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Lunario dei giorni di scuola


Appendice ottavo

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Le stagioni della vita

Hermann Hesse

Mondadori

Si può amare “un uomo anche quando lo si ha come avversario, anche se è lunatico, ingiusto e terribile”? Herman Hesse non ha dubbi a riguardo e ci restituisce la figura di un insegnante integralmente votato al suo “mestiere”, laddove questo termine assume però l’accezione di vera e propria missione esistenziale.

(…) Nei miei anni di scuola due insegnanti ho potuto amare e rispettare, riconoscendo loro senza esitazioni un’autorità assoluta e lasciandomene dirigere con una semplice occhiata. Il primo, di nome Schmid, insegnava nella scuola classica di Calw, ed era un professore assai poco amato da tutti gli altri studenti, e temuto perché severo, aspro, bisbetico e inflessibile. Egli divenne importante per me perché nella sua classe (noi avevamo dodici anni) ebbe inizio lo studio del greco. Allievi di una piccola scuola quasi rurale eravamo abituati a insegnanti o da temere e odiare, o da eludere mentendo, oppure da deridere e disprezzare. La loro indubbia autorità, che esercitavano a volte in modo tremendo e inumano – accadeva ancora spesso che i colpi sulle mani o le tirate d’orecchio arrivassero al sangue, era enorme e del tutto immeritata, ma si trattava di un potere ostile, temuto e odiato. Che un insegnante potesse avere autorità per il fatto che ci era superiore, perché rappresentava la cultura e l’umanità e ci radicava nell’animo l’idea di un mondo più alto e più puro, questo con tutti gli altri insegnanti delle classi inferiori non l’avevamo ancora provato. Ne avevamo conosciuti di bonari, che alleggerivano a sé e a noi la noia delle lezioni lasciando correre, guardando fuori della finestra o leggendo romanzi mentre noi copiavamo l’uno dall’altro un esercizio scritto qualsiasi. Avevamo conosciuto anche maestri malvagi, tetri, rabbiosi, furiosi, che ci tiravano i capelli e ci picchiavano in testa. (Uno che era il vero tipo dell’iracondo, un gobbo, soleva accompagnare le sue ramanzine ai cattivi scolari battendo loro a tempo sulla testa la sua pesante chiave di casa.) Che ci potessero essere anche dei professori che l’allievo segue affascinato e volenteroso, tali che di buon grado egli s’affatica per loro e ne scusa perfino le ingiustizie e i malumori, cui è grato per il mondo più alto che gli schiudono, e cerca di dimostrare la propria riconoscenza, questa possibilità ci era rimasta sino allora sconosciuta. E ora in quarta mi toccava il professor Schmid. Dei circa venticinque scolari di quella classe, noi cinque che ci eravamo decisi per gli studi umanistici, eravamo chiamati «umanisti» o «greci», perché, mentre gli altri avevano lezioni profane, come disegno, scienze naturali e simili, venivamo iniziati dal professor Schmid al greco. Egli non era affatto ben visto: un uomo rasato e coi capelli scuri, pallido, malaticcio, dall’espressione preoccupata e dallo sguardo amaro, per lo più di umore serio e severo, che anche quando scherzava aveva un tono sarcastico. Non so che cosa fosse precisamente in lui che mi conquistò, contro il giudizio di tutta la classe, forse fu l’impressione della sua infelicità. Non era robusto e appariva sofferente, aveva inoltre una moglie inferma, delicata di salute, che non si faceva quasi mai vedere; e del resto viveva, come tutti gli altri nostri insegnanti, in sordida povertà. Qualche circostanza, probabilmente la malattia di sua moglie, gli impediva di migliorare le sue entrate accettando dei pensionanti, come facevano gli altri, e già questa particolarità gli dava una nota di distinzione di fronte ai colleghi. In più c’era il greco. Noi cinque prescelti fra i condiscepoli apparivamo a noi stessi come un’aristocrazia spirituale perché eravamo avviati agli studi superiori, mentre i nostri compagni si preparavano a divenire artigiani o commercianti; ed ecco che ora incominciavamo a imparare questa misteriosa antica lingua, ancora più antica, misteriosa e aristocratica del latino: una lingua che non si apprende per guadagnar denaro o per girare il mondo, ma solo per fare conoscenza con Socrate, Platone e Omero. […] Facile non ce lo rese certamente, l’anno scolastico, questo signor Schmid. Ce lo rese estremamente pesante, spesso senza necessità. Esigeva molto, almeno da noi «umanisti», e non era solo severo e spesso duro, ma sovente anche assai lunatico; aveva talvolta accessi d’ira improvvisa per i quali noi tutti, me compreso, molto lo temevamo, come in un vivaio gli avannotti possono temere il luccio che li mette in fuga. Questo l’avevo già provato con altri insegnanti, ma con Schmid feci un’esperienza nuova: provai, accanto al timore, la reverenza, capii che si può amare e venerare un uomo anche quando lo si ha come avversario, anche se è lunatico, ingiusto e terribile. A volte, quando aveva le sue ore nere e guardava con quel suo viso magro, di sotto i lunghi capelli neri, con espressione sofferente, tenebrosa e irata, ero costretto a pensare al re Saul e alle sue tempeste. Ma poi guariva: spianava il volto, tracciava lettere greche sulla lavagna e diceva, sulla grammatica e sulla lingua greca, cose che, io lo intuivo, erano più della solita roba scolastica. Del greco io m’innamorai, benché temessi quelle ore di lezione, e certe lettere come l’ipsilon, lo psi, l’omega, le tracciavo a volte, ammaliato e compreso, sul mio quaderno come tanti segni magici. […]









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