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Lunario dei giorni di scuola


Appendice primo

2


La buona Terra

Pearl S. Buck

Alla fine del quinto anno Wang Lung non lavorava ormai quasi più nei campi, essendo il suo tempo quasi completamente assorbito, tanto erano cresciute le sue terre, dalla vendita dei propri prodotti e dalla direzione dei lavori. In questo si trovava a dover lottare con grandi difficoltà per la sua mancanza d’istruzione, che gli impediva di decifrare i caratteri tracciati sulla carta dagli scrivani con un pennello di peli di cammello intinto nell’inchiostro. Si vergognava così quando, trovandosi nei negozi dove si vendeva e si comperava il grano, gli toccava di dire umilmente, agli altezzosi mercanti coi quali doveva stipulare un contratto: «Signore, legga lei per me, perché io sono troppo ignorante.» Peggio gli capitava quando, giunto il momento della firma, un individuo qualunque, magari un qualche poltrone di scrivano, aggrottava con disprezzo le sopracciglia, mentre, passato il pennello bagnato sul cubetto d’inchiostro solido, buttava giù con quattro rapidi colpi il nome di Wang Lung. Era una sofferenza quando gli toccava magari sentire lo scrivano che gli diceva: «È il “Lung” del carattere del drago