RICORDOCHENON

Ariel




mondo


Ariel


 IL PASSAGGIO è da quella parte...

– Da quella parte dove? – chiede Matteo, raschiandosi la gola.

– A destra di quell’albero. Ses zurpu?[1] – risponde Sasso. – Basta seguire il muro di cinta del giardino e si arriva alla finestrella...

Matteo guarda con più attenzione. Continua a non vedere niente. Ma non è lui che è cieco. E’ la notte che è buia. E sono le villette allineate sul lungomare del Poetto che sembrano tante scatole di cartone appiccicate l’una all’altra.

– Vado io avanti. Voi seguitemi – dice Luca.

Matteo fa di sì con la testa e si domanda come mai la voce del suo amico sia la solita voce di sempre.

– La prendo io questa... – dice ancora Luca. – Di pongu fogu...[2]

Afferra la tanica e Matteo pensa che messi tutti e tre insieme, lui, Luca e Sasso, non fanno gli anni del prof. Non li fanno nemmeno a sbagliare di brutto contando. E neppure aggiungendo quelli di Monica, che è rimasta a fare il palo vicino all’edicola.

 Di pongu fogu... . – ripete Luca. Poi ecco che anche la sua voce cambia. Si fa appuntita e tagliente: – O prof, mi’ che io a te ti metto fuoco... Ti metto fuoco – diventa ago e lama. – Mi’ che io a te ti... A te ti... A te ti... – cantilena sottovoce.

 Aiò! Ti muovi? –. Sasso tocca Matteo sulla spalla e insieme seguono Luca, che si è infilato nel passaggio tra il muro della casa e quello del giardino, trascinando a fatica la tanica piena di benzina.

– Mi’ che io a te ti... A te ti... A te ti...

E all’improvviso è come se anche Ariel fosse lì con loro.

 

...................

 

Ariel aveva la faccia da scemo. Quando era entrato per la prima volta nell’aula della seconda C tutti avevano pensato la stessa cosa. Che aveva la faccia da scemo. Facc’ e scimpru, aveva ghignato Luca. Scimpru mannu. Scimpru caghendi.[3]

– Perché ride così ? – aveva chiesto in un soffio Monica a Matteo.

Ma Ariel non stava ridendo. Era solo la sua bocca scema che rideva. Il sorriso sghembo da joker che gli stava appiccicato sulle labbra. E gli occhi acquosi e ballerini che ti guardavano solo di sghiscio[4].

– Non sta ridendo – aveva spiegato Matteo a Monica.

E in un attimo aveva visto il film di tutto ciò che sarebbe successo tra Ariel e prof Maccioni, come se le parole e la trama scorressero sul muro scrostato dietro alla lavagna, sicuro come due più due da metterci la mano sul fuoco.

– Un altro campione, eh? – aveva sputato lì prof Maccioni.

E non aveva aggiunto altro perché non ce n’era bisogno. Che tanto si sapeva cosa voleva dire con quello sputo. Che loro erano la classe peggiore di quella scuola che era la scuola peggiore della città. E che Ariel facc’ e scimpru era venuto lì apposta nel borgo per rompergli le balle e gli piaceva ancor meno di quanto gli piacevano tutti loro.

– Non affaticare la testa a rispondermi – aveva detto ancora prof Maccioni. – Siediti là...

Ariel si era seduto in un banco in seconda fila e aveva girato il suo sorriso da joker sul resto della classe.

Sì. Matteo aveva visto tutto il film.

Prof Maccioni avrebbe divorato Ariel pezzo a pezzo, lentamente, e poi avrebbe vomitato i suoi resti nel cestino della carta straccia.

E forse lo avrebbero aiutato un po’ anche i compagni.

 Bellixedda quella magliettina! – aveva detto più tardi Luca a Ariel, in cortile, durante la ricreazione. – Aundi d’asi aggatara? In s’aliga? [5]

Monica aveva lanciato un’occhiata alla t–shirt di Ariel, che era marrone stinta colori e cani fuèndi[6], e poi aveva dato una gomitata a Luca.

