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Lunario dei giorni di scuola


Appendice diciannovesimo

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Lo Jefes

di

Mario Vargas Llosa

 

Javier anticipò di un attimo.
- Campanello! - gridò, già in piedi.
La tensione si spezzò, violentemente, come un'esplosione. Eravamo tutti alzati: il dottor Abàsalo aveva la bocca aperta. S'imporporava, serrando i pugni. Mentre, riprendendosi, sollevava una mano e sembrava sul punto di lanciare un sermone, il campanello suonò davvero. Uscimmo di corsa con strepito, eccitati, aizzati dal gracchiare di corvo di Amaya, che avanzava scompigliando i banchi.
Il cortile rimbombava di grida. Quelli di quarta e di terza erano usciti prima, formavano un gran cerchio che fremeva sotto la polvere. Quasi insieme a noi, arrivarono quelli di prima e di seconda; portavano nuove frasi aggressive, altro odio. Il cerchio aumentò. Lo sdegno era unanime nelle medie. Le elementari avevano un cortile piccolo, a mosaici azzurri nell'ala opposta della scuola .
- Vuole fregarci, il serrano.
- Si'. Che vada all'inferno.
Nessuno parlava degli esami finali. Lo sfolgorio delle pupille, lo schiamazzo, lo scandalo indicavano che era arrivato il momento di affrontare il preside. All'improvviso, smisi di sforzarmi di trattenermi e cominciai a girare febbrilmente fra i gruppi: - Ci frega e stiamo zitti? Bisogna fare qual­cosa! Bisogna fargli qualcosa!
Una mano ferrea mi tirò via dal centro del cerchio.
- Tu no, - disse Javier. - Non immischiarti. Ti espellono. Lo sai.
- Adesso non me ne importa. Me le pagherà tutte. E' la mia occasione, vedi? Facciamoli mettere in fila.
Facemmo il giro del cortile ripetendo a bassa voce, di orecchio in orecchio: - Mettetevi in fila!In fila, in fretta!
- Mettiamoci in fila! - Il vocione di Raygada vibrò nell'aria soffocante del mattino.
Molti, contemporaneamente, fecero coro:
- In fila! In fila!
I sorveglianti Gallardo e Romero videro allora, stupefatti, che il chiasso cessava subito e si organizzavano le file prima della fine della ricreazione. Erano appoggiati al muro, vicino alla sala dei professori, di fronte a noi, e ci guardavano nervosamente. Poi si guardarono fra loro. Sull'uscio erano apparsi alcuni professori; anche loro erano sbigottiti.
II sorvegliante Gallardo s'avvicinò:
- Ascoltate! - gridò sconcertato. - Ancora non...
- Zitto - rispose qualcuno, da dietro. - Sta' zitto, Gallardo, finocchio!
Gallardo divenne pallido. A grandi passi, con un gesto minaccioso, si scagliò fra le file. Alle sue spalle, parecchi gridavano: - Gallardo, finocchio!
- Marciamo, - dissi. - Giriamo intorno al cortile. Prima quelli di quinta.
Cominciammo a marciare. Battevamo i tacchi con forza, fino a farci male ai piedi. Al secondo giro - tracciavamo un rettangolo perfetto, che combaciava con le dimensioni del cortile - Javier, Raygada, Leon e io demmo il via: - Gridate:            

           o-ra-rio; o-ra-rio; o-ra-rio ...

II coro si fece generale.
- Più forte! - proruppe la voce di qualcuno che io odiavo: Lu. – Gridate!
Immediatamente, il vocio aumentò fino ad assordare.
- O-ra-rio; o-ra-rio; o-rario...
I professori, cautamente, erano scomparsi chiudendo dietro di sé la porta della sala. Mentre quelli di quinta passavano vicino all'angolo dove Teobaldo vendeva frutta sopra un'asse, disse qualcosa che non capimmo. Agitava le mani come per incoraggiarci. «Porco» pensai.
Le grida s'ingagliardivano. Ma né il ritmo della marcia, né lo stimolo e gli urli, bastavano a nascondere che eravamo spaventati. Quell'attesa era snervante. Perché tardava a uscire? Simulando ancora coraggio, ripetevamo la frase, ma avevamo cominciato a guardarci l'un l'altro e s'udiva, di tanto in tanto, qualche risata forzata. «Non devo pensare a niente, - mi dicevo. - Non ora.» Facevo già fatica a gridare: ero rauco e mi bruciava la gola. All'improvviso, quasi senza rendermene conto, guardavo il cielo: inseguivo un avvoltoio che planava dolcemente sulla scuola, sotto una volta azzurra, tersa e profonda, illuminata da un disco giallo a un lato, come un neo. Abbassai la testa, rapidamente.
Piccolo, livido, Ferrufino era apparso in fondo al corridoio che dava suI cortile della ricreazione. I passetti brevi e cionchi, come da papero, che l'avvicinavano, interrompevano abusivamente il silenzio che aveva regnato all'improvviso , sorprendendomi. (La porta della sala dei professori si apre: spunta una faccia minuscola, comica. Estrada vuole spiarci: vede il preside a pochi passi: velocemente, scompare; la sua mano infantile chiude la porta.) Ferrufino era davanti a noi, scrutava con gli occhi fuori dalle orbite i gruppi di studenti ammutoliti. S'erano spezzate le file: certuni corsero ai gabinetti, altri giravano disperatamente intorno al banchetto di Teobaldo. Javier, Raygada, Leon e io restavamo immobili.
 - Non abbiate paura - dissi, ma nessuno mi udì perché contemporaneamente il preside aveva detto:
- Suoni il campanello, Gallardo.
Si formarono di nuovo le file, questa volta con lentezza.    Il caldo non era ancora eccessivo, ma s'impadroniva già di noi  un certo sopore, una specie di tedio. - Si sono stancati, - mormorò Javier . - Brutto segno. - E avvertì, furente: - Attenzione a chi parla.
Altri sparsero l'avviso.
 - No, - dissi. - Aspetta. Diventeranno come belve appena comincerà a parlare Ferrufino.
Ci furono alcuni secondi di silenzio, di sospettosa gravità, prima che ci azzardassimo ad alzare lo sguardo, uno per uno, verso quell'ometto vestito di grigio. Stava con le mani incrociate sul ventre, i piedi uniti, tranquillo.
Non voglio sapere chi ha iniziato questo tumulto, - recitava. Un attore: il tono della sua voce, flemmatico, dolce, le parole quasi cordiali, la sua posizione da statua, erano accuratamente affettate. Aveva fatto le prove da solo, nel suo ufficio? - Atti come questo sono una vergogna per voi, per la scuola e per me. Ho avuto molta pazienza, troppa, ascoltate bene, col promotore di questi disordini, ma ha toccato il fondo...
 Io o Lui? Un' interminabile e avida lingua di fuoco mi lambiva la schiena, il collo, le guance a mano a mano che gli occhi di tutte le medie si giravano fino a localizzarmi. Mi guardava Lu? Provava invidia? Mi guardavano i pivelli? Da dietro, qualcuno mi strinse il braccio due volte, per farmi coraggio. il preside parlò a lungo di Dio, della disciplina e dei valori supremi dello spirito. Disse che le porte della direzione erano sempre aperte, che i veri coraggiosi dovevano mostrare il volto.
- Mostrare il volto, - ripeté: adesso era autoritario. - Ossia, parlare di fronte, parlate a me.
- Non fare l'imbecille! - dissi, in fretta. - Non fare l'imbecille.
Ma Raygada aveva già alzato la mano nello stesso tempo che faceva un passo a sinistra, uscendo dalla squadra. Un sorriso compiacente solcò le labbra di Ferrufino e scomparve immediatamente.
- Ascolto, Raygada... - disse.
A mano a mano che questi parlava, le parole gli infondevano vigore. Arrivò perfino, a un certo punto, ad agitare le braccia, drammaticamente. Affermò che non eravamo cattivi e che amavamo la scuola e i nostri maestri; ricordò che la gioventù era impulsiva. A nome di tutti, chiese scusa. Poi farfugliò, ma continuò ancora:
 - Noi le chiediamo, signor preside, di mettere gli orari delle interrogazioni come gli anni scorsi... - Tacque spaurito.
- Prenda nota, Gallardo, - disse Ferrufino. - L'alunno Raygada verrà a studiare la prossima settimana, tutti i giorni, fino alle nove di sera, - fece una pausa. -  II  motivo  figurerà  sulla  pagella:   per essersi  ribellato  a  una disposizione pedagogica.




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