sei quella che... che... (...) la gente che poi trasforma in pietra.
Allora lui cosa dice (...) Allora lei cosa dice:
- Non mi uccidere - dice - ecco una bacchetta. Per la strada prendi questa
bacchetta e (...) in una bottiglia. Dentro vi è dell' olio (...) e tuo fratello
si sveglierà. Egli prende quel, trova quella bacchetta, la bagna nell' olio,
(...) la prima statua, la colpisce (tocca), e suo fratello balza su vivo,
rinato. Quando è resuscitato, allora lui colpisce, colpisce, colpisce...
Dio mio, balza su gente, tanta, tanta gente... Allora, non appena suo fratello
si alzò:
- Oh, ho dormito tanto.
- Eh, fratello, hai dormito per il tocco magico!
Allora prendono, vanno di là, dove (...) per il suo regno, dove sua moglie vede
che i due fratelli che vengono erano uguali.
- Eh, per questo, per questo egli non voleva baciarmi - baciarla - quello era
suo fratello.
Allora... lo venne a sapere. Prende, lui (...) festeggiare, si è rallegrato:
- Eh, fratello, adesso tu governerai nel tuo regno, ed io governerò nel mio
regno.
Devo andare dal mio popolo, ma nostra madre si deve unire a noi, noi insieme
andiamo da nostra madre e lei deve vivere insieme a noi.
La casa incantata
(fiaba spagnola)
Nella vecchia Castiglia un temporale estivo sorprese
tre famiglie zingare mentre viaggiavano insieme per guadagnarsi da vivere.
Videro un piccolo gruppo di case sparse, una delle quali sembrava disabitata,
così decisero di prendervi rifugio. Tutti contenti per aver trovato un riparo,
prepararono le stuoie e andarono a dormire.
Nel cuore della notte, però, si svegliarono inaspettatamente con uno strano
senso di fame.
- Metti sul fuoco un po' di zuppa, per favore, che mi sembra di svenire - disse
lo zingaro alla moglie.
- Che notte lunga - si lamentò uno dei ragazzi con la voce che gli tremava.
La zingara allora si mise a cucinare una povera zuppa che aveva soltanto un po'
di pane, un poco d'olio, dell'aglio, pomodoro, prezzemolo, una foglia d'alloro
e il sale. Ma guardando sopra il fuoco vide che un uomo, molto vecchio e con la
barba di un candore abbagliante stava scendendo le scale.
- Povero vecchio payo (non-zingaro NdA), è proprio come noi - disse la zingara
con compassione pensando che fosse un ladro rifugiatosi come loro nella casa
abbandonata. Sospettosi perché non l'avevano notato prima, gli zingari chiesero
al vecchio dov'era stato.
- Vivo di sopra - rispose lo sconosciuto e chiese loro un po' di sale.
Come ebbe avuto la saliera, il vecchio risalì nella soffitta da dove era
venuto. Quando scomparve, prima ancora che gli zingari potessero fare alcun
commento, un lampo illuminò la stanza e ci fu un forte tuono. Atterriti,
corsero alla porta e aprendola si accorsero che fuori il temporale era cessato.
Insomma, dentro casa tuonava mentre fuori tutto era calmo e brillava il sole
dell' estate.
Venne da loro una vicina payo e, quando sentì quel che era accaduto, esclamò:
- L'avete scampata bella!
Poi spiegò loro che, quando li aveva visti avvicinarsi alla casa, aveva pensato
di avvertirli di non entrare, ma che poi aveva preferito non farlo temendo che
gli zingari potessero pensare che voleva semplicemente impedir loro di
ripararsi dalla pioggia. La casa, infatti, era frequentata dai fantasmi, e vi
dimorava lo spirito di un payo morto: il payo che avevano visto.
Senza dubbio il sale che aveva chiesto gli era servito per rompere
l'incantesimo di cui era prigioniero e i tuoni dimostravano che aveva
finalmente trovato la pace eterna.
Prima degli zingari, si sa che altra gente era entrata nella casa, ma nessuno
li aveva più visti. Probabilmente perché non avevano potuto o voluto soddisfare
la richiesta dello spettro che gli zingari avevano invece esaudito con tanta
ospitalità.
Il contadino sciocco
(di Nusret Selimovic)
C'era una volta un anziano contadino sciocco ma
fortunato. Viveva con la moglie e dieci asini che gli servivano per andare a
raccogliere la legna nel bosco. Una mattina si alzò ben presto, salì in groppa
al suo asino preferito, chiamò a raccolta tutti gli altri somari e s'incamminò
verso il bosco.
Giunto a metà strada si girò e, colto da impulso, prese a contare gli asini:
uno due tre quattro cinque sei sette otto nove! Dio mio, pensò, ne ho perso
uno!
Riprese a contare: uno due tre... nove!
Il poveretto, ogni volta, si dimenticava di contare quello sul quale era in
groppa, così, sconsolato, riprese la via di casa e con molta vergogna si
ripresentò alla moglie: senza legna e, pensava lui, senza un asino.
Scese dalla groppa dell'animale e sua moglie contò di nuovo: uno due tre
quattro cinque sei sette otto nove dieci! Detto fatto la moglie rimproverò il
marito e lui, non sapendo con chi prendersela, se la prese proprio con gli
asini:
l'indomani mattina ne prese cinque, li portò al mercato (poiché era sabato e
ogni sabato si faceva mercato) e provò a sbarazzarsene. Ma prova che ti riprova
non riusciva affatto a venderli: alla fine si risolse a barattarli con una
bella mucca grassa e con quella tornò a casa.
La mucca faceva tanto latte e la moglie per un po' ne fu contenta.
Più avanti però si accorsero che non si poteva vivere di solo latte e purtroppo
la legna che i cinque asini rimasti potevano trasportare, anche se ben venduta,
non bastava a sfamarli come Dio comanda e stomaco pretende.
- Vai al mercato e vendi la mucca - disse la moglie.
Il contadino prese e partì verso il mercato.
Ma prova che ti riprova questa volta non riuscì né a vendere né a barattare la
propria merce.
Sul finire della sera, stanco e sconsolato, ed anche un po' ubriaco, riprese la
via di casa.
Lungo la strada cinque cani presero a seguirli, lui e la vacca, ed egli prese a
parlare con loro:
- Volete comprare un po' di carne?
E i cani abbaiarono.
- La volete subito? E i cani abbaiarono. - E subito ve la do!
Afferrò un gran coltello, uccise la vacca, la tagliò a pezzi e la distribuì fra
i cinque cani. Conservò solo la pelle dell' animale, che si mise sulle spalle
per ripararsi dal freddo della notte.
- Badate bene - disse prima di andar via - che domani tornerò a prendere il
denaro che mi spetta.
Cammin cammina il contadino passò sotto un albero dalle lunghe braccia
frondose: il ramo più lungo trattenne la pelle della vacca indossata dall'uomo.
- Bene! - disse - domani passerò a prendere i soldi.
Rientrato a casa il contadino ne sentì tante, e tante bastonate prese dalla
vecchia moglie che non riuscì a dormire per tutta la notte.
Cominciò così a bisticciare coi suoi stessi pensieri: pensò agli asini, pensò
alla vacca, pensò alla vecchia moglie. Giurò a sé stesso che avrebbe recuperato
il denaro che gli dovevano, che avrebbe ricomprato i cinque asini venduti,
un'altra vacca più bella e grassa e tante provviste per superare l'inverno.
L'indomani, di buon'ora, si mise per strada: in un modo o nell'altro avrebbe
avuto quello che gli spettava. Cercò i cani per lungo e per largo, frugò nel
bosco, guardò sopra le colline e sotto le colline, si avventurò sulle rive del
fiume e più lontano ancora.
Ma dei cani nessuna traccia.
Così giunse sino all'albero.
- Dammi quanto mi devi - disse l'uomo.
E l'albero niente.
- Dammi quanto - mi devi - minacciò l'uomo.
E l'albero niente.
- Dammi quanto mi devi concluse l'uomo - o ti distruggerò pezzo per pezzo.
Così disse e così fece.
Prese un grosso piccone e cominciò con lo scavarne le grosse radici.
Prima l'una, poi l'altra, poi altre ancora, finché proprio sotto quella più
grossa trovò un grosso baule. Lo aprì, vide che conteneva una montagna di
monete d'oro e per niente sorpreso disse:
- Te l'avevo detto! Ti sarebbe convenuto darmi subito quanto mi dovevi!
E visse, con la moglie, ricco, sciocco e contento.
Cenere diventarono i grandi fuochi
Cenere diventarono i grandi fuochi,
le nostre cenciose tende furono squarciate dalle
bufere.
La spiaggia deserta dei senza patria è il nostro
approdo, non abbiamo amici.
Nella lunga notte del nostro peregrinare,
spegnemmo le sfavillanti faci delle nostre anime,
piangiamo e temiamo l'oscurità,
perché i bavosi mastini del tempo continuano a
ringhiare sotto le nostre finestre,
ci strappano la loro luce.
Ahimè, perché ho dovuto giocare con luride bambole
di stracci,
perché, o madre mia, mi insegnasti le ninne nanne?
perché gioisti al notare dalla mia sporca sottoveste
il turgore dei miei seni?
Tu ancora non sapevi che anche il sole si è
oscurato?
Nella nostra querula lingua non sappiamo che
lamentarci.
Gemono i nostri violini sul muro,
grattate stridule hanno spaccato le nostre corde
e noi singhiozziamo e temiamo la notte
perché amici non abbiamo, ma soltanto miseria.
di Anka Lakatos
Tra due mura dorate
Vesti una veste di morte
Il vento spira allo spasimo
La lontananza faceva sberleffi
La luce spiegava ad arco
La luna ruzzola
Gli spiriti si cullano
Mi spingi ad un tenebroso silenzio
Solo due pareti dorate
Richiami alla mente
Della mia trepidazione
Ti curi di un bacio
Tessi a fatica un filo
Infili il grigio tra l'azzurro
Tra due pareti Spieghi le ali
Stupito spalanco la bocca
In una grotta deserta si sentono i vestiti
Spiani la via alla favella
Una rivolta contro sé stessa
Bruci la causa
Signore sei della fortuna e dell'incertezza
Tra due mura dorate
La mia lingua si annida.
di Rajko Djuric
Prima via
Spalanca le porte del cielo
E osserva le parole dinanzi alla morte
La brama totale non desiderare
Non ascoltare turbato
La voce del pensiero
Non tremare di ansia
Sino ai piedi
I fiori come filo
Ti indicano la strada
La prima senza numero
Sulla collina dei Rom
Innalza una preghiera
E una bestemmia
Fino alla casa del fuoco
Porta e deponi l'anello ed entra
Offri la lingua al silenzio
Quando il sorriso verrà
Chiudi gli occhi
Cambia discorso
Trasforma l'oro in pietra
Finché crollino gli Imperi.
di Rajko Djuric
Presso il Bugus* la casa è grande
Grande città è questo Oswiecim.
Là il mio amato è prigioniero,
Sta, sta là lamentandosi
E di me non si rammenta più.
M'ha abbandonato qui nello strazio,
Non m'ha detto arrivederci!
Dio, Dio mio, lo muoio qui, povera me.
Il mio piccolo uccellino
Mi porta da lontano una letterina,
La porta, la porta ai Tedeschi,
Qui, dove mi ha imprigionato Oswiecim.
Dio, Dio mio, Dove batterò la testa?
Non riesco a liberarmi da qui,
La mia testa già muore.
Qui sono diventata secca senza pane
E senza una goccia d'acqua pura.
Qui perdo tutta la mia giovinezza.
Ahimé, il mondo non lo vedrò più.
E non sarò al mondo,
I tedeschi mi uccideranno.
Dio, Dio mio, mi struggo,
Perché il mondo non lo vedrò più.
* Il Bugus è un fiume che scorre presso Oswiecim, in
tedesco Auschwitz.
Proverbi kalderasha
- Se non sai siediti tranquillo e fissa intensamente
nel fuoco;
- Veder l'uomo dal di dietro è veder l'uomo come ubriaco;
- Un uomo saggio ride quando può. Sa bene che ci sarà da piangere molte volte;
- Dormi quando puoi. La notte forse sarà breve;
- Dopodomani, domani è ieri;
- Cammina leggero sull'erba; i tuoi cavalli possono averne bisogno;
- Sta attento quando il diavolo sorride;
- Guardati da un villaggio dove i cani non abbaiano;
- Un cane affamato dà fastidio alla pace dell'uomo;
- Il fumo di un fuoco può accecare l'uomo che lo ha acceso;
- Se vuoi vedere i pesci, non turbare l'acqua;
- Per partecipare un segreto, sussurralo ad un sordo;
- Un cane, che corre da solo, pensa di essere il più veloce del mondo;
- Un uomo che si vanta è come una tenda con l'apertura rivolta verso il
temporale carico di vento;
- Un topo con una rosa all'orecchio è sempre un topo;
- Quando non vuoi vedere, a che serve una stella?;
- Un uomo ha bisogno di cinque cose: una donna, una tenda, le sue mani, un
occhio acuto e qualche cosa per cui combattere;
- Un cavallo, che sta fermo troppo a lungo in un posto, avrà prurito alle
zampe;
- Le donne sono come oro: dure e scintillanti, ma belle e preziose;
- Una foglia d'autunno non è più parte dell'albero;
- Non si pone un cartello con scritto: Non soffiare qui, poiché il vento non sa
leggere; -
Solo i gadze non sanno vedere il vento o sentire le
nuvole;
- Se Dio avesse voluto che i gadze non venissero tosati, non li avrebbe
fatti
pecore;
- Vedere un sorriso da un gadzo è più raro che vedere un uovo da una vacca;
- La gente spartirà ogni cosa con te tranne le tue difficoltà;
- La morte è solo un altro posto con Dio come padrone;
- Ogni nuovo uomo è un sasso nel fiume della vita.