– Non fare il balosso![7] – gli aveva detto.

– Sì, non ti sbichisi, lassaddu stai...[8] – aveva aggiunto Sasso.

Ma ormai era troppo tardi.

Ariel aveva fatto un passo avanti in direzione di Luca e aveva sollevato il pugno chiuso a mo’ di minaccia.

– Mi’ che io a te ti... A te ti...

Matteo si era alzato di scatto dal muretto, pronto a mettersi tra i due, e in quel momento anche Luca aveva fatto un passo in direzione di Ariel.

Poi era successa una cosa strana.

– A te ti... cosa? – aveva detto Luca a muso duro.

– A te ti... A te ti... – aveva ripetuto Ariel un po’ incerto.

E all’improvviso era scoppiato a ridere.

A ridere davvero, a scraccalius.[9]

Allora anche Luca aveva cominciato a sganasciarsi. Aveva dato una pacca sulla spalla ad Ariel e gli aveva chiesto se gli andava di giocare a pallone al campetto, quel pomeriggio. Lui aveva detto subito di sì, e che ci aveva pure la maglietta numero 10 di Zola. Era stato così che tutti loro erano diventati suoi amici e che lui si era beccato all’istante quel nomingio[10].

“A te ti... A te ti...”

 

...............

 

– Eccola... –. Luca si ferma sotto la finestrella e Sasso tira fuori da una busta di plastica un cacciavite e uno scalpello.

A Matteo la finestrella sembra troppo stretta, ma Sasso sembra leggergli nel pensiero.

 Ehia... – lo rassicura. – Già ci passiamo...

Sale sulla cassa di legno che ha messo lì la notte precedente e la cassa scricchiola.

–  Non far casino... – sussurra Luca.

La finestrella dà nel garage di prof Maccioni. Ci vive lui in quella casa. Cussa carrogna.

Sasso armeggia sulla serratura. Si sentono altri scricchiolii. Poi un camion di passaggio brontola sul lungomare e Sasso ne approfitta e dà un colpo più forte, secco.

 Mizziga... Sono troppo bravo... –. Sasso è riuscito ad aprire la finestrella.

Luca gli fa staffetta con le mani allacciate, lo spinge in alto e Sasso scompare dentro il garage.

– Ora io... – dice Luca.

Matteo lo aiuta. A lui invece toccherà fare da solo, perché tra i tre è quello più alto e robusto.

Prende la tanica e la passa ai due amici che sono già dentro. Poi sale sulla cassa di legno e per un attimo si immobilizza. Gli fa impressione sapere che prof Maccioni dorme lì sopra, a pochi metri di distanza. Ma soprattutto non riesce a levarsi dalla testa lo sguardo e le parole di Angela, quel pomeriggio assolato nel piazzale di chiesa.

– Non fate sciocchezze ragazzi... – aveva detto Angela a lui, a Luca, a Sasso e a Monica, prima di entrare per la funzione. – Non fate sciocchezze, vi prego...

Angela aveva capito ciò che volevano fare. Le era bastato guardarli negli occhi e aveva capito. A fragu.[11] Perché non era scema lei. E perché lo sapeva che anche se loro non facevano tutti insieme gli anni di prof Maccioni potevano lo stesso fargli sudare sangue.

– Matteo...

Angela si era rivolta ancora a lui.

– Almeno tu... Tu no... Tu non puoi...

Ma anche Matteo a quel punto aveva fatto come i suoi amici. Le aveva girato le spalle e si era diretto verso l’entrata di chiesa.

“Perché io no?” si era chiesto. “E Ariel allora? Come se niente fosse successo?”

Aveva infilato la mano nella vasca di marmo dell’acqua benedetta e in quel momento Luca lo aveva guardato di sghimbescio, per accertarsi che non avesse cambiato idea.

Deppidi morri” gli aveva ripetuto per la centesima volta. “Deppidi scetti morri!”[12]

Matteo non aveva cambiato idea.

Ma ora, issandosi sulla finestrella della casa del prof, gli sembra di vedere ancora lo sguardo di Angela e di sentire la sua voce.

 

....................

