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Lunario dei giorni di scuola


Appendice ventesimo

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Gli anni della nostalgia

Kenzaburo Oe

Garzanti

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Ora voglio parlarvi di un’altra mia preoccupazione dell’epoca, la più grande: l’evoluzione della guerra. La guerra era ormai nella fase finale e non sembrava potesse aspettare che io crescessi abbastanza per andare al fronte. Si parlava dello spostamento del fronte su territorio metropolitano per la battaglia decisiva. Se questo si fosse verificato, i cacciabombardieri B29 sarebbero entrati dal lato del Pacifico, avrebbero superato la catena di montagne che divideva in due lo Shikoku e sarebbero arrivati fino alla città di Matsuyama. In seguito il nemico avrebbe raggiunto persino questa parte più profonda della foresta e, a questo punto, avremmo dovuto affrontarli con le lance di bambù. Cosa sarebbe successo alla foresta? Sarebbe andata completamente a fuoco sotto i bombardamenti? Questa era la mia preoccupazione più grande. Un giorno, poco prima della fine della guerra, la nostra maestra, seguendo le indicazioni del direttore della scuola, che era seduto al suo fianco, fece a ognuno di noi una domanda. La fisionomia della maestra, dai tratti molto infantili, col passare del tempo si è affievolita nella mia mente, lasciandomi nella memoria solo qualche espressione particolare. Ma quella del direttore, con la divisa popolare, mi è rimasta così profondamente scolpita nella mente, che ancora oggi compare nei miei incubi, con la sua testa simile alla punta arrotondata di un palo di legno, con i capelli a spazzola attraversati da una striscia bianca e i capillari gonfi che coprivano i bulbi oculari sporgenti. «Quando ci sarà la battaglia decisiva sul nostro territorio», ci chiese la maestra, «se Sua Maestà l’Imperatore ti darà l’ordine di morire, cosa farai?». La risposta ci era stata insegnata in precedenza. Infatti, dette la risposta giusta persino il bambino più ottuso della classe, quello che quando tutti giocavano non faceva altro che borbottare e restarsene in disparte a osservare con gli occhi rossi pieni di cispa. «Morirò! Morirò! Farò harakiri!». Un bambino rifugiato da Kōbe, di carnagione scura e dai lineamenti ben marcati disse: «Morirò combattendo! E se dovessi sopravvivere, farò harakiri!». La sua risposta razionale mi colpì positivamente, nonostante fino al quel momento non mi fosse stato granché simpatico. Quando toccò a me, invece, in piedi davanti alla predella della cattedra tutta rovinata, non riuscii a fare altro che arrossire e rimanere in silenzio con aria impacciata. Gli occhi della maestra ben felici e soddisfatti della risposta del bambino che era andato alla cattedra prima di me, in un attimo diventarono freddi. A questo punto si verificò quello che già tante volte si era verificato in precedenza: il direttore si alzò lentamente dalla sedia di legno: «Sempre tu!», gridò con voce squillante ed eccitata, scosse ripetutamente le spalle per riscaldarsi e si mise in posizione di guardia. Quello stesso giorno, mi recai, come al solito, alla villa di Gii. Tenevo la testa ostinatamente bassa, avevo vergogna di mostrare la mia faccia rossa e gonfia per i venti pugni che il direttore mi aveva assestato,

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