Capitolo decimo: la musica
Lo zingaro Bachtalo, il Fortunato, rinchiuso nei
sotterranei del Re dei Boschi, pensava e ripensava a come fare per liberarsi e
poter così sposare la principessa: solo creando una cosa tale che nessuno
avesse mai visto, sarebbe stato liberato.
Improvvisamente, nel buio dei sotterranei, apparve la Lucente Matuja, l'amica
del Faggio, protettrice del Fortunato ancora prima della sua nascita.
Matuja chiese al giovane se ancora possedeva la scatolina magica che essa
stessa aveva dato in dono per lui a sua madre.
- Prendi una ciocca dei miei capelli - disse -, attaccali alla scatolina e a
questo bastoncino di faggio.
Detto fatto, Matuja prese la scatolina dalle mani di Bachtalo, vi rise dentro,
e poi vi pianse, lasciandovi cadere alcune lacrime, e poi scomparve.
Bachtalo prese a strofinare sui capelli argentei un rametto sottile e dalla
scatolina cominciarono a fluire suoni tristi di autunno inoltrato e suoni
allegri di festosa estate.
Il Re dei Boschi, uditi i suoni, smise per una volta di ascoltare il fruscio
del vento tra gli alberi, liberò il ragazzo zingaro, gli diede sua figlia in
moglie e si lasciò incantare per sempre dal magico suono della scatolina
incantata.
Era nato il violino.
fiaba tradizionale
La musica della Luna
Franz von Liszt, compositore e pianista ungherese,
nonché filosofo della musica, scrisse che «... fra tutti i linguaggi che è dato
all'uomo intendere e parlare, lo Zingaro non ha amato che la musica».
Il grande musicista, autore del saggio «Des Bohémiens et de leur musique en
Hongrie» (Degli Zingari e della loro musica in Ungheria), fu quello che più di
altri diede razionalità e spessore ad uno degli stereotipi più classici sugli
Zingari: quello del Bohémien musicista «di natura e grazie al suo rapporto con
la natura», secondo i canoni più genuini del romanticismo ottocentesco.
Liszt, che con i musicisti zigani aveva un assiduo rapporto di frequentazione,
colse nelle sue opere quella specificità della musica zingara ungherese che ad
altri sembrava incomprensibile e fuori dalle regole sino allora conosciute:
«Per la maggior parte dei casi i dilettanti europei, gli insegnanti di musica e
soprattutto i maestri dei conservatori cominciano a non capire nulla di codesto
sistema, per il quale ci si immerge, con un tratto brusco, nel fluido
immateriale che la musica sprigiona con un grado così intenso. Non tutti
possono capacitarsi di come un uomo ragionevole possa passare senza preambolo
alcuno da una tonalità di sentimento, rappresentata in arte da una tonalità
musicale, in quella che è la sua opposta, e che possa passare d'un tratto da
una forma ad un'altra, con cui la prima non ha nesso, così come il Rom si getta
da uno stato dell'animo ad uno contrario, senza alcun perché, senza aspettare
la lenta decrescenza del primo sentimento e la successiva formazione del nuovo».
Sembrava che i musicisti zingari magi ari davvero potessero essere definiti,
così come Thomas Dekker chiamò nel 1709 i Gypsies inglesi, «Moone Mens», Uomini
della Luna, mutevoli e folli, in preda agli umori e alle passioni come una
terra assolata spazzata da improvvisa tempesta.
Su questa «musica della luna», scriveva ancora Liszt: «... monotona come le
loro giornate, ardente come i loro amori o nervosa come i loro gesti, ma più
spesso lamentevole e mesta come i loro spiriti che da tanti secoli soffrono
l'indifferenza e lo sprezzo ».
È stato sicuramente anche grazie agli Zigani ungheresi che lo stereotipo
zingaro/musicista ha poi accompagnato, nel bene e nel male, tutti i diversi
gruppi sparsi per il mondo, compresi quelli che non manifestavano nessuna
particolare attitudine per la musica.
Ma, stereotipi e sublimazioni romantiche a parte, la domanda che i musicologi
più spesso si ponevano, e tutt'ora si pongono, era di carattere assai più
speculare: erano gli Zingari i veri creatori di questa musica o erano più
semplicemente i rifacitori e gli abili esecutori di stili e melodie
preesistenti nei luoghi dove essi andavano a stabilirsi?
Un quesito, come infiniti altri, probabilmente irrisolvibile.
Alcuni provarono comunque a dare delle risposte.
Secondo Béla Bartòk la musica degli Zigani magiari era autentica musica
ungherese. Secondo il musicologo Balint Sarosi, gli elementi della «puszta», «...che
si crede essere autenticamente zingari, e che sono turco-arabi, sono stati
assunti dai musicisti zingari sia direttamente alla corte dei pascià e dei bey,
sia direttamente presso i signori ungheresi del XVII secolo. Il resto - la
maggior parte degli strumenti, la tecnica, l' orchestrazione, l' armonizzazione
fu un apporto dell'Occidente che essi assimilarono».
Lo stesso dilemma si pose, e risposte simili si dettero, in merito al Flamenco
dei Gitani spagnoli.
Scrive B. Leblon, in «Les Gitanes dans la Péninsule ibérique»: «I Gitani hanno
probabilmente adattato alloro genio particolare, materiale raccolto sul posto
(...). Il ruolo dei Gitani in Spagna è dunque sia conservatore che innovatore,
perché tutta la musica riedita da essi porta immancabilmente la loro impronta».
Ma tutto questo, in fondo, non sembra avere molta importanza. Di certo però
allo stereotipo cullato nel romanticismo ha corrisposto e corrisponde certa
realtà, caratterizzata non soltanto dalla fitta cronistoria di piccoli e grandi
eventi musicali dei quali gli Zingari si resero protagonisti.
Basti pensare alla favolistica zingara: l'amore per la musica è cantato
innumerevoli volte ed innumerevoli volte l'origine del singolo strumento
musicale viene accreditato a volontà divina, in un turbinio di eventi che
legano il «valore musica» ai moti delle passioni più intime dell'uomo e della
natura.
In nessun' altra produzione letteraria al mondo vi è una presenza tanto
ridondante dell'importanza della comunicazione musicale e, semmai, ogni altra
produzione è invasa dallo stereotipo zingaro/musicista.
Ciò non comporta affatto, però, che sia possibile circoscrivere la cosiddetta
«musica zingara» all'interno di un'unica cornice, così come risulta
improponibile teorizzare le origini di tale specifica attitudine.
Bruno Nicolini, e altri, hanno provato a tracciare alcune caratteristiche che
risulterebbero fondamentali in queste melodie: «Fulcro dell'eccellenza musicale
zingara è il ritmo, che è sempre nuovo, libero, fluido, incrociato per
corrispondere alle esigenze più diverse dei sentimenti. Il tema melodico si
sviluppa secondo una linea sottile, delicata, elusiva, con uso dei microtoni -
cioè quarti e terzi di tono - scivolando impercettibilmente, scomparendo quasi
per poi ricomparire, mentre i virtuosismi vi disegnano attorno come un arabesco
in un gioco fantastico di fioriture selvagge, di perifrasi insospettate, di
trilli originali, di arpeggi dolci e riposanti, di scale furiose, di sprazzi
brillanti in un itinerario guidato dalla ispirazione del momento».
Un'ispirazione colta, a volte, con 1m misto di stupore e di superstizione.
Scrive Gorki:
«- Suoni bene Loiko, chi ti ha costruito un simile violino?
- L'ho fabbricato io stesso, non con il legno, ma con il petto di una giovane
che amavo! Le corde le ho prese nel suo cuore... »8.
Una leggenda più o meno simile veniva sussurrata con compiacimento su Nicolò
Paganini, del quale si diceva anche che «... tutte le sue acrobazie
strumentali, armoniche pizzicanti in doppia o tripla corda, i trilli
d'uccello... sono gli artifici naturali dei musicisti zingari che si ritrovano
nel gioco malefico... ».
Ancora sul Paganini: «... oltre al fatto che fosse senza dubbio Satana in
persona le cui dita maledette muovevano l'archetto sullo strumento incantato»,
egli di sicuro doveva «... il suo prodigioso virtuosismo a segreti che gli
erano stati rivelati da musicisti tzigani».
Insomma, a ben vedere, non si comprende se gli Zingari siano stati gli epigoni
di altri musicisti, orientali ed occidentali, o se siano stati invece più
numerosi gli artisti gagé che hanno assimilato e fatto propri motivi e tecniche
della musica zigana.
Più probabilmente, com'è nell'ordine delle cose, i linguaggi musicali, laddove
si sono incrociati, si sono arricchiti vicendevolmente, anche perché la musica
zingara è sempre stata lungo i secoli uno dei più utilizzati prodotti di
scambio con le società non-zingare, così come appare nella documentata
ricostruzione del De Foletier.
Una ricostruzione che ci ricorda che il violino, per quanto diventato strumento
emblematico della musica zigana, non fu, e non è, l'unico utilizzato dagli
zingari. Oltre gli strumenti a corda, violino, chitarra, arpa, cembalo, essi
utilizzarono anche la zampogna in Persia e in Gran Bretagna, il flauto in
Russia, il tamburello in Turchia, le nacchere in Spagna, il clarino, l'ottone,
il violoncello ed il contrabasso in Ungheria e in altre nazioni.
Esiste poi una vasta gamma di strumenti popolari poco indagati e poco
conosciuti, come, per esempio, quelli slavi sui quali ha condotto diverse
ricerche Traiko Petrovski.
Tra i Rom di Skopje, in Macedonia, ci sarebbero tutt' oggi numerosi e validissimi
artigiani zingari che si dedicherebbero alla costruzione di questi strumenti:
Tapani (tamburi), Zurli (strumenti a fiato), Tarabuka (piccoli tamburi), Gaida
(zampogne), Kaval (specie di flauto), Defi (tamburello), Duduk (flauto da
pastore).
Secondo Petrovski: «I gruppi strumentali turchi di origine arabo-persiana
chiamati Calgii (che in turco può significare strumento, musica o orchestra)
visitarono le maggiori città macedoni (Skopje, Bitola e altre), svolgendo un
ruolo fondamentale nello sviluppo dei complessi musicali in Macedonia. Sotto la
loro influenza i Rom a Skopje formarono simili gruppi strumentali: i calgagii
formati da violino, grnata (tipo di clarinetto), lauta, kanon (piatti),
tarabuka e tamburello».
Sempre Petrovski ci racconta i sistemi di costruzione di alcuni di questi
strumenti popolari: «Il tamburo è chiamato nella lingua romani davuli o goci:
è composto da un cilindro di noce e sopra ambedue i lati aperti del cilindro
viene stesa la pelle di capra o di pecora. Il legno di noce viene bollito prima
di essere trasformato in un cilindro; la pelle, che copre i lati aperti, viene
tirata con degli anelli di legno coperti di pelle. Lo stiramento sul cilindro
viene fatto con una corda, che, ben tirata, forma dei triangoli; l'estremità
della corda è attaccata ad un anello di metallo unito al bordo del tamburo. A
questo anello sono uniti altri due cerchi, ai quali è fissata una cintura di
pelle usata per sostenere lo strumento quando si suona. Le dimensioni normali
di un tamburo sono 500-550 millimetri di diametro. Il suono viene prodotto
colpendo la pelle tesa con una speciale bacchetta fatta di legno: sano kas.
Quando si suona, la cintura poggia sulla spalla e il tamburo rimane così
inclinato in modo da poterlo suonare su ambedue i lati».
I musici erranti
La genesi degli Zingari musicisti, così come
l'abbiamo conosciuta in ambito storico-letterario, comincia proprio con la
musica: musici, secondo Hamzah d'Hispahan nella sua Storia dei re di Persia,
erano i dodicimila Zott arrivati alla corte di Behram-Gor.
E qui si parla, beninteso, di parecchi secoli prima che gli Zingari si
diffondessero in Europa.
La storia dei musici erranti per le corti europee è stata invece ben
documentata e ben riassunta dal De Foletier, secondo il quale essi avrebbero
incontrato i maggiori successi nei Paesi dell'Europa centrale ed orientale.
Tuttavia la loro presenza è stata rilevata praticamente dappertutto, dall'Islam
alla Cristianità, con caratteristiche assai comuni. Offesi e perseguitati gli
Zingari parevano capaci di costruirsi piccole oasi di sopravvivenza «vendendo»
il loro prodotto più apprezzato: la musica, appunto, accompagnata spesso anche
dalla danza.
Si suonava e si danzava per re, regine e nobili, ma anche nelle feste paesane e
in quelle private. Diversi gruppi di musici nomadi vennero inglobati negli
eserciti, a formare estemporanee bande militari.
Nel 1469, in Italia, uno Zingaro che suonava la «citola» (uno strumento a
corde), venne ricompensato dal Duca di Ferrara.
Secondo il De Foletier i Rom stanziatisi nel meridione d'Italia erano i
costruttori e i suonatori dello «scacciapensieri» (la tromba degli Zingari).
Sono molti gli aneddoti e le curiosità riguardanti questi particolarissimi
orchestrali e queste ammalianti danzatrici.
In Ungheria Panna Czinka, una violinista molto nota, continuava, durante la
bella stagione, a vivere sotto la sua tenda sulle rive del fiume Sajo: alla sua
morte, sulla sua tomba, venne inciso un epitaffio in latino e la sua vita fu
celebrata in versi ungheresi e latini.
Barna Mihaly, chiamato anche l' «Orfeo ungherese», divenne primo violinista
alla corte del Cardinale Emerich Csaky, che ne ordinò un ritratto a grandezza
naturale.
Ogni signorotto magiaro pare avesse la sua piccola orchestra zingara, che di
solito era composta da due violini, un contrabbasso e un cimbalo (uno strumento
a corde percosse da due martelletti).
Il cimbalo era anche lo strumento di Simon Banyak, alla corte di Maria Teresa.