 

Angela era arrivata a scuola all’inizio del secondo quadrimestre. La prof di matematica si era ammalata e lei l’aveva sostituita.

Angela veniva da qualche posto sconosciuto, forse dal pianeta Marte. Non somigliava a nessuno degli altri prof. E mica perché era giovane. E neanche perché permetteva a tutti di darle del tu. Solo perché non li trattava come bastasci[13] fatti e lasciati, nemmeno a Luca che a volte la sfidava e nemmeno ad Ariel che con i numeri non ci capiva né una mazza né mezza mazza.

Certi giorni, quando avevano lavorato bene, Angela li portava a giocare a pallone nel campetto dietro scuola. Unu bordellu mannu.[14] Maschi e femmine tutti assieme a si spassiai.[15] E quando poi era di buon’umore Angela si metteva tra i pali e faceva il portiere. Mica era brava tra i pali però. Pariada una puddixedda azziccara.[16] E ogni volta che prendeva gol dava la colpa agli altri come una ragazzina.

Forse era per questo però che a Matteo piaceva così tanto. Perché sapeva essere una ragazzina come loro.

– Dimmi di Ariel... – gli aveva chiesto lei una volta, dopo essersi seduta sulla gradinata a tirare il fiato. – Voglio dire... Cosa sai di lui... Della sua famiglia?

Matteo aveva sollevato le spalle.

Non sapeva nulla della famiglia di Ariel. Solo che non aveva più né padre, né madre. E che viveva con sua nonna nelle nuove case del borgo.

– Sai, forse siamo ancora in tempo a non fargli perdere l’anno – gli aveva detto Angela. – Io potrei chiudere un occhio anche se non arriva alla sufficienza. E se tu lo aiutassi in italiano e nelle altre materie...

– No. Non è così... – aveva ribattuto Matteo, stupendosi del tono deciso della sua voce. – E anche se io...

– Tu sei bravo!... Sei molto bravo! E potresti...

– Ma non capisci? –. Matteo questa volta l’aveva interrotta bruscamente. Aveva mosso le mani in aria, come a volerle mostrare il film che lui aveva già visto. – Prof Maccioni non gli farà mai passare l’anno, cosa credi? Lo tormenta. E prima o poi lo farà scoppiare, vedrai...

Angela non aveva ribattuto subito. Prima aveva lanciato un’occhiata alla facciata posteriore della scuola, come se anche lei la odiasse come la odiavano loro. Poi aveva sussurrato:

– A prof Maccioni proverò a pensarci io. Ma tu intanto dai una mano ad Ariel. Potresti farlo insieme a Monica....

E questa volta le sue parole erano un ordine che non si poteva discutere.

Così quella stessa mattina Matteo si era spostato dal suo banco e si era seduto vicino ad Ariel. Gli aveva chiesto se poteva andare a casa sua, una di quelle sere, con Monica, per fare i compiti tutti insieme.

Ariel gli aveva fatto di sì con la testa, tutto allillonato[17] per la sorpresa, e Matteo non aveva fatto in tempo a dirgli altro, perché in quel momento prof Maccioni era entrato in aula con i fogli dei compiti in classe di italiano sotto braccio.

Cinque minuti dopo il prof aveva cominciato a leggere i voti. Monica aveva preso “sufficiente”. Luca e Sasso “male”, come quasi tutto il resto della classe. Solo Matteo aveva preso “distinto”. E quando per ultimo era arrivato il turno di Ariel il prof aveva messo su la sua scenetta preferita, cussa carrogna.

L’aveva chiamato alla cattedra. E aveva letto a voce alta una pagina scritta cun is peis[18].

Qualche compagno aveva ghignato.

E Monica si era lamentata sottovoce con Luca:

 Est unu fill’ e cani[19], non può trattarlo ogni volta così...

– Pessimo! – aveva concluso dalla sua cattedra prof Maccioni. – Quanti pessimo hai preso quest’anno? Cento? La zappa! La zappa per zappare, ci vorrebbe per te...

