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Lunario dei giorni di scuola


Appendice trentaduesimo

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Le sorelle Materassi

Aldo Palazzeschi

 

A questo punto tacque, la direttrice, e si mise a guardare giù in fondo, più giù… ma non in fondo alla stanza, il suo sguardo oltrepassava tutte le muraglie. E veramente quando rientrando i denti, non al completo perché la bocca non era capace di contenerli, e socchiudendo gli occhi guardava laggiù laggiù… non era più la direttrice di una scuola elementare, ma non si sapeva dove potesse incominciare né dove andasse a finire la sua direzione. Quindi tamburellando le dita sopra la coscia, fece un conticello: «Aprile, Maggio, Giugno… ce n’è d’avanzo» e disse un nome: «la Calliope, la Calliope Bonciani: vi ricordate della Calliope?».
Le poverette non si ricordavano nemmeno della Calliope, ma dissero “Sì, sì”, facendo finta di ricordarsene in modo vago.
«Veniva sempre al Borghetto con la madre, è già in pensione da qualche anno e la madre è ancora vivente: novantadue anni», scandì la direttrice che bandiva i numeri nel discorso come parti di un valore eccezionale: «novantadue» scandì più forte. Peccato che Niobe fosse con la Tonina nel podere, nessuno le avrebbe impedito di rispondere a quel numero: “figlia d’un cane!”. Essendo la vita tanto bella non poteva rattenere un grido di compiacenza e di solidarietà per coloro che se la succhiano senza discrezione.
La Calliope era un altro fiore, anzi, il più bel fiore del mazzo. La causa per cui era rimasta nubile le tornava di onore grandissimo. Aveva perduto il fidanzato nel colera di Napoli del 1884, scoppiato mentre faceva il servizio militare in quella città. Essendosi prodigato generosamente nella triste epidemia, era rimasto vittima del dovere di carità. La Calliope, bella e giovane, non volle poi sapere di dare il proprio cuore a un altro uomo, e come tante belle e romantiche creature del secolo scorso, rimase fedele a lui oltre la morte. Sopra il suo cassettone era un bel ritratto del giovane nella montura del bersagliere, col cappello dalle ricche penne che gli scendevano fin sopra le spalle. Davanti a esso erano sempre dei fiori e un piccolo lume. «Novantadue!» la direttrice ripeté ancora gli anni della madre della Calliope. «Se la vedeste camminare! Un frullino, un granello di pepe. Stanno bene ma, capirete, fa sempre comodo di guadagnare qualche cosuccia, e poi non ha nulla da fare. Che maestra, quella! Sempre coi maschi e nelle classi alte: la quinta, come facevo io, come me.»
Per quanto non fosse diventata direttrice la Calliope riscuoteva tutta la sua stima. Aggiunse che le vere maestre si distinguono fra i maschi e nelle classi alte: la quinta! Come lei e la Calliope. Carolina osò tremolante: «Sono migliori i maschi delle femmine?» La direttrice roteò gli occhi in senso pratico. Era del parere di Niobe. Per quanto i maschi avessero lasciato anche a lei un conticino aperto, erano sempre migliori delle femmine. Disse che i maschi si sa sempre quello che vogliono, e quando fanno un malestro si sa come e perché lo fanno, sono vivaci, rumorosi, turbolenti, spesso dei veri e propri demòni, ma sono aperti, si leggono fino in fondo con grande facilità; se ne conoscono i sentimenti e basta saperli prendere se ne fa quel che si vuole. Le femmine invece sono più quiete, rispettose, composte, ubbidienti, ma serbano spesso qualcosina per sé, e te la mettono fuori quando meno te l’aspetti; non si sa mai precisamente quello che hanno in corpo le femmine, credi di averle tutte e ti accorgi, alla fine, che non avevi proprio niente.




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