Un parente di questo musicista, Janos Bihari, compose la «Kronungs Nota», o «Bihari
Nota», per l'incoronazione dell'imperatrice Maria Luisa. Sempre in Ungheria le
orchestre zigane accompagnavano i reggimenti degli Ussari, con arie, secondo
Mérimée che aveva potuto udirle nelle feste paesane, che facevano «... perdere
la testa alla gente del paese. Comincia con qualche cosa di molto lugubre e
finisce con una gaiezza folle che conquista tutto l'uditorio, il quale batte i
piedi, spacca i bicchieri e balla sulle tavole».
Anche in Moldavia e in Valacchia, i Lautari, si emancipavano dalle strette
della schiavitù assoggettandosi al più gradito ruolo di musici. Un gran
boiardo, Costantino Sutzo, compose un' orchestra zingara di cento elementi. Il
tamburino, il violino, la «cobza» (una sorta di mando lino a nove corde) e il
«naiu» (flauto di Pan), erano gli strumenti di numerose bande militari, come
quella che nel 1821 accompagnava a Dragasani il «battaglione sacro» composto da
Greci e Rumeni che venne massacrato dai Turchi in battaglia.
Una piccola orchestrina magiara, chiamata Gli Zingari (in italiano), raggiunse
nel 1840 Parigi.
«Vestiti nel costume tradizionale ungherese, con pantaloni a sbuffo di tela
bianca e stivali con gli speroni, suonarono centosettanta volte nei teatri,
nelle sale di concerto e nelle case private, come in quella di Lord Granville,
ambasciatore d'Inghilterra, e del Conte Apponyi, ambasciatore d'Austria. Da
allora eccellenti orchestre zingare ritornarono frequentemente in Francia sotto
il secondo impero... ».
Non tutti però apprezzarono questi Zigani che penetravano in Francia armati dei
propri strumenti, a dimostrare che un buon musico zingaro era e restava
comunque sempre e soprattutto «uno zingaro». Alexander Privat d'Anglemont,
cronista parigino, descrivendo uno di questi musicisti erranti, così scriveva
nel 1854: «Un vecchio abbronzato con gli abiti picareschi che grattava su un
mandolino bizzarro, una specie di gusla...è uno zingaro vigliacco, un girovago
nato a Bucarest, schiavo di un qualsiasi Boero».
Anche nella Russia degli Zar non esisteva corte o festa senza canti e danze
zingare.
Scrisse Liszt, dopo un viaggio a Mosca, che le Zingare «Hanno il loro posto
negli archivi delle prime famiglie dell'Impero... Sono diventate il terrore
delle madri e dei tutori. Si narra di più di un principe che avrebbe divorato
con loro nel corso di qualche estate tutto il suo patrimonio di milioni in
feste e festine, danze e bevande, gioie e delizie».
Non sembra davvero un caso che anche moltissimi scrittori russi frequentassero
gli Zingari e poi trasportassero sulle loro pagine ombre, colori e suoni di
questi musici e di queste danzatrici. Aleksandr Puskin, il grande poeta
rivoluzionario che a causa dei suoi epigrammi venne mandato al confino, viaggiò
con essi, dormì con essi e su essi scrisse tra il 1821 e il 1823 il poema
«Zingari».
Un nipote di Tolstoi sposò una cantante zingara e di Zingari parlò anche il
grande Leone nelle sue opere (I due Ussari).
Anche la letteratura spagnola venne ammaliata dall' arte musicale gitana, che
assunse forme e contenuti sicuramente originali.
La «Gitanilla» di Cervantes resta una figura emblematica di come la letteratura
in genere ha recepito la figura della Zingara: un po' artista, un po' innocente
e un po' ladra.
La musica gitana, più delle altre espressioni musicali zingare, è legata
intimamente con la danza. Il Flamenco, che si dice di antichissime origini
andaluse, avrebbe in sé elementi orientali, moreschi ed ebraici e, secondo
altri, non avrebbe forme ben definite ma solamente differenti istanze: la
«saeta» (solo cantata), la «seguidilla» (accompagnata dalla chitarra), la
«malaguefia» (la vera e propria danza).
Secondo il De Foletier «Se la musica degli Zingari è soprattutto una musica
strumentale in Ungheria e una musica vocale in Russia, in Spagna essa è in
stretta relazione con la danza».
Danza, musica, canto: tre espressioni, tre veicoli di comunicazione, forse i
più potenti nelle mani degli Zingari, che per interi secoli hanno invaso la
vita e l'arte dei gagé: stupiti, sedotti, spesso spaventati ed in preda a
improvvise pulsioni sgorgate alla luce dai recessi profondi dell' anima.
Così dice il prete don Claudio ad Esmeralda, la Zingara torturata e condannata
a morte per causa sua: «Un giorno ero appoggiato alla finestra della mia cella
(...) leggevo. La finestra dava sulla piazza. Odo un suono di tamburo e di
musica. Irritato di essere in tal modo distratto dalla mia meditazione guardo
sulla piazza. Quello che vidi molti altri lo vedevano oltre me, tuttavia non
era uno spettacolo per occhi umani. Là, in mezzo al selciato, una creatura
danzava. Una creatura così bella che Dio l'avrebbe preferita come madre e
avrebbe voluto nascere da lei, se fosse esistita quando egli si fece uomo
(...).
Stupito, atterrito, inebriato, incantato, mi lasciai andare a guardarti. Ti
guardavo tanto che ad un tratto fremetti di spavento, sentivo che il destino mi
afferrava (...). Mi ricordai i tranelli che Satana mi aveva già teso. La creatura
che avevo sotto i miei occhi aveva quella bellezza sovrumana che può venire
solo dal cielo o dall'inferno (...). Frattanto l'incantesimo operava a poco a
poco, la tua danza mi turbava il cervello, sentivo il misterioso maleficio
compiersi in me. Ad un tratto ti mettesti a cantare. Che potevo fare
miserabile? Il tuo canto era ancora più affascinante della tua danza. Volli
fuggire, impossibile ero inchiodato, ero radicato al suolo».
Django Reinhardt
Diane Tong, nell'introduzione al suo «Storie e fiabe
degli Zingari», racconta di come nei campi di sterminio tedeschi durante la
seconda guerra mondiale, alcuni Zingari che vi erano imprigionati tentarono di
salvarsi spacciandosi per Django Reinhardt.
Nessuno può dire con sicurezza se poi qualcuno di questi tentativi sia stato
baciato da buona sorte.
Di sicuro però non si trattava di tentativi campati per aria: forse era davvero
legittimo sperare che anche il mostro nazista avrebbe risparmiato lo Zingaro
Reinhardt, il più grande jazz man europeo, il chitarrista analfabeta «dalle
otto dita».
Reinhardt, il cui vero nome pare fosse Jean Baptiste, era nato a Liverchies, in
Belgio, nel 1910.
Era nato in un carrozzone manouche accampato alla periferia della città e certo
nessuno, tra la sua gente, avrebbe potuto immaginare che un giorno la sua
storia sarebbe diventata una delle leggende più nitide e significative della
mUSIca jazz.
Imparò, sin da bambino, a suonare sia la chitarra che il violino, ma abbandonò
quest'ultimo dopo che un incendio del suo carrozzone gli provocò una grave
menomazione alla mano sinistra: perse l'uso di due dita, un incidente che
avrebbe decretato la morte musicale di tanti altri ma non del ragazzo manouche
che accentrò i suoi sforzi sulla chitarra.
Per lungo tempo Reinhardt continuò a vivere la solita vita che il destino
sembrava aver tracciato per lui: la vita nomade, fatta di continui spostamenti
e di improvvisati concerti di piazza.
Fu proprio in uno di questi concerti, alla periferia di Parigi, che venne
notato da un gruppo di musicisti francesi.
Arrivò in questo modo il primo ingaggio: il musicista analfabeta (non sapeva
leggere le note sul pentagramma), venne assunto nell'orchestra di André Ekyon,
un sassofonista francese di una certa notorietà.
Nel 1934, insieme ad un altro giovane musicista particolarmente dotato, il
violinista Stephane Grappelly, costituì il «Quintette de l'Hot Club de France»,
un gruppo composto prevalentemente da strumenti a corda.
Secondo il parere dei più accreditati musicologi l'immediato ed enorme successo
dell'Hot Club de France, ma in particolare di Reinhardt che del gruppo era il
vero trascinatore, stava tutto nelle sue invenzioni a metà strada tra il lirico
e il barocco, nelle sue volate a note singole e negli episodi «ad ottave
parallele».
Tra il 1935 ed il 1939 il chitarrista «dalle otto dita» suonò ed incise con
tutti i grandi jazzisti americani in tournée per l'Europa: Rex Stewart, Dickie
Wells, Coleman Hawkins, Benny Carter, Barney Bigard, Eddie Shout, Bill Coleman.
I suoi dischi si vendevano dappertutto, anche in quell' Italia fascista nella
quale, a causa dell'ostracismo del regime alla musica jazz, l'Hot Club de
France venne ribattezzato col nome «l cinque diavoli del ritmo».
Allo scoppio del conflitto mondiale il gruppo si scioglie, per poi venire
rifondato dallo stesso Reinhardt con una diversa composizione strumentale:
clarinetto, due chitarre, contrabasso e batteria.
Nel 1946 il musicista zingaro venne invitato negli Stati Uniti, per una serie
di concerti con Duke Ellington. Negli ultimi tempi, morì nel 1953, si era
parzialmente avvicinato al bebop e aveva preso a suonare con la chitarra
elettrica: alla sua morte lasciò un vastissimo patrimonio musicale destinato ad
influenzare a lungo sia il jazz europeo che quello d'oltre oceano.
Su di lui restano numerosi aneddotti che, più ancora del parere tecnico dei
musicologi, testimoniano delle sue origini zingare: l'assoluta incapacità di
accumulare denaro, la generosità verso tutti coloro che si trovavano in
difficoltà, la resistenza ad imparare il linguaggio del pentagramma, la
coscienza del trascorrere del tempo non vincolata alle lancette di un orologio
(perdeva facilmente la coscienza del tempo ed una volta arrivò in ritardo
persino ad un concerto con Duke Ellington).
Probabilmente non è un caso che il più famoso musicista di origini zingare di
questo secolo abbia trovato tutta la sua grandezza nella musica jazz:
forse solo essa, musica dei ritmi interiori dell'anima, poteva accogliere
pienamente quanto Reinhardt aveva da insegnare; non tecniche, probabilmente, e
neanche stereotipi musicali già datati e assimilati, ma sicuramente, un
atteggiamento verso «il fare musica» che era proprio della sua gente.
Capitolo undicesimo: la medicina
La buona pietra
Una delle caratteristiche reputate tra le più
«zingaresche», la stessa che colpisce in profondità la fantasia della gente, è
rappresentata dall'usanza dei cosiddetti «denti d'oro».
In un pomeriggio di alcuni anni orsono, nel Campo di San Lussorio a Selargius,
mi capitò di assistere alla messa in opera di questi denti: proprio così, non
in una clinica specializzata, né negli studi di qualche odontoiatra, ma proprio
in una qualsiasi baracca, quella, nell'occasione, dell'anziana Nedziba.
I due improvvisati dentisti, armati di valigetta e scarsa attrezzatura, erano
due giovani marocchini che allora giravano per tutti i Campi di Cagliari: il
mercato pare fosse abbastanza ampio.
Dopo le trattative sul prezzo, che richiesero parecchio tempo e che si
conclusero sulla cifra di trentamila lire «a dente», i due giovani si diedero
da fare sul loro armamentario, costituito da un fornellino sul quale fondere la
materia prima e su altri, pochi, strumenti medici.
Davvero non fu per niente un buon spettacolo.
I due non usarono anestetici, né si premunirono di disinfettarsi le mani.
Quanto poi al materiale usato si trattava di una lega di oro e rame, con
moltissimo rame e pochissimo oro fusi in una patina molto leggera che rivestiva
il dente.
Il tutto, procedimento approssimativo, materiali usati e nessuna igiene, sembrava
fatto apposta per provocare infezioni di varia natura e probabili paradentosi.
Cosa che poi puntualmente avvenne.
Questa è la storia dei «denti d'oro» degli Zingari, così come io l'ho vista, ed
anche se probabilmente si trattava solamente di un episodio, ciò può lasciar
intendere quanto in certi casi i rapporti con la «medicina» siano diventati per
i Nomadi contraddittori e non sottoposti a controllo.
Ancora una volta il passato parlava un'altra lingua, una lingua smarrita della
quale sono rimaste poche ma significative tracce che raccontano di una medicina
gestita in proprio e basata sull'uso di determinate piante e di altre sostanze
animali e minerali.
«Trifoglio, verbena, erba di San Giovanni; aneto / respinge le streghe di loro
volontà / È bene per coloro che possono / digiunare il giorno di Sant'Andrea /
Santa Brigida e il suo bastardo / Santa Colomba e il suo gatto / San Michele e
la sua spada / tengano la casa libera, prospera e fortunata».
In questa filastrocca di scongiuri contro le minacce che potevano recare
pericolo ad un'abitazione, della quale testimoniò Walter Scott per averla udita
da una Gypsye, si può comprendere di quanto potere magico venissero accreditate
alcune erbe nella tradizione zingara.
Un potere magico che indubbiamente si ritrova anche nell'uso che di determinati
vegetali, e altre sostanze di tipo animale e minerale, si fece e tutt'ora in
parte si fa nella medicina popolare zingara.
Il che certo non è una specifica prerogativa di questa etnia: in tutte le
tradizioni popolari la medicina dei cosiddetti guaritori ha sempre avuto
particolare importanza e spesso è vissuta nella simbiosi tra elementi
magico-rituali ed effettive proprietà curati ve delle sostanze utilizzate.
Nello specifico, secondo la Cozannet «L'idea su cui si basa tutto ciò è quella
dell'origine religiosa - demoniaca, per maggior precisione - della gran parte
delle malattie che assillano l'uomo. E non solo delle malattie infettive o
interne, la cui origine può sembrare misteriosa ad una persona incolta, che
tenterà di spiegarle con un intervento sovrumano, ma anche delle ferite, dei
colpi, ecc., che possono essere attribuiti ad un intervento diabolico che si
inserisce nell'azione umana definita allora piena di sfortuna».
In realtà appare poi molto difficile stabilire in che misura, nel trascorrere
del tempo ed anche in relazione agli usi ed alle esperienze fatte dai diversi
gruppi, siano rimasti intatti i presupposti mitico-religiosi dei quali parla la
studiosa francese, e in che misura invece si sia data sempre più importanza ai
buoni risultati ottenuti empiricamente da determinate sostanze.
Certo lo stereotipo Zingara/guaritrice è sempre stato uno dei più ridondanti
nella cultura europea e su di esso si trovano numerose testimonianze storiche
che vale la pena di ricordare.
Gli Zingari che penetravano in Europa si fecero conoscere da subito come
maestri nell' arte di guarire. Che poi, almeno in parte, questa arte si sia
espressa a metà strada tra medicina e sortilegio, appare più come un segno dei
tempi che non come una specifica attitudine zingara.
L'Europa, dopo tutto, brulicava di superstizioni, stregoneria vera o presunta,
magia bianca e magia nera: il tutto ben rinfocolato dall'attività degli
inquisitori, sempre più che propensi ad accreditare a forze sovrannaturali
tutto quanto non altrimenti comprensibile.
Già un membro della Compagnia del Conte del Piccolo Egitto pare fosse uso
presentarsi come Pietro il medico. Reginald Scott, in un trattato di magia del
1584, scrive che gli Zingari avevano il potere di guarire e di ferire. Guarire,
beninteso, da molti mali: tanto da emicranie che da cattiva ventura, tanto da
raffreddori che da mal d'amore.
Dice Otello a Desdemona, a proposito del fatale fazzoletto: «Mia madre ebbe
quel fazzoletto da una zingara egiziana (...). Nel suo tessuto c'è virtù
magica; una sibilla che aveva contato sulla terra duecento volte il corso annuo
del sole, lo ha ricamato durante un'estasi profetica. E i bachi che ne avevano
fatto la seta erano sacri. Ed esso fu tinto con i colori che esperti dell'arte
ricavavano da cuori mummificati di vergini».
Ma gli amuleti utilizzati dagli Egiziani erano solitamente di altra natura,
come ancora racconta il De Foletier.
In Germania e in Transilvania erano composti di pasta di lievito seccata, con
sopra incisi dei segni misteriosi. A volte invece essi usavano pietre poco
comuni, o, come nel caso dei Gitani, la calamita, che veniva da loro chiamata
«la buona pietra» (Bar Laci).
Superstizioni?
Non c'è alcun dubbio, come non c'è alcun dubbio che di riti e scongiuri di
altro tipo fosse assai ricca la civiltà contadina del tempo.
Così se agli scongiuri degli Zingari era concesso, ad esempio, di domare gli
incendi, altri, tra i quali molti religiosi, non avevano remore nell'
accreditare ai propri scongiuri altri straordinari effetti.
A Konisberg, nel 1745, un manifesto affisso sui muri della città dà grande
risalto agli scongiuri con i quali un non meglio identificato Re degli Zingari
fece assopire un incendio:
«Ti ordino, o Fuoco, per la forza di Dio onnipotente e creatore di tutte le
cose, di arrestarti in questo stesso istante e di non avanzare di un passo.
Gesù di Nazaret, re dei Giudei, guarda questa casa e la sua cinta dall'incendio
e dalla peste. Così, o Fuoco, che tu sia chiuso e scongiurato... ».
Niente di particolarmente diverso dagli scongiuri del domenicano J. Sprenger: «Per
allontanare i fenomeni atmosferici avversi, si gettino nel fuoco tre chicchi di
grandine, invocando la Santissima trinità, recitando il Pater, la salutazione
angelica, il principio del Vangelo di San Giovanni, e tracciando il segno della
croce avanti e indietro in ognuna delle direzioni cardinali. Alla fine si
replica per tre volte la frase iniziale del Vangelo di Giovanni con la formula fugiat
tempestas ista».
Che dire poi di certe filastrocche che ancora oggi si recitano nei Campidani
sardi, come quella di «Santa Barbara e Santu Iaccu» contro i fulmini? Come
stupirsi insomma del fatto che in passato gli Zingari si fossero così ben
inseriti in questo contesto generale?
Le donne zingare, inoltre, possedevano davvero qualche cognizione di
fitoterapia, dato che curavano sé stesse e i propri familiari con l'aiuto di
erbe medicinali, coniugandole magari a volte con altri elementi dalle dubbie
proprietà, come quella carne di «serpente cotto» con la quale in Transilvania
si tentava di porre rimedio alla scabbia.
Se il ruolo di guaritrice solitamente veniva riservato alle donne non per
questo gli uomini disdegnavano di specializzarsi in queste attività. Nella
storia è rimasta traccia di questi personaggi, che si dicevano, pare con
qualche credibilità, anche buoni chirurghi.
Prévost d'Exiles, detto l'Abate, in «Le pour et le Contre», scrive che «Le
visite che fanno ai contadini non sono senza gradimento e nemmeno senza
utilità», dato che essi «... si intendono bene di medicina e di
chirurgia... I più fini hanno un segreto che fa talvolta l'ammirazione dei
fisici e dei chimici».
I chirurghi zingari divennero poi famosi nelle Province Unite, tanto famosi da
offrire i propri servigi ai chirurghi olandesi che presero a fare tirocinio
presso di loro.
Fitoterapia ma non solo
«Anche per i cavalli sapevano fare, quando ad un
cavallo prendeva mal di pancia. Allora ci vuole qualcuno che ha le dita così
che indice e mignolo si toccano dalla parte del dorso della mano senza
sforzarli. Prendeva la paglia, che era sotto il cavallo, con quelle dita così e
la buttava sopra il cavallo. E la prendeva ancora e la buttava tre volte. Poi
passava. Ma solo quelli che potevano prendere la paglia con quelle due dita.
Avevano anche una testa di volpe, solo l'osso. Anche da quella passavano
l'acqua e la davano da bere ai bambini. Mai dottore, mai dottore».
Queste, raccontate da Bruno Levak Zlato in Rom Sim, erano alcune recenti
tradizioni dei Rom Kalderasa. Tradizioni che ancora, almeno in parte,
continuano ad essere tenute in vita, specialmente per quel che riguarda la cura
delle malattie nell'uomo.
Riuscire a conoscere realmente queste pratiche è particolarmente difficile,
data l'estrema riservatezza degli Zingari in merito a questo aspetto della loro
vita. Certo qualcosa ancora rimane, specialmente nelle abitudini delle persone
più anziane.
Omo Selimovic, uno dei grandi vecchi dei Roma xoraxané che vivono in Sardegna,
diverse volte ha tentato di «curarmi» alcuni leggeri disturbi di digestione
manipolando il mio braccio sinistro: si trattava, nelle sue intenzioni, di
individuare una «pallina» che si annidava tra i muscoli facendo poi forza su di
essa per placare il disturbo. Qualche volta, forse per mia autosuggestione o
perché diventava assai più forte il dolore al braccio «manipolato» che non allo
stomaco, la cura ha funzionato perfettamente: l'unico inconveniente stava tutto
nel mio povero braccio martoriato, poca cosa comunque rispetto alla
soddisfazione che traspariva dal viso rugoso del vecchio Orno. .
Il rimedio consigliato da Levak Zlato contro il malocchio che colpisce i
neonati è simile a quello in uso nei campi Roma sardi: «... allora prendevano
acqua e carbone acceso e lo mettevano nell'acqua. Allora si sapeva chi aveva
fatto il malocchio al bambino e passava subito».
Nei Campi cagliaritani il bicchiere colmo d'acqua nel quale viene lasciato
cadere il tizzone ardente viene passato e ripassato sul capo del bambino
piangente, in questo modo il vapore che da esso si sprigiona assolve la
funzione curativa.
È questo un rito che si ripete infinite volte al giorno a causa del tabù
sull'impurità che impedisce al padre di toccare i piccoli appena nati per un
certo periodo di tempo.
Il padre, constatando anche involontariamente la bellezza del proprio figlio,
ma non potendolo toccare, provoca la nascita del malocchio: a questo punto
l'unico rimedio resta quello del tizzone ardente nell' acqua.
Qualche donna zingara raccoglie ancora poche erbe: attività assai difficile da
eseguirsi nelle degradate periferie urbane. Tra gli altri sistemi curativi
gestiti in proprio convivono anche alcune pratiche tanto moderne quanto
nefaste.
In caso di bruciature, per esempio, non viene solo utilizzata la classica fetta
di patata: in diverse occasioni ho potuto constatare personalmente l'uso di
olio per motori «bruciato», cioè già utilizzato negli automezzi.
La tendenza generale è comunque quella di rivolgersi, quando è possibile, alla
medicina gagé, ritenuta, soprattutto fra i giovani, più capace e sicura: un po'
come hanno rilevato i ricercatori Ciravegna e Maroni nel corso di
un'interessante ricerca effettuata su un campione di famiglie zingare nell'
area torinese:
«Presso gli Zingari convivono infatti due modalità differenti di cura: l'una
legata al farmaco-medicina tipica della società post-industriale, l'altra
basata suformule e rimedi naturali. (...) La loro convivenza, a prima vista, è
motivata da un'altra convivenza: quella di giovani e adulti, nel senso che i
primi sono all'oscuro di pratiche fitoterapiche e tradizionali e ripongono in
esse scarsa fiducia, affascinati piuttosto dai prodotti che si acquistano in
farmacia, pubblicizzati come sicuramente efficaci; gli adulti, invece, memori
dei «miracoli» operati dalle erbe o dalle donne delle erbe fino a non molti
anni fa, disdegnano la medicina occidentale, a favore di quella indigena e
naturale».
Anche secondo Ciravegna e Maroni la conoscenza della fitoterapia è oggi patrimonio
di poche donne il cui bagaglio scientifico è stato loro tramandato per via
orale, da madre e figlia. Insieme alle proprietà delle erbe sono state
tramandate anche alcune regole generali: ogni erba deve essere raccolta in
determinate stagioni e mai, in nessun caso, le donne devono raccoglierle se si
trovano nel periodo mestruale, cioè in stato d'impurità, pena la perdita dei
principi attivi delle piante.
Alcune ricette
La Cozannet riporta una ricetta di antiche origini
contro gli incubi, l'asma, l'oppressione sul petto: «... si impasta un composto
a base di polvere di mostarda e di succo di radici, di cui si fanno
pallottoline che il malato deve inghiottire prima e dopo il sonno, dicendo:
Gesù è stato colpito, gli ebrei si sono assisi sul suo petto, Dio li ha
scacciati. Un demone è assiso sul mio petto, donne bianche, scacciate lo e
mettete su di lui una grossa pietra»
A prescindere dalla formuletta magica, che ci indica più che altro in che modo
siano penetrati anche tra certi gruppi zingari i nefasti pregiudizi sugli Ebrei
(sicuramente di pari passo con la penetrazione del cattolicesimo), poco o
niente la Cozannet ci spiega sulle proprietà chimiche delle sostanze utilizzate
(quali radici?), salvo mettere poi in evidenza non meglio precisate proprietà vescicanti.
Sulle ricette di medicina zingara non esistono molte pubblicazioni, anche se
appare lecito supporre che la gran parte di esse, tra quelle non conosciute,
non debbano poi essere molto dissimili da quelle patrimonio di altre medicine
popolari, sia per la composizione degli elementi utilizzati e sia per la loro
applicazione in determinate patologie.
La riscoperta della fitoterapia, come medicina alternativa o complementare a
quella classica, fenomeno che appare sempre più in espansione, accredita anche
i vecchi rimedi popolari di una dignità e di un' efficacia che erano state
messe fortemente in dubbio: oggi la conoscenza di questi rimedi è invece assai
diffusa e ci permette perciò una valutazione oggettiva di alcune ricette
zingare, tratte, in questa specifica occasione, dalla ricerca di
Ciravegna-Maroni.
- Bronchiti, Irritazioni Respiratorie, Raucedini.
1 litro d'acqua, 50 gr. di foglie di eucalipto, 50 gr. di foglie di ginepro, 10
gr. di foglie di lobelia, 20 gr. di foglie di salvia, 15 gr. di foglie di
valeriana. Disporre i vari ingredienti in
un recipiente, versare acqua bollente, lasciare raffreddare, filtrare e bere in
ragione di 2 tazze per giorno.
Questo infuso contiene erbe universalmente utilizzate nella cura di affezioni
respiratorie di vario tipo. Le foglie dell' eucalipto sono ricche, tra gli
altri, di principi attivi sulle febbri, i catarri, le polmoniti. Le foglie di
ginepro sono forti eccitanti delle secrezioni, quelle della salvia da sempre
utilizzate per la cura dell' asma e della bronchite, mentre la lobelia è una
pianta erbacea ricca di «lobelina», un eccitante dei centri respiratori.
L'unico uso difforme da quelli più noti e consigliati è quello delle foglie di
valeriana, essendo questa una pianta della quale solitamente si utilizza solo
il rizoma (e mai associato all'acqua bollente che ne vanifica i principi
attivi).
- Bronchiti, Affezioni polmonari, Crisi d'asma.
40 gr. di gemme di abete
l l. di acqua, 1/2 l. di miele. Ottenere un infuso
con le gemme d'abete e l'acqua, filtrare e aggiungere latte caldo zuccherato
con miele. Bere sei tazze per giorno di tale infuso.
L'associazione tra il miele e le gemme di abete è un
classico della fitoterapia. Le gemme di abete, delle quali viene però
solitamente consigliata una proporzione d'uso almeno doppia in un litro
d'acqua, sono ricche di principi attivi balsamici, espettoranti e antisettici.
- Contro la febbre.
30 gr. di corteccia di salice. 1 l. di acqua. Fare un infuso utilizzando
l'acqua bollente e la corteccia di salice. Lasciare raffreddare e berne a
ragione di tre piccole tazze di caffè ogni giorno.
La corteccia di salice, che contiene sostanze tanniche e salicina, un glucoside
che per ossidazione produce acido salicilico, viene utilizzata in Occidente,
come febbrifugo, sin dal XVII secolo.
- Contro l'insonnia
Raccogliere la lattuga al mattino, prima che il sole
abbia illuminato la pianta. Fasciare la lattuga con un foglio di carta. La
sera, mettere le foglie di lattuga in una casseruola con acqua pio vana; far
bollire per circa 25 minuti, colare e aggiungere un pizzico di sale. Bere il
liquido ogni sera prima di andare a dormire.
La lattuga, a prescindere dalla raccolta mattutina
consigliata dagli Zingari, ed anche dal pericoloso uso dell' acqua piovana, è
una pianta utilizzata a scopo medicinale da alcuni millenni. Galeno, il
filosofo e medico greco noto per i suoi studi di anatomia e fisiologia, era
solito curare la propria insonnia mangiando ogni sera un po' di lattuga.
- Contro l'ipertensione.
Una manciata di foglie d'ulivo, 1 l. d'acqua Far bollire nell'acqua una
manciata di foglie d'ulivo. Continuare l'ebollizione sino ad arrivare a circa
metà del suo contenuto originale. Filtrare, lasciare raffreddare. Berne una
tazza il mattino e una alla sera, a settimane alterne.
Le foglie di ulivo, si usano tradizionalmente in un decotto che è attivo sull'
ipertensione e che non causa depressione cardiaca.
- Per i reumatismi
250 gr. di foglie di frassino, 150 gr. di corteccia
di sambuco, 20 gr. di radice di saponaria 2 l. di acqua piovana. Far bollire in
due litri di acqua, filtrare e lasciare raffreddare. Berne non più di tre tazze
al giorno.
Il principio attivo del frassino, la frassinite, ha
ottime capacità di combattere i reumatismi. La corteccia di sambuco, oltre
essere un discreto antireumatico, contiene anche principi antinevralgici. Le
radici di saponaria, pianta universalmente utilizzata (gli Arabi l'usavano
contro la lebbra e nelle ulcere), contengono anch' esse principi attivi contro
i reumatismi.
- Per il diabete
3 gr. di pervinca. 1 l. di acqua piovana. Fare un
infuso utilizzando la pianta di pervinca in un litro d'acqua. Filtrare e
lasciare raffreddare. Berne un bicchierino tre volte al giorno.
La pervinca, nome che deriverebbe secondo la Borio
dal latino «vincire», che vuoI dire legare, avvincere, sarebbe stata utilizzata
sin dal Medioevo per le sue proprietà terapeutiche, ma anche come componente
essenziale nei filtri d'amore.
Di fatto le sue foglie hanno ottime proprietà antidiabetiche.
- Per il Diabete: Caffè di noci.
Tostare delle noci, sminuzzarle e procedere come per un normale caffè.
Anche il noce è una pianta alla quale in passato si
accreditavano forti poteri magici. In fitoterapia, solitamente non si utilizza
la parte interna del frutto ma solamente la foglia, il mallo e, più raramente,
il fiore e la corteccia dei rami giovani. L'uso antidiabetico di questa pianta
appartiene anch'esso alla tradizione occidentale.
- Per le ferite
Per pulire le ferite si usa la plantago major
fresca. La foglia viene appoggiata sulla ferita per qualche minuto.
Le foglie di plantago major, nota, insieme alla
«lanceolata» e alla «media», col nome di piantaggine, vengono comunemente
utilizzate come ottimo medicamento non solo per le ferite ma anche per le
ulcere.
- Contro l'epilessia e le convulsioni.
Due manciate di foglie di vischio, 1 l. di vino bianco secco. Mettere in un
vaso di argilla coperto da un tappo di sughero i due composti, lasciare
macerare il tempo di una luna. Berne due bicchieri a digiuno ogni giorno sino a
terminare il contenuto.
Il vischio, arbusto semiparassita considerato sacro
in tutto il Nord-Europa, dove secondo il Poletti entrava nelle liturgie dei
sacerdoti druidici che lo coglievano con una falce d'oro nelle notti di
plenilunio, contiene principi attivi sedativi e antispasmodici che interessano
il sistema nervoso centrale.
Insieme alle ricette suddescritte, che appaiono indubbiamente efficaci e molto
simili ai tradizionali rimedi fitoterapici conosciuti, la ricerca di Ciravegna
e Maroni ne riporta altre la cui utilità appare dubbia. Vale comunque la pena
di conoscerle.
- Contro la tubercolosi.
Prendere uno o due serpenti, purché non velenosi. Li si ammazza, li si pone su
una griglia al sole. Il grasso del serpente cade e viene raccolto. Generalmente
viene mangiato spalmato su una fetta di pane. Si esegue l'operazione per 40
giorni.
- Per rafforzare le unghie.
3 kg. di ossa di bue, 2 cipolle, chiodi di garofano, timo, lauro, prezzemolo.
Prendere 3 kg di ossa di bue, metterli in una capace pentola con acqua, far
bollire senza sale per 4 ore con gli altri ingredienti.
Durante la cottura aggiungere pian piano altra acqua bollente. Dopo circa 4 ore
ritirare, lasciare raffreddare, filtrare. Salare e riporre in piccoli vasi di
arenaria. Lasciare raffreddare e tenere al fresco. È necessario berne 3
cucchiai al giorno.
- Contro il mal di pancia dei bambini.
Stendere sulla pancia del bambino un panno imbevuto di grappa e acqua.
In conclusione di questo breve capitolo sui rimedi della medicina popolare
zingara è bene ricordare che anch'essa varia, così come è nell'ordine delle
cose, da gruppo a gruppo, da nazione a nazione. Contro ogni cedimento alla
tentazione di trovare in essa aspetti esotici o folkloristici, resta da dire
che, tutto sommato, i suoi rimedi ricordano, nel bene e nel male, la gran parte
di quelli utilizzati in ogni altro approccio popolare al problema della
malattia.
Rimedi che oggi, spurgati da aloni magico-religiosi e da ritualità di contorno,
siamo abituati ad acquistare in erboristeria, imparando, noi stessi, a
scegliere ciò che riteniamo più utile per la nostra salute.
Capitolo dodicesimo: gli Zingari in Italia
Un cane affamato dà fastidio alla pace dell'uomo
Dal Nord e dal Sud
Oggi è possibile disegnare con sufficiente
precisione la mappa della presenza zingara in Italia, anche se ancora esistono
differenti ipotesi su alcuni gruppi considerati da tal uni studiosi ancora
nomadi e da tal altri seminomadi o semi sedentarizzati, anche se questi termini
hanno valori assai relativi.
Sembra invece assai più difficile ricostruire con esattezza date e tappe delle
prime immigrazioni.
Secondo Leonardo Piasere, noto antropologo che ha vissuto in alcuni gruppi
zingari e che quindi ha potuto studiare dall'interno la vita nomade,
approfondendo più avanti anche altre tematiche relative alla storia di questo
popolo, «... il primo popolamento zingaro in Italia si è sviluppato lungo
almeno due direttrici, una in provenienza da nord e una da sud, in un periodo
all'incirca contemporaneo tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV».
Non è da escludere comunque che la data di arrivo sia addirittura precedente,
ma le poche tracce documentali non offrono alcuna certezza su questa ipotesi.
Alcuni gruppi zingari che oggi vivono nel Sud dell'Italia (Abruzzo, Molise,
Puglie, Basilicata, Campania e Calabria), pare siano arrivati via mare dalle
zone della penisola balcanica di lingua greca.
Lo storico Masciotta ha scritto, in relazione agli Zingari molisani, che «Gli
Zingari nostrani detti pure un tempo gizzi o egizi, denunciano l'origine
levantina e sono indigeni del tutto da secoli. (00') Ielsi, nei più vetusti
diplomi feudali, è detta Gittia o Terra Giptia in quelli del secolo XV».
Sulla direttrice Nord la data d'arrivo della prima carovana è invece datata con
precisione: nel 1422 il Duca Andrea entra a Bologna e precede, coi suoi
numerosi spostamenti nella penisola (fra i quali quello che forse l'ha condotto
a Roma), gli altri gruppi armati di lettere e raccomandazioni imperiali e
papali che si propagarono in tutta l'Italia settentrionale. Col passare dei
secoli il flusso immigratorio degli Zingari (così come gli spostamenti dei
gruppi «italianizzati») seguì il corso degli eventi repressivi, dei bandi che
ne provocavano la fuga, delle guerre e delle carestie che li spingevano a
cercare territori più adatti alla sopravvivenza.
Sul finire dell'800 alcuni gruppi di Calderai, provenienti forse dall'Ungheria,
attraversano il confine tra Italia e Francia: in epoca moderna è stato
certamente più agevole stabilire la provenienza e l'origine dei nuovi gruppi
che si addentravano nel nostro Paese.
Un altro consistente flusso è quello che si manifesta alla fine della Prima
Guerra Mondiale, da Nord e da Est arrivano gli Zingari tedeschi e slavi che si
stabiliscono, con forme di nomadizzazione circoscritte a territori non molto
ampi, nelle regioni del Nord Italia.
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, quando in qualche modo l'esercito
italiano riuscì a- strappare ai tedeschi e agli Ustascia croati un gran numero
di persone destinate ai Campi di Concentramento (con furibonde diatribe
politico-burocratiche che gli italiani usarono, una volta tanto, a proposito),
si viene a creare un altro flusso, definito da alcuni studiosi «di
deportazione».
Nello stesso momento, secondo le statistiche compilate da Kenrick e Puxon,
25.000 Zingari vengono deportati dall'Italia verso la Germania e le altre
nazioni dove il nazionalsocialismo ha decretato, con i campi di sterminio,
l'eliminazione delle «razze inferiori».
A partire dagli anni '60 si sviluppa ancora un'altra ondata migratoria, questa
volta dal Sud della Jugoslavia. Un' ondata che non si è mai arrestata e che, a
partire dai primi mesi del 1992, si è fatta molto più intensa a causa dello
spappolamento della ex-repubblica federale e della guerra in corso.
Secondo Jovanovich Misho, delegato per l'Italia alla Romani Union, già nel
gennaio 1992 quindicimila Zingari avevano abbandonato precipitosamente la terra
d' origine4.
Le testimonianze dirette di questi ultimissimi immigrati dicono di un esodo di
notevolissime proporzioni: Zingari montenegrini e serbi spaventati dall'ipotesi
di essere richiamati alle armi in una guerra fratricida, così come Zingari
bosniaci, croati e sloveni, si stanno riversando in Italia.
Spesso, pur trattandosi a tutti gli effetti di profughi di guerra, le autorità
italiane non riconoscono loro questo «status», anche perché la maggior parte di
essi non si è fatta registrare negli appositi punti di controllo organizzati
alla frontiera slovena.
Anche se questi arrivi dovessero continuare a farsi via via più numerosi,
resterà difficile ipotizzare se e in che modo essi potranno variare la
geografia degli insediamenti in Italia.
Una geografia che ancora oggi sembra rispecchiare, per grandi linee, le
direzioni di marcia dei grandi flussi dal Nord e dal Sud di antica data. A
questi insediamenti, ma sarebbe meglio dire a queste zone d'interesse, l'ondata
sovrappostasi a partire dagli anni' 60 si è caratterizzata invece con un diverso
modo di nomadizzare all'interno di tutta la penisola. Meno circoscritto,
quindi, a determinate regioni e, secondo Piasere, più caotico e generalizzato.
Questi Zingari di recente immigrazione proverrebbero, a detta di Mirella
Karpati, oltre che dalla Jugoslavia, anche dalla Romania (i Rudari) e dalla
Polonia (i Lovara)5.
Oggi, secondo Carla Osella, il numero complessivo degli Zingari in Italia
sarebbe di 60/80.000 unità. Secondo Mirella Karpati invece arriverebbero ad un
massimo di 60.000 persone, delle quali almeno 35.000 di antico insediamento nel
Sud.
È probabile che - questo è il parere di Leonardo Piasere - il numero degli
Zingari insediati nelle regioni meridionali, ma anche di quelli insediati in
altre parti d'Italia, sia superiore a quello indicato dalla Karpati e in ogni
caso un nuovo aggiornamento andrà fatto dopo gli ultimissimi arrivi dalla
ex-Jugoslavia.
Piasere ha costruito una mappa precisa della geografia zingara nel nostro
Paese, anche se avverte che «La pochezza delle ricerche svolte in Italia presso
queste popolazioni non permette nemmeno di dare un quadro rigoroso di come esse
stesse si auto-denomino».
Queste le denominazioni proposte dallo studioso (vedi le dislocazioni sulla cartina costruita
dallo stesso Piasere e rielaborata graficamente per questa pubblicazione):
- Antico insediamento: a)
Sinti piemontesi b) Sinti l0mbardi c) Sinti mucini d) Sinti emiljani e)
Sinti Veneti f) Sinti markigiani g) Sinti gackane h) Sinti estrexarja
i) Sinti
kranarja j) Sinti krasarja k) Rom abrutsezi l) Rom kalabrézi m) Romje
celentani
n) Romje bazalisk o) Romje
puljézi
- A partire dalla fine del XIX sec.:
p) Rom kalders q) Rom lovara r) Roma
curara
- Dopo la I guerra
mondiale:
s) slovénsko Roma t) h(e)rvansko Roma u) istrjani Roma o
Romine
- Arrivo
recente:
v) dassikané Roma w) xoraxané Roma x) Rumuni o Rudari y) Kaulfa -
D'origine
autoctona z) Kamminanti.
I Kamminanti sarebbero un gruppo di origine
siciliana di cui si sa molto poco.
I Rudari, chiamati anche Rumuni (rumeni), sono un gruppo particolare perché non
parlano alcun dialetto zingaro. I Kaulfa proverrebbero dall'lrak e sarebbero
giunti in Italia attraverso l'Africa del Nord, la Spagna e la Francia.
Oltre questi gruppi l'antropologo cita poi altri Nomadi che non si riconoscono
come gruppo e che viaggiano individualmente. Essi vengono chiamati dai Sinti
«Pirdi» o «Pirde».
Tra i diversi accorpamenti esistono poi relazioni di affinità o di estraneità
assai varie. I gagé farebbero parte del mondo dei Sinti più dei Rom e più dei
Roma, come, per i Roma, essi sarebbero più importanti dei Sinti e dei Rom.
Certi gruppi si distinguerebbero da altri di cui portano ]0 stesso nome con
l'aggiunta di un etonimo non zingaro che non sarebbe un vero e proprio toponimo
(es. Sinti «lombardi»), ma che farebbe invece riferimento ai rapporti stabiliti
con un determinato territorio e con la sua gente.
Qualche esempio: -
Sinti piemontesi (Piemonte) - Sinti veneti (V eneto) - Sinti estrexarja
(Austria = Osterreich) - Sinti gackane (in Sinto: Gackeno = Germania) -
Roma
hervansko (Croazia: hrvatski, agg.) - Roma xoraxané (in romané: Xoraxaj
=T
urco) - Roma dassikané (in romané: Dass =
Serbia).
Esiste poi un'altra differenziazione che in Italia riguarda
eslusivamente i Rom
Vlax (secondo la distinzione di Bernard Gilliat-Smith in vlax e non
vlax) (vlax
= valacchia). Essa si basa sulle attività lavorative originali, e oggi
per la
buona parte estinte, di determinati gruppi:
- Kalderas = calderai (dal rumeno dialettale) - lovara = commercianti di
cavalli (dall'ungherese) - curara = fabbricanti di setacci (dal rumeno).
Una diversa c1assificazione è quella fatta dall'etnologo belga Luc de Heusch,
che « ...poggia le sue argomentazioni principalmente sulla differenza tra
Zingari nomadi, che tutt'ora conducono una vita nomade, e sedentari o
semisedentari. Il de Heusc escludendo arbitrariamente questi ultimi, sostiene
che i primi si suddividono in cinque classi sociali, "rassa", come
egli le definisce, i Lovara, i Ciurara, i Kalderasha, i Matshvaya e i Sinti (o
Manosh). Tutte insieme le classi costituirebbero i Roma, i veri Zingari, e la
classificazione implicherebbe una rigida scala di prestigio e subordinazione
dal meno nobile al più nobile».
Questa ipotesi di classificazione non trova d'accordo l'assoluta maggioranza
degli ziganologi, sia per la distinzione in nomadi, sedentari e semisedentari,
e sia per la divisione in classi sociali differenti, che sembra proiettare
sull' organizzazione etnica zingara le divisioni classiste della società gagé
occidentale.
Leonardo Piasere, nel corso di un seminario tenuto all'Università di Cagliari,
ha affermato: «Il mio parere di antropologo è che la distinzione tra nomade
sedentario e zingaro non ha assolutamente senso perché non sl!iega praticamente
niente dell'organizzazione sociale delle singole comunità. E storicamente
accertato, ve lo assicuro perché l'ho accertato io, che vi sono dei gruppi che
negli ultimi cento, centocinquanta anni hanno vissuto a scadenze regolari fasi
di nomadismo e di sedentarizzazione...».
Sinti, Roma, Rom, Roma, Rom-Romje
I Sinti sono un gruppo che parla un dialetto ricco
di influenze linguistiche germaniche che rappresenterebbe il ramo meridionale
dei diversi dialetti utilizzati in una parte dell'Europa centrale. Secondo
Sergio Franzese, che ha pubblicato un glossario Sinto-Italiano, il dialetto di
alcuni gruppi Sinti corre oggi il rischio di estinguersi sotto la spinta di un
progressivo deterioramento: è questo il caso dei Sinti Piemontesi.
I Sinti, praticamente presenti in tutta l'Italia e in via di definitiva sedentarizzazione,
sono originari dei primi grandi flussi provenienti dal Nord. Tradizionalmente
hanno quasi sempre svolto attività lavorative legate in un modo o nell' altro
allo spettacolo: musicisti, acrobati, attori di piazza, ammaestratori di
animali, ballerini e giocolieri.
Fondatori di diverse dinastie circensi, hanno incontrato una grave crisi a
partire dal dopoguerra e soprattutto dal momento in cui il boom economico degli
anni '60 ha stravolto i vecchi canoni dello spettacolo: cinema, ma soprattutto
televisione, hanno via via assottigliato gli spazi e il pubblico una volta
propri delle performances di piazza.
Un altro duro colpo è venuto per i Sinti dallo svilupparsi su grande scala dei
Luna Park e dei Circhi: le nuove leggi che impongono una serie di licenze,
permessi di occupazione del suolo pubblico e altri inghippi di natura
burocratica, hanno portato alla chiusura di numerose piccole attività.
L'obbligata riconversione delle attività lavorative ha permesso ad alcuni di
continuare il proprio lavoro nell' ambito dello spettacolo, per esempio con la
gestione delle giostre, e ha costretto altri a dedicarsi ad attività del tutto
nuove, come le «chine», il commercio porta a porta di articoli di varia natura.
Mario Paschini, un Sinto giostraio, ha detto che «... come tanti altri Sin ti,
sono passato anni fa dal commercio porta a porta di piccola merceria
all'acquisto, per pochi soldi, di una giostra come questa (il
"calcio", con i sedili fissati a catene pendenti NdA). Il grosso
problema è che, per lavorare bene occorrerebbe una giostra nuova. (...) Oggi un
Sinto giostraio non può spostarsi a caso. Occorre sempre prendere contatti in
anticipo e garantire la presenza.
La libertà di spostamento è finita».
E così, con le parole di Leonardo Piasere: «La dicotomia tra periodo invernale
(sosta prolungata) e resto dell'anno (nomadismo) rimane discriminante, ma a
differenza di un tempo si tende a passare il periodo invernale nello stesso
posto, dove si ha la possibilità di riparare gli impianti e di mandare i figli
a scuola, mentre il nomadismo assume un andamento più organizzato e ordinato.
(...) la gioia del nomadismo sta per essere distrutta dal nomadismo di mestiere
anonimo, sempre più nuclearizzato e organizzato secondo i nostri canoni di
ordine».
Come lo spettacolo era l'attività tradizionale dei Sinti, così il commercio
degli equini era quello dei Roma, oggi presenti soprattutto nell'Italia del
NordEst. Altra loro attività era la questua.
L'attività del commercio è andata però estinguendosi alcuni decenni orsono,
quando il cavallo, da animale necessario soprattutto nel mondo agropastorate, è
diventato semplice prodotto da macelleria o passatempo più o meno d'élite per
le classi sociali medio-alte.
I Roma, che la Karpati ha chiamato Sinti sloveni, sono presenti anche nel
Lazio. Dediti oggi soprattutto ad attività legate al commercio, come la
compravendita di ferrame, limitano il proprio nomadismo ad aree solitamente
ristrette e aventi come basi determinate città e il loro territorio.
Ciò non può non provocare una tendenza alla sedentarizzazione. A detta di
Piasere: «Ad essere pignoli, se si dovesse descrivere con precisione la
composizione di un gruppo locale, si dovrebbe dire che esso è di solito
costituito da un insieme di famiglie imparentate in un certo modo, più uno o
due gagé (missionari, operatori sociali, insegnanti, studenti, ricercatori)
che, come le altre famiglie, sono presenti in modo più o meno fluttuante».
I gruppi Rom sono invece presenti in Italia in numero relativamente basso.
A prescindere da qualche isolato gruppo che vivrebbe in condizioni precarie
nelle baraccopoli, una gran parte di essi, i Kalderas, continua ad esercitare
l'attività del lavoro dei metalli, cercando commesse presso i ristoranti, le
mense, gli alberghi, ecc. Pare che siano ancora estremamente legati alla
tradizione e per questo motivo, per la paura cioè di smarrire la propria
identità culturale, solitamente rifiutano la scolarizzazione e tengono vivi i
rapporti tra i diversi gruppi, sottomettendosi a volte alle fatiche di estenuanti
viaggi all'estero per mantenere saldi questi
rapporti. Gli
Zingari del Meridione d'Italia, i Rom/Romje ormai sedentarizzati, sono, a
parere di molti, ancora sconosciuti. Provenienti dalla direttrice sud delle
antiche immigrazioni del XIV e XV secolo, avrebbero mutato abitudini e a volte
smarrito anche l'uso della lingua originale.
Il dialetto dei Rom calabrézi sarebbe, secondo Franzese, ormai deteriorato in
modo irreversibile. In generale le parlate degli Zingari meridionali di antico
insediamento sarebbero state influenzate considerevolmente dall' italiano
dialettale locale.
Nomadi sino a trenta, quarant'anni orsono, pare che oggi abbiano assimilato la
tendenza alla sedentarizzazione, anche se piccoli gruppi abruzzesi nomadizzano
ancora nel corso dell' estate. La realtà di questi gruppi zingari resta ancora
molto varia: c'è chi ormai abita in case ampie e confortevoli e chi vive invece
in autentici ghetti, subendo probabilmente un' emarginazione più cruenta di
quella vissuta nella fase del nomadismo. C'è chi ancora lavora i metalli, chi
commercia in cavalli, chi lavora come manovale nei cantieri edili e chi ha
scelto la strada dell'emigrazione verso le aree più industrializzate
dell'Italia settentrionale e della Germania.
I Roma, gli Zingari dell'ultima immigrazione, sono i più poveri in assoluto e
vivono situazioni al limite del razzismo più becero; spesso, più spesso di
quanto non si creda, sono malvisti anche dagli altri Zingari.
Sono presenti in Italia dalla Sicilia al Piemonte e vivono di solito nelle
baraccopoli costruite nelle più degradate periferie urbane, veri lazzaretti nei
quali i livelli di vita sono spesso al di sotto dell'umanamente sopportabile. I
Roma sono quasi tutti di origine jugoslava e sono quelli il cui nomadismo nel
nostro Paese è solitamente dettato dai ritmi scanditi dalle ordinanze di
sgombero emesse dalle amministrazioni locali.
Sono Roma gli Zingari Xoraxané e Dassikané presenti in Sardegna.
Questa classificazione e descrizione dei diversi gruppi, tratta dagli studi di
Leonardo Piasere, non è l'unica: è opportuno ricordare che altre denominazioni
sono state e sono tutt' ora utilizzate da altri ricercatori. Per esempio gli
Zingari cristiano-ortodossi provenienti dalla Serbia e dalla Macedonia, e
presenti in molte regioni d'Italia, sono chiamati anche Kanarja, anche se
questo termine, che non è un'autodenominazione, non è ben accetto da diversi
gruppi così chiamati.
Alcuni altri studiosi di «cose zingare», come 1'antropologo Claudio Marta,
notando la ormai consolidata tendenza a denominare Rom tutti gli Zingari, si è
adeguato a tale tendenza in numerosi suoi interventi.
Un difficile rapporto di convivenza
Claudio Marta, l'antropologo dell'Istituto
Universitario Orientale di Napoli che ha prodotto diversi studi sugli Zingari
Lovara, riassumendo nel corso di un convegno le politiche occidentali nei
confronti dei Nomadi, ha detto che, anche in Italia, sembra esistere una: «...
politica che sembra concedere una relativa libertà di circolazione ai Rom ma
che, per la mancanza di un serio impegno di risoluzione del problema
dell'integrazione, finisce per caratterizzarsi come cieca e, spesso,
addirittura repressi va nei confronti dei Rom».
Secondo lo studioso i problemi degli Zingari residenti nel nostro Paese sono
anche di natura giuridica e si dividono in due ordini differenti: quelli
relativi ai Rom italiani e quelli relativi ai Rom stranieri.
Gli Zingari italiani, sia quelli ancora nomadi che quelli sedentarizzati o in
via di sedentarizzazione, incontrano problemi di ogni tipo, alimentato da un
sentimento xenofobo latente nelle popolazioni italiane, che si manifesta con
l'ostruzionismo burocratico e il difficile accesso a quei diritti elementari
che la Costituzione italiana ha sancito anche per loro.
In questo senso esisterebbero difficoltà nel reperimento dell' abitazione,
nell'iscrizione anagrafica, nel diritto al lavoro, all'assistenza sanitaria, ad
un'istruzione che ne rispetti e ne valorizzi la specificità culturale di
provenienza.
Gli Zingari che hanno ottenuto delle abitazioni continuano di fatto a vivere
nell'isolamento, in una marginalità sociale ed economica che insiste a fame,
nel senso deteriore del termine, dei «diversi».
Quelli che ancora praticano il nomadismo vanno a volte incontro ad episodi
d'intolleranza simili a quelli di cui sono vittime gli Zingari di recente
ImmIgrazIOne.
La situazione di questi ultimi è però sicuramente ben peggiore. Ad essi viene
negato praticamente ogni diritto sancito sia dalle leggi italiane che dagli
accordi internazionali.
A prescindere da qualche sporadico caso verificatosi in piccoli comuni
dell'Italia meridionale, solitamente viene negata loro l'iscrizione alle liste
anagrafiche e la possibilità di sostare a lungo nei centri urbani. Sino a pochi
anni orsono, ma succede qualche volta anche oggi, era assolutamente normale che
gli organi di polizia piombassero senza preavviso nei Campi e ne ordinassero la
distruzione, allontanando in mal o modo i Nomadi dalle città.
L'ultima Legge Martelli sul permesso di soggiorno agli immigrati extracomunitari
ha peggiorato ulteriormente una situazione già di per sé difficile, nel senso
che oggi solo chi può comprovare un reddito annuo pari a quello delle pensioni
minime italiane può restare, in teoria, nel nostro Paese.
Paradossalmente gli Zingari di recentissima immigrazione, quelli provenienti
dalla ex-Jugoslavia in guerra, sono protetti dalle misure di espulsione proprio
dal conflitto che sta distruggendo i loro Paesi di origine: nessuno sinora si è
sentito di applicare rigidamente le norme e di rispedirli così nel caos.
Sui problemi di questa emarginazione così marcata agiscono in Italia diverse
Associazioni, solitamente composte da volontari, operatori sociali, insegnanti
e religiosi, che, a forza di battere e di ribattere, hanno ottenuto tra le altre
cose anche qualche provvedimento legislativo di buona fattura: diverse regioni
italiane hanno provveduto ad emanare specifiche leggi tese a tutelare 1'etnia
zIngara.
Di fatto però il rapporto Zingari-non zingari, come in passato, resta
«bloccato» su una sequenza di comportamenti destinati a perpetuarsi nel tempo e
quindi a divenire/ridivenire regola.
L'ostracismo manifestato dalle amministrazioni comunali rispecchia, una volta
tanto in un'Italia di fine secolo che vive lo scollamento tra elettori e amministratori
come un fatto culturale ormai endemico, il reale atteggiamento della gente, che
quasi sempre è poco comprensivo ed ostile.
Il problema degli amministratori diventa così più spesso non quello di come
fare per applicare le leggi, ma di come fare per non applicarle: il tutto
finalizzato a non provocare le ire dei propri elettori così poco disponibili
all'idea che parte di denaro pubblico venga investito a favore dei Nomadi.
L'arte della gestione della cosa pubblica si esprime in questo caso in modo spettacolare
e furbesco.
Da una parte si mantengono sufficienti rapporti con le Associazioni che
tutelano i Nomadi, delegando questi rapporti agli organi di assistenza sociale
e magari finanziando progetti di tipo culturale (convegni, progetti educativi,
mostre artigianali) o attrezzando punti sosta ben al di fuori dei centri
abitati. Il tutto dando grande risalto a queste iniziative marginali e
assicurandosi così i fasti della politica spettacolo.
Dall'altra parte si utilizza l'abnorme groviglio legislativo-burocratico
italiano (con competenze che vanno dagli uffici tecnici comunali a quelli dell'
anagrafe, dalle USL ai Vigili Urbani, dalle Camere di commercio agli Uffici
«stranieri» delle questure) per impedire di fatto una vita di relazione che non
sia improntata sull' emarginazione più abietta.
L'Italia resta il Paese dove si possono pubblicare mille libri sugli Zingari,
dove si possono organizzare mille convegni, mille seminari all'interno delle
Università, mille trasmissioni televisive e mille mostre artigianali, ma è
anche il Paese nel quale uno Zingaro non riesce ad ottenere il permesso di
soggiorno, l'iscrizione anagrafica, l'assistenza sanitaria, la licenza di
commercio, il permesso di fermarsi dove, come e per quanto tempo vuole in una
qualsiasi locali. È questo è possibile proprio perché il rapporto tra i gagé e
gli Zingari, checché se ne dica, è ancora un rapporto di guerra, mediato certo
dalla presenza del volontariato religioso e laico, ma pur sempre un rapporto di
guerra.
Ciò che gli Zingari dicono, chiedono e fanno non è accettato dalla nostra gente
e ciò che la nostra gente dice, chiede e fa, non è accettato (come potrebbe?)
dagli Zingari.
In questa reciproca estraneità, alimentata da sei secoli di fobie, pregiudizi e
persecuzioni, ma anche da una marginalità economica di nuovo tipo che
probabilmente sta ridisegnando la vita nomade nelle società post-industriali,
il futuro di questo popolo appare sempre più incerto e problematico.
Appendice: intervista a Leonardo Piasere
Il prof. Leonardo Piasere, antropologo, è uno dei
maggiori conoscitori della vita zingara in Italia. Una conoscenza che non si è
evoluta a tavolino ma che è iniziata all'interno dei Campi, dove, allora
giovane studente, visse con gli Zingari la loro stessa vita e conobbe di prima
mano usi, costumi e tradizioni spesso vietate agli occhi degli estranei.
Questa intervista, rilasciata a Dafne Turillazzi per la trasmissione
radiofonica Ethnos, trasmessa da Radio Sardegna, è stata da egli stesso rivista
e adattata per la pubblicazione in La terza metà del cielo.
Prof. Piasere, direi di iniziare questo breve viaggio tra i popoli nomadi
illustrando innanzi tutto che cosa comprende, comunemente, il termine
"Zingari", ossia quante comunità esistono e, per quanto riguarda
l'Italia, dove esse sono dislocate...
Questa è la classica domanda a cui è molto difficile
rispondere, perché il termine "zingaro" è un termine che viene dato
dall'esterno ad un insieme di popolazioni e, dal momento che le popolazioni
così denominate normalmente non accettano questo termine, il suo uso è
questione di convenzione. Un po' come usare il termine "crucchi" per
le popolazioni del Nord Europa. Chi sono i "crucchi"? Sono un
'insieme di popolazioni che noi definiamo così. Ma dal momento che il termine
ha una connotazione negativa, gli interessati, di norma, non vogliono essere
definiti in questo modo.
Molto in generale, si può dire che quelli che noi chiamiamo Zingari comprendono
un insieme di popolazioni parlanti lingue di origine neo-indiana e un insieme
di popolazioni non parlanti lingue di origine neo-indiana. Questi due grandi
insiemi condividono caratteristiche di vita particolari. Caratteristiche
segnate per esempio dal nomadismo, in certe regioni d'Europa, e da altri tratti
culturali in altre regioni. Perché una caratteristica da sottolineare, in
quelli che noi chiamiamo Zingari, è che essi sono per la stragrande maggioranza
sedentari e non nomadi.
Quindi avrebbero abbandonato la caratteristica
fondamentale dello spostamento?
E' difficile dire se abbiano abbandonato o se
abbiano sempre praticato il nomadismo. Sta di fatto che oggi non sono nomadi,
ed è molto difficile dire se un tempo lo siano stati.
Tornando alla domanda iniziale, brevemente, possiamo
schematizzare a grandi linee quali sono queste comunità? Noi conosciamo
maggiormente i Rom, perché li conosciamo direttamente. Poi immagino che ve ne
siano molte altre...
Sì. Le comunità Rom, tra quelle che noi chiamiamo
zingare, sono senz'altro le comunità più numerose in tutta Europa. Sono
concentrate soprattutto nell'Est Europa, oltre la linea immaginaria che va da
Roma a Helsinki. Nella parte occidentale d'Europa abbiamo comunità che si
definiscono altrimenti, come ad esempio i Sinti, i Manus, i Kalé della Spagna o
del Galles (questi ultimi in via di estinzione). All'interno dell'Europa
occidentale ci sono anche popolazioni che non parlano lingue neo-indiane, come
ad esempio i Voyageurs francesi, gli Jenis tedeschi, i Minceir irlandesi, i
Tattaren della penisola scandinava, che pure sono considerati "Zingari"
dalle popolazioni locali. Nella letteratura specializzata degli ultimi anni è
invalso l'uso di denominare "Zingari" solo le popolazioni che si
ritengono originarie dell'India e "Viaggianti"solo quelle di origine
autoctona. Ma una netta divisione è spesso impossibile da stabilire.
Per quanto riguarda la religione, qual è quella più
sviluppata tra i Nomadi?
La caratteristica principale degli Zingari è che
normalmente adottano la religione delle popolazioni non zingare fra cui vivono.
Per cui nei Paesi musulmani, come in certe regioni dei Balcani, essi sono
musulmani (gli Zingari della Bosnia, della Macedonia e del Kosovo) e restano in
sintonia con le religioni dominanti in quei territori. Nel Nord Europa sono
protestanti, in Serbia sono ortodossi, in Italia, i Spagna e in Francia sono
cattolici e così via. Da segnalare che negli ultimi anni ha preso piede la Chiesa
Evangelica, che sta facendo adepti zingari un po' ovunque in Europa.
Una suddivisione importante tra le varie comunità di
Nomadi credo sia, oltre quella religiosa, anche quella basata sulla ricchezza,
cioè sulle risorse economiche degli Zingari. Possiamo spiegare quali comunità
sono più o meno ricche? Il perché e quali valori comprendono la povertà o la
ricchezza delle comunità? Quelle più ricche si avvicinano maggiormente ai
nostri valori di vita oppure mantengono intatte le loro caratteristiche, anche
se in condizioni economiche diverse?
Non credo che si possa stabilire un confronto in
questo senso. E le spiego
subito il perché. Da noi la ricchezza e il benessere sono collegati
all'appartenenza ad una classe sociale. Fra gli Zingari non esistono le classi
sociali come noi le intendiamo. Le uniche distinzioni all'interno delle
comunità sono quelle tra i sessi, tra maschi e femmine, e un po' meno quelle
relative alle diverse età. Vi possono essere comunque degli Zingari più ricchi
o più poveri, ma la ricchezza o la povertà sono sempre congiunturali, causate
dal momento, perché i modelli di distribuzione delle risorse all'interno delle
comunità seguono canali egualitari. Per cui quando vi è accumulazione di
ricchezza all'interno di una famiglia il tentativo non è quello di consumare
quanto accumulato al suo interno, ma di distribuirlo. Per cui lo Zingaro oggi
ricchissimo, all'indomani può essere veramente povero e vi assicuro che spesso
succede veramente così...
Noi ad esempio, qua a Cagliari, abbiamo visto poco
tempo fa l'arrivo dei Lovara, molto ricchi rispetto agli Zingari che siamo
abituati a vedere nelle nostre periferie, cioè i Rom...
Che ci siano dei gruppi che attuino delle strategie
verso l'esterno più efficienti dal punto di vista del guadagno personale è
senz'altro vero. D'altra parte i confronti tra Zingari ricchi e Zingari poveri
intersecano parzialmente i confini dei gruppi. E vero quindi che i Lovara, a
partire dagli ultimi venti, trent'anni, sono riusciti ad arricchirsi, anche se
il discorso forse non vale per tutte le famiglie. Ciò è successo perché ad un
certo punto sono riusciti a praticare strategie economiche vincenti.
Sono cambiati i loro valori di vita, in rapporto a
questa maggiore ricchezza?
Dipende dalle comunità. In certe comunità sì, in
altre no. E' difficile generalizzare da questo punto di vista. Comunque,
normalmente, diciamo a livello statistico, quello che conta è la singola
comunità. Ma soprattutto ciò che conta è che all'interno delle comunità non si
creino disuguaglianze, perché la tensione principale è quella di mantenere
un'uguaglianza che non permetta la formazione di capi veri e propri.
Comunque, all'interno delle comunità, i capì ci
sono?
Non ci sono capi all'interno della comunità. Ci sono
certo dei leaders che possono essere considerati più prestigiosi degli altri,
ma il loro prestigio dipende dalle proprie singole capacità. Non sono investiti
di potere da parte della comunità, questo no, assolutamente...
In questo discorso che ruolo ha l'anziano? E'
considerato di più rispetto ai giovani?
Sì, l'anzianità normalmente ha più prestigio. Ma
l'anziano che fa degli errori perde il proprio prestigio. Voglio dire che
dipende sempre dai comportamenti reali.
Nella famiglia nucleare, che è sempre spinta all'autonomia, il prestigio viene
conquistato dal capofamiglia per quello che realmente fa in realtà e non tanto
perché riesce ad imporre la propria volontà su altre persone.
Mi sembra di capire che in questa sua situazione in
pratica acquista più autonomia e potere decisionale. Da questo punto di vista
le donne hanno possibilità di emancipazione all'interno della famiglia? Di
potere decisionale?
Bisogna vedere come s'intende il termine
"emancipazione". C'è il rischio di voler trapiantare i nostri valori,
i nostri concetti, in situazioni un diverse. Che all'interno delle comunità
zingare vi sia una divisione tra i gruppi maschile e femminile, è certo. Più o
meno tutti i gruppi zingari presentano questa grande dicotomia. Che i maschi
adulti abbiano da questo punto di vista più potere delle donne, è anche questo
sicuro. All'interno della famiglia il ruolo della donna è però fondamentale,
importante dal punto di vista della conduzione familiare. In tanti gruppi sono
di fatto le donne di famiglia, le mogli, che danno le direttive di azione,
anche se ufficialmente, per l'esterno, è sempre il maschio che fa la figura del
capofamiglia. Molto spesso vi sono delle forti personalità, senza che questo
porti a quel fantomatico matriarcato degli Zingari che qualcuno ha voluto
vedere.
Che rapporti hanno i Nomadi con la città? I nomadi
accampati nelle periferie? Rispetto anche ai valori che si possono assimilare
dalla città?
Normalmente, per gli Zingari, i non zingari circostanti
costituiscono grosso modo l'ambiente su cui operare. Il fenomeno
dell'urbanizzazione degli Zingari, intensificatosi in molti Paesi dell'Europa
occidentale egli ultimi quaranta, cinquant'anni, ha seguito grosso modo il
fenomeno dell'urbanizzazione della popolazione non zingara. Quindi, da questo
punto di vista, non possiamo dire che il rapporto tra Zingari e non zingari sia
cambiato. E' cambiato soltanto semmai, in rapporto alle condizioni di vita sia
degli uni che degli altri: tutti si sono inurbati con un'azione intensiva.
Ci sono dei casi di Zingari e famiglie zingare che si sono inurbate e vivono in
modo tranquillo, e ci sono casi di famiglie e di comunità di Zingari che si
sono inurbati in modo non tranquillo, ad esempio nelle periferie desolate delle
nostre città, così come è avvenuto per i non zingari.
Lei ha vissuto per alcuni anni all'interno di vari
Campi nomadi. Ci vuole raccontare la sua esperienza? Come si è svolta? Ha
incontrato problemi? E' stato accettato subito?
La mia esperienza si è sviluppata soprattutto presso
due diversi gruppi, in un gruppo di Roma xoraxané e in un gruppo di Roma
sloveni, cioè proveniente dalla Slovenia ma che vivono in Italia.
I due gruppi sono molto diversi dal punto di vista sociale e culturale. I
Xoraxane sono un grande gruppo venuto in Italia dal Sud della Jugoslavia a
partire dagli anni '60. Quando io sono entrato nella comunità alla fine degli
anni '70, e sono andato a vivere con loro, erano da poco in Italia: quindi
avevano problemi di tipo linguistico e giuridico. I Roma sloveni invece sono
qui da una cinquantina di anni, sono già più o meno alla terza generazione di
residenti in Italia e non avevano più questi problemi. I primi sono di
religione musulmana, i secondi cattolica.
I primi attuano strategie economiche che da noi sono considerate illegali,
soprattutto la mendicità infantile e femminile, i furtarelli etc., quindi hanno
sempre problemi di contatti e di scontro con le istituzioni e le autorità. I
secondi attuano invece strategie economiche già molto più accettate. Sono
commercianti di ferro vecchio, di macchine usate, e un tempo facevano i
commercianti di cavalli. Oggi alcuni sono ancora commercianti, ma di cavalli da
corsa. Questi secondi rappresentano un esempio di adattamento senz'altro più riuscito
o perlomeno più tranquillo. Il fatto che essi siano commercianti non significa
però che riescano ad essere sempre in regola, perché per loro è sempre molto
difficile ottenere le licenze di commercio, per cui si può dire che anche loro
sono fuorilegge sotto molti punti di vista. Hanno comunque dei rapporti di tipo
diverso con i non zingari circostanti.
Per parlare del mio ingresso in queste due comunità bisogna tenere presente una
situazione più ampia. Le situazioni molto diverse delle due comunità hanno
portato ad un inserimento di tipo completamente diverso. Sono stato molto ben
accettato dai primi, che non avevano problemi di chiusura verso l'esterno e
anzi ricercavano in, qualche modo degli "amici" fra i non zingari
italiani. Per gli altri invece, che godevano di una certa floridezza economica
e che tutto sommato si erano ben impiantati, e che quindi non avevano il
problema di cercare "amici" all'esterno, il mio inserimento non è
stato molto tranquillo.
Quali sono stati i problemi iniziali fra i Roma,
considerato anche che lei stava lavorando?
Non è che ci siano stati veri problemi, che ti
dicano: "no, non ti vogliamo " Perché questo non si dice chiaramente
al non zingaro. Però nel momento che tu sei accampato fra loro si fa soltanto
pesare la tua presenza, non ti si avvicina, ti si lascia solo. In questo modo,
dopo alcune settimane di questa vita, uno è triste...
Lei si è adeguato completamente ai loro modi di
vita, nel periodo in cui è vissuto con loro?
Sì. Ho tentato perlomeno...
Questo le ha causato dei problemi?
Certo, lo shock culturale c'è sempre per un
ricercatore...
Non era quindi una ricerca a tavolino?
No, assolutamente. D'altra parte gli antropologi che
fanno ricerca col metodo dell'osservazione partecipante conoscono bene il
problema dello shock culturale del ricercatore: è lui che si deve adattare alla
comunità. E non è sempre facile, ci vuole del tempo.
Qual è stata la realtà all'interno dei Campi che
l'ha segnata maggiormente, come sua sensazione od emozione personale?
In tutte e due le comunità quello che ho vissuto di
più, quello che in qualche modo si è incarnato in me, è il senso della
solidarietà interna. Nonostante a volte tra le famiglie possano esservi dei
litigi, discussioni di tutti i giorni, c'è un gran senso della solidarietà
interna, un senso che noi non conosciamo assolutamente e che si manifesta in
mille modi; per esempio tutti sono disposti ad aiutarti nel momento in cui tu
hai bisogno. Ad esempio, nel momento in cui io sono stato accettato, ero di
fatto mantenuto da loro, perché non avevo borse di studio, non avevo soldi, non
avevo niente di mio. Io praticamente sono stato mantenuto da loro. Poi ho
cominciato a fare il loro mestiere, che mi hanno insegnato. Poi ho cominciato a
conoscere la loro rete di clienti, e così via.
A parte il valore della solidarietà, come sono
vissuti valori come "amore" e "fedeltà", rispetto a come
sono vissuti da noi?
L'amore tra marito e moglie, tra ragazzi e ragazze?
Anche qui le manifestazioni esterne variano da comunità a comunità, da gruppo a
gruppo. Comunque è un valore che è sentito moltissimo; certo, la visione della
Zingara focosa, ben disponibile verso il non zingaro, è veramente una visione
romantica. L'adulterio femminile, anche se la situazione varia da comunità a
comunità, resta un caso fuori dalla norma. La fedeltà ha un valore molto
sentito soprattutto da parte delle donne; anche qui, come da noi, grosso modo
l'ideologia che possiamo chiamare maschilista è certamente presente.
Che importanza hanno per i Nomadi la festa, la
musica e la danza. Sono tutt'ora "vive" anche tra quelle comunità
urbanizzate?
Direi che anche qui non si può generalizzare, perché
non tutti gli Zingari sono abili suonatori, come vuole il cliché dello Zingaro
normalmente riconosciuto in Italia. In Italia sono pochi i gruppi in cui,
soprattutto gli uomini, fanno i suonatori di professione. Comunque la festa, il
momento della festa, è sentito da tutti. Perché la festa è la manifestazione
verso l'esterno della coesione interna ed è il momento di massima apertura di
una comunità. Nelle feste degli Zingari i non zingari sono sempre ben accolti.
Le feste di solito cosa celebrano?
Dunque, dipende come sempre da comunità a comunità...
Si festeggiano, per esempio, i compleanni? Al di là
delle feste religiose?
No, solitamente. Anche se alcuni gruppi hanno
cominciato a farlo da un decennio. Ma non sono molto importanti. Normalmente
gli Zingari festeggiano, né più né meno, le occasioni rituali che assumono
dalle popolazioni circostanti. Ad esempio certi Xoraxané che vengono dal Sud
della Jugoslavia festeggiano il San Giorgio, la grande festa del Maggio. Il San
Giorgio è una festa molto importante nei Balcani, perché San Giorgio è l'unico
santo che è venerato dai cattolici, dagli ortodossi e dai musulmani. I Rom Kalderas
presenti nel Nord, ma più o meno sparpagliati in tutta Italia, festeggiano la
Slava, che è una festa familiare adottata dai Serbi ortodossi.
I Rom cattolici normalmente festeggiano come noi, né più né meno, il Natale e
la Pasqua, dando più importanza (penso ancora ai Roma sloveni) al Capodanno,
che per loro è più importante del Natale. Ossia festeggiano le nostre feste, ma
ne reinterpretano la funzione.
Generalmente noi siamo abituati a considerare la
magia dei Nomadi come frettolose e occasionali "letture" della mano.
Invece vorrei sapere se, proprio all'interno del gruppo, si pratica o comunque
si crede alla magia, al soprannaturale.
E' sempre difficile fare una distinzione netta tra credenze magiche e
religiose. Quindi io rubricherei questa domanda in credenze magico-religiose.
Tutti gli Zingari che io ho conosciuto sono ferventi credenti, il che non
implica che siano credenti come noi vorremmo o come qualcuno di noi vorrebbe.
Tutti credono in esseri o potenze soprannaturali, tutti, siano essi cattolici,
musulmani o ortodossi. Presso molti gruppi vi è la credenza su quello che loro
chiamano il "rispetto" per i morti. Per cui attuano comportamenti
tesi a salvaguardare la memoria di un morto, e questo può comprendere il non
pronunciare più il suo nome, il bruciare la carovana appena uno muore, il non
mangiare più il piatto preferito del morto, ecc. L'insieme di queste credenze e
pratiche caratterizza e distingue le singole comunità le une dalle altre.
Ho parlato con dei Nomadi che raccontavano della
"lettura" del caffè...
Sì, questa è una pratica comune ai gruppi provenienti dal Sud della Jugoslavia.
La "lettura" del caffè è comune anche fra i non zingari del Sud della
Jugoslavia.
In conclusione vorrei che lei ci desse un giudizio
sulle molteplici rappresentazioni degli Zingari nel cinema e nella letteratura.
Secondo lei sono espressioni puramente folkloristiche, queste, che quindi
mistificano un po' ciò che è la vera anima del popolo nomade, oppure possono
essere considerati lavori attendibili e non banalmente oleografici?
Sinteticamente: potrei dire che il 99% della
produzione artistica e letteraria ci mostra uno zingaro stilizzato, che non ha
assolutamente niente a che fare con la realtà zingara. Vi sono però alcune
opere in cui gli autori hanno cercato di rappresentare la realtà pur tenendo
presente la vena artistica. Penso per esempio all'ultimo film di Kusturiza: la
realtà che lui ha tentato di descrivere si avvicina molto alla realtà
"vera".
Invece queste forme stilizzate, come lei ha detto
prima, in che cosa consistono?
Consistono in un amalgama di stereotipi negativi e positivi di forma un po'
ameboide, diciamo così, che si tramandano nella letteratura occidentale di
generazione in generazione a partire dal '400. Ad esempio la Zingara che legge
il futuro, quando non sono tante le comunità in cui le Zingare effettivamente
leggono il futuro; lo Zingaro sporco e ladro, stereotipo negativo; oppure lo
Zingaro amante della libertà e Figlio del Vento, quando è molto difficile dire
che gli Zingari siano "figli del vento", liberi come il vento. Voglio
dire che la libertà individuale all'interno della comunità certo c'è, ma, nella
comunità, l'importante è la coesione interna: vi è sempre la ricerca
dell'unanimità.
Sempre a questo proposito, volevo chiederle se la
concezione di vita, la scansione del tempo ai ritmi della filosofia di vita,
alla libertà che abbiamo appena nominato, si differenzia e in cosa dalla
nostra? Abbiamo parlato di libertà, di una mitica libertà che forse, tutto
stimato, non esiste?
La libertà non esiste? No. Per loro la libertà
esiste nel momento in cui continua la distinzione tra Zingari e non zingari.
Ciò significa che tutte le attività di una comunità sono tese al mantenimento
della comunità stessa. La libertà è questa, il fare, come dicono loro, romané e
non gagikané, da Zingari e non da non zingari. All'interno di questa filosofia
c'entra naturalmente la visione del tempo, che è particolare. Un tempo che non
è scandito da tappe precise come normalmente da, noi è scandito.
In che senso? A parte magari il fatto che noi
possiamo tenere la nostra agenda, con i nostri appunti, con i nostri orari e
appuntamenti, in che consiste questa differenza?
Consiste in questo: ogni persona vuole essere padrona
del proprio tempo, di amministrare la propria giornata. Il che implica
normalmente che cosa? Il rifiuto del lavoro salariato, ad esempio. Perché tutti
gli Stati hanno avuto problemi nei loro tentativi di proletarizzare gli
Zingari? Dal momento che il lavoro salariato impone un ritmo che
"ruba" il tempo, gli Zingari non l'hanno mai accettato o l'accettano
sporadicamente e soltanto temporaneamente. In Italia questo fenomeno è
generalizzalo. Studi condotti nell'Europa dell'Est su Zingari proletarizzati a
forza dalle autorità, dimostrano che questa tensione al mantenimento della
padronanza del proprio tempo persiste. Le tattiche messe in pratica sono
diverse, prima fra tutte quella dell'assenteismo, ossia quello che dai non
zingari è considerato assenteismo.
Come considera, da un punto di vista culturale, i
tentativi di alcune associazioni di solidarietà di trovare un posto di lavoro
ai Nomadi?
Dipende. Se questi tentativi vengono fatti insieme
agli interessati, va bene. Perché bisogna sempre partire da questo. Bisogna
vedere poi se gli interessati chiedono un posto di lavoro per far piacere agli
amici delle associazioni, oppure se ci credono veramente. Le convinzioni sul
lavoro salariato, ma anche qui non bisogna generalizzare, variano. Perché so
che tanti gruppi del Sud della Jugoslavia, abituati negli ultimi decenni ad
avere un minimo di lavoro salariato, lo accettano abbastanza volentieri. Altri
meno. Quello che io penso sia più consono per loro fare, o proporre, sarebbe di
agevolare al massimo l'ottenimento delle licenze di commercio. Perché lo
Zingaro, normalmente e prima di tutto, è un commerciante. Questo è lo
Zingaro...
Per quanto riguarda il recupero della materia prima
esistono dei problemi? Per esempio il costo del rame?
Sì e no, nel senso che se uno Zingaro decide
veramente di fare il lavoro di sbalzare il rame, lo compra, lo cerca. Se lo
vuole veramente fare. Ma il problema è che non bisogna esagerare l'importanza
dell'artigianato. Io vedo tante associazioni che a volte, per difendere gli
Zingari nei confronti dei non zingari, caricano l'importanza dell'artigianato
all'interno delle comunità. Anche i gruppi che fanno artigianato privilegiano
non tanto il lavoro dei metalli, ma lo smercio del proprio lavoro. Un valore
diverso. Perché la tendenza è sempre quella di porsi come dei partners
commerciali nei nostri confronti. Questa filosofia economica può anche
sconfinare da un lato in attività illegali per noi, o, dall'altro, in attività
che sono vissute come illegali da loro. Ad esempio il lavoro salariato. Perché
per molti di loro vendere la propria forza lavoro è considerato alla stregua di
essere derubati dagli altri, dai non zingari.
E' tutto relativo, quindi...
Ah, guardi, le assicuro che se si guarda il mondo
dal punto di vista di una comunità zingara, ci si accorge che tutto è davvero
relativo.
Appendice: gli oggetti tradizionali dei Romà
Khorakhané
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