Per scrivere quel compito Ariel aveva sudato due ore sul foglio senza mai alzare la testa. E quelle scene si ripetevano dall’inizio dell’anno un giorno sì e l’altro pure.

“Sì, scoppierà” si era detto Matteo. “Ariel scoppierà e prof Maccioni ne avrà uno di meno a rompergli le balle, cussa carrogna”.

Perché così dovevano andare le cose. E perché neppure Angela picciocchedda che veniva da qualche posto sconosciuto forse dal pianeta Marte, avrebbe potuto impedirlo.

 

.................................

 

– Di più...  Aiò, movidindi[20]. Buttane di più qui... – dice Luca a Sasso.

Sasso obbedisce e getta un altro fiotto di liquido rosa su una pila di vecchi giornali.

Il garage è ormai impregnato dell’odore della benzina.

– Dai... Abbiamo quasi fatto... – dice ancora Luca.

Matteo si guarda intorno e capisce che è vero. Hanno quasi finito. Poi basterà uscire dal garage attraverso la finestrella, accendere lo straccio e gettarlo dentro.

Matteo solleva lo sguardo al soffitto e si domanda cosa succederà dopo. Il soffitto del garage è fatto di legno. Lunghe, grosse travi di legno scuro. Forse il fuoco divorerà anche il resto della casa.

Come aveva detto Luca?

Deppidi morri...”

Deve morire.

Matteo non riesce a staccare lo sguardo dal soffitto. Prof Maccioni vive da solo, in quella casa. Ma davvero lui vuole che muoia?

E se Ariel fosse stato davvero lì con loro, Ariel “A te ti...”, Ariel faccia di scemo, cosa avrebbe voluto lui?

 

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Quando Matteo era andato con Monica a casa di Ariel, per la prima volta, qualche mese prima che tutto fosse finito e Angela gli dicesse quelle parole nel piazzale di chiesa, non si era aspettato di trovare ciò che aveva trovato. A casa di Luca c’erano sempre bisticci e zerrius[21]. Perché il padre di Luca ci dava dentro di gomito e quando era abburrescìu[22] picchiava sua madre e le sue sorelle. E a casa di Sasso era ancora peggio, perché suo fratello maggiore era un morto che cammina, tossico pudesciu, e quando aveva la scimmia sulla spalla andava fuori di testa e spaccava tutto. [23]

Invece la casa di Ariel era ordinata e silenziosa. E sua nonna era una donnetta che sembrava arrivata in città dritta dritta da una bidda sperdia[24], tutta vestita di nero e con una bocixedda[25] che quasi non si sentiva.

– Ariel non c’è, ma voi potete aspettarlo qui – gli aveva detto dopo averli fatti entrare nella sua camera. – E’ andato a scaricare...

– A scaricare cosa? – le aveva chiesto Monica.

Era stato così che Matteo e la sua amica avevano saputo che Ariel ogni pomeriggio, salvo il sabato e la domenica, andava a scaricare casse di frutta e verdura in un supermercato lì vicino. E quando poco più tardi era rientrato a casa, avevano avuto l’altra sorpresa.

– Vi preparo una tazza di cioccolata – aveva detto la nonna. Poi aveva passato una mano sui capelli di Ariel e aveva aggiunto. – E’ bravixeddu il mio ragazzo a scuola, eh? Porta sempre bei voti...

Matteo e Monica si erano scambiati uno sguardo. E Ariel li aveva fissati come se stesse supplicando a mani giunte tutte le madonne e tutti i santi.

– Sì... – aveva mentito Matteo. – Ariel è bravo a scuola...

Aveva dato un’altra occhiata alla sua stanza. Non aveva né uno stereo, né un radione per la musica. E ci avrebbe scommesso che Ariel non sapeva neppure cosa fosse una play–station. C’erano solo un letto, un armadio, una sedia e un tavolino. E sui muri decine e decine di foto di Magic Box, del magico Zola, con la maglia numero 10 del Chelsea e del Cagliari.

– Da grande sarò io Zola! – aveva detto Ariel.

E Matteo non aveva trovato il coraggio di dirgli che anche giocando a pallone fiada scetti unu camboni[26].

– Dai, facciamo i compiti di prof Maccioni – aveva proposto Monica.

Allora Ariel si era lasciato andare sulla sponda del letto.

– Tanto lo so che mi boccerà... – aveva sussurrato. Aveva sollevato le spalle come se non gli importasse. – Solo... Solo che non so – aveva aggiunto – come dirlo a mia nonna...

 

......................................

 

– E’ fatta!

Sasso ha finito di spargere la benzina per tutto il garage. Dentro la tanica ne ha lasciato appena il tanto di un bicchiere, che ora versa su uno straccio arrotolato che Luca ha tirato fuori dalla tasca dei jeans.

– Ok, ora tutti fuori! – sussurra Luca.

– Aspetta...

Matteo gli ha messo una mano sul braccio e lo trattiene.

– E mo’ che c’è? – gli chiede Luca.

– Aspetta... Aspetta un attimo... – prende tempo Matteo. Non è sicuro di ciò che vuole dire a lui e a Sasso. Non è sicuro neppure di voler dire qualcosa. Sa solo che se ora toccasse la macchina di prof Maccioni, se gli desse una spinta, una botta, un calcio sulla fiancata, forse...

– Allora? – Luca ha staccato la mano di Matteo dal suo braccio e si sta innervosendo. Anche Sasso.

– Guarda che fra un po’ fa luce – dice. – E se qualcuno ci vede allontanarci e chiama i carramba o la giusta[27]...

– Stavo... Stavo pensando a una cosa... – incespica sulle parole Matteo. – A un’altra cosa che mi ha detto...

– Che ti ha detto chi?

– Angela. All’uscita di chiesa...

 

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Angela in chiesa si era seduta alla loro destra, proprio dietro al primo banco, dove una donnetta vestita di nero che sembrava arrivata dritta dritta da una bidda sperdia fissava il vuoto davanti a sé con uno sguardo grigio da cieca.

Matteo aveva osservato Angela di nascosto e gli era sembrato che lei volesse avvicinarsi alla donnetta. Ma forse non aveva trovato il coraggio.

E come avrebbe potuto trovarlo?

In quel film avevano perso tutti.

Aveva perso anche lei.

Ariel non era migliorato neppure con l’aiuto di Monica e di Matteo. E prof Maccioni aveva continuato a tormentarlo davanti a tutti, ogni volta che ci aveva lo sghiribizzo e il gusto di farlo.

Una volta Luca e Sasso avevano provato a mettersi in mezzo. Si erano alzati dal banco e avevano detto a cussa carrogna che non era giusto che lui chiamasse Ariel “zappaterra”, o “zucca vuota” o “zucca di paglia”. Prof Maccioni allora aveva ordinato a Luca e a Sasso di uscire dall’aula. E loro per protesta avevano rovesciato i banchi, avevano fatto a pezzi le penne e i quaderni e gli avevano detto di infilarsi i resti in cussu logu[28]. Per questo erano stati sospesi tutti e due per trenta giorni e neppure Angela che si era battuta per loro era riuscita a far cambiare idea al consiglio di classe.

Da quel giorno le cose erano ancora peggiorate. Prof Maccioni continuava a farla di suo. E quando incrociava Angela neppure la salutava.

Poi, infine, era successo.

Era successo perché di pellicola non ce n’era più e il film era terminato. Era successo perché bisognava scrivere the end sul muro scrostato dietro alla lavagna. Era successo perché prof Maccioni fiada issu su meri e su mundu[29] e Ariel non era niente.

Prof Maccioni era entrato in aula, era l’ultimo giorno di scuola, e aveva detto che giusto la sera prima lui e gli altri prof avevano fatto gli scrutini. Poi aveva chiamato Ariel davanti a lui. E gli aveva detto che era stato bocciato, bocciato, bocciato.

Tre volte bocciato.

Tre volte zappaterra.

Ariel lì per lì aveva continuato a sorridere. Anche se aveva cominciato a dondolarsi sui piedi come una scimmia sulle spalle di un tossico pudescio. E anche se il sudore aveva preso a colargli denso come olio dalla fronte e dal viso. Aveva guardato una volta verso Matteo e Monica. Una volta sola.

Poi si era girato di scatto, aveva aperto la porta ed era fuggito dall’aula. Aveva corso lungo il corridoio. Aveva corso come Magic Box su un campo di calcio. Aveva corso giù dalle scale e poi lungo il cortile sino alla strada.

Non aveva visto la macchina che arrivava.

O forse chi la guidava non aveva visto lui.

La macchina l’aveva preso in pieno e Ariel aveva fatto un volo di quindici metri sull’asfalto.

Quando l’ambulanza era arrivata un infermiere grasso e sudato aveva detto che era fatto e finito. Spacciau[i][30]. Che non c’era più niente da fare.

Per quello si erano ritrovati tutti in chiesa, in quel pomeriggio assolato. Tutti i compagni di classe e Angela e i bidelli e anche il preside e tutti gli altri professori, tutti meno prof Maccioni, dietro alla bara di Ariel faccia da scemo, a piangere ciascuno il suo, chi lacrime vere e chi lacrime di coccodrillo.

“Stanotte lo facciamo” aveva detto Luca a Matteo all’uscita dalla messa.

Lui aveva fatto di sì con la testa.

Poi aveva visto Angela ancora ferma sulla porta di chiesa, che lo chiamava con un cenno della mano.

 

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– E’ stato lui! Lui ha ucciso Ariel! – la voce di Luca si solleva un po’ troppo e Sasso gli fa cenno di abbassarla.

– Lo so... – Matteo non ha ancora trovato le parole per dirgli quello che gli vorrebbe dire. Ha solo biascicato che forse non dovevano farlo. Che non dovevano dare fuoco a quella benzina. L’ha biascicato e continua a biascicarlo. E intanto si avvicina alla macchina di prof Maccioni.

– Si può sapere cos’altro ti ha soffiato all’orecchio Angela? – la voce di Luca ora è più bassa. Ma le labbra e le mani gli tremano di rabbia.

– Sì, che c’entra ora? – anche Sasso la pensa come Luca.

Matteo scuote la testa e allarga le braccia.

Sa che i suoi amici non cambieranno idea. Qualsiasi cosa lui dica non cambieranno idea.

E se avessero ragione loro?

E se Angela avesse torto?

Poi è il suo corpo a decidere per lui. Si girà di scatto e dà un calcio con tutte le forze alla fiancata dell’auto.

La sirena dell’antifurto si risveglia a dà il via alle sue danze.

 Tui ses maccu[31]... – sussurra Luca sbiancando in viso e Matteo capisce cosa ha detto solo dal movimento delle labbra.

Ma non c’è più tempo per le parole.

Luca e il primo a lanciarsi verso la finestrella. Sasso e Matteo lo seguono a ruota.

E lo straccio imbevuto di benzina rimane dentro il garage.

Ai tre amici non resta che raggiungere Monica e sparire nella notte che già sta morendo nell’alba.

 

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Matteo, Luca, Sasso e Monica sono seduti sulle gradinate del campetto di calcio.

Si stringono intorno ad Angela che tiene aperto il giornale e indica la foto di un uomo di mezza età che esce dalla questura accompagnato da due pulotti[32] in divisa che lo tengono sottobraccio.

– Non posso crederci! – esclama Monica. – Prof Maccioni in casanza!

– Sì, in prigione... – Angela lo dice come se neanche lei ci credesse. Poi aggiunge: – Non credo che ci resterà per più di qualche giorno. Ma verrà processato e di sicuro non metterà mai più piede in una scuola.

Angela ora  legge a voce alta e le parole sulle sue labbra sono zucchero filato e miele. Anche se non tutto quello che c’è stampato sul giornale è piacevole da sentire. “Scuola di un borgo malfamato”, dice. “Devianza minorile”, “Abbandono scolastico”, “Ragazzi difficili”.

– Ehi! – Sasso s’arrennegada[33] come se ci fosse la sua foto, sul giornale. – Saremmo noi i ragazzi difficili?

– Perché non lo siete? – lo zittisce bruscamente Angela. E continua a leggere l’articolo, che dice che prof Maccioni è stato incriminato per omessa vigilanza, per procurato incidente, per ingiurie aggravate e per abuso d’autorità, queste ultime accuse sorrette anche dalla testimonianza di una giovane supplente che si è presentata in procura.

L’articolo racconta anche di una vendetta sfumata solo per caso. E della singolare coincidenza che ha visto la giusta e i carramba presentarsi quasi nello stesso momento a casa del prof, all’alba, i primi per eseguire l’ordine d’arresto e i secondi chiamati dallo stesso professore che voleva denunciare un tentativo di incendio nel suo garage.

– Chissà chi sarà stato a tentare di incendiare quel garage, eh? – ora la voce di Angela si è fatta molto seria. Li fissa uno per uno in volto. – Se penso che avete solo dodici anni – sospira. – Non volete raccontarmi come è andata?

– Solo se tu ci racconti quello che hai detto a Matteo all’uscita di chiesa – scuote la testa Sasso. – Lui non ha voluto dircelo...

Matteo si accorge che ora tutti lo guardano. Anche Luca che dopo la fuga dal garage non gli ha più rivolto la parola.

– Gli ho detto che se aveste cercato di vendicarvi su prof Maccioni, – gli spiega allora Angela – se gli aveste fatto del male, sareste diventati come lui... Uguali a lui...

– Uguali a prof Maccioni? – chiede dubbiosa Monica. – A cussa carrogna?

– Sì! Delle bestie, cos’altro? –. E prima che Luca e Sasso dicano la loro, Angela gira la pagina del giornale e sotto gli occhi di tutti compare la foto di Ariel, stampata in grande, a colori, su un campo di calcio con l’erbetta verde, con indosso la maglietta numero 10 del Cagliari.

 Mizziga! – esclama Sasso. – Paridi [34]Zola!

E a tutti loro per un attimo sembra di vedere Ariel correre su quell’erba verde, con il sorriso sghembo stampato sulla labbra.

Quel sorriso da scemo che lo faceva ridere anche quando di ridere non ne aveva voglia.

 


 

* In questo racconto vengono utilizzati alcuni termini appartenenti allo slang utilizzato nei quartieri più poveri di Cagliari, e altri che appartengono più propriamente al gergo della malavita. La traduzione di questi termini in alcuni casi è certamente approssimativa, non esistendo l’esatto corrispettivo in italiano. Anche la costruzione di alcune frasi è tipica della parlata casteddaia, cagliaritana, e per essere più esatti della parlata casteddaia-campidanese.

[1] Sei cieco?

[2] Gli metto fuoco.

[3] Letteralmente: “scemo grande”, “scemo cagando”.

[4] Sfiorandoti.

[5] Dove l’hai trovata? Nella spazzatura?

[6] Letteralmente significa “color cane che fugge”, ovvero “indistinto, smorto”.

[7] Stupido.

[8] Non fare il fesso, lascialo stare.

[9] In modo irrefrenabile.

[10] Soprannome.

[11] A fiuto, a naso; letteralmente “ a odore”.

[12] Deve solo morire.

[13] Pezzenti.

[14] Un gran casino.

[15] A divertirsi.

[16] Sembrava una gallinella spaventata.

[17] Stralunato.

[18] Con i piedi.

[19] Un figlio di cane.

[20] Dai muoviti!

[21] Urla.

 

[23] “Pudescio” significa marcio, puzzolente. “Avere la scimmia sulla spalla” è il modo figurato con il quale un tossicodipendente descrive la sensazione della crisi di astinenza da eroina.

[24] Letteralmente: paesino sperduto; dispregiativo.

[25] Vocetta.

[26] Era solo un “bidone”.

[27] “Carramba”: carabinieri; “Giusta”: polizia.

[28] Letteralmente: “in quel posto”; in culo.

[29] Era lui il padrone del mondo.

[30] Esaurito, terminato.

[31] Tu sei matto.

[32] Poliziotti.

[33] Si arrabbia.

[34] Sembra.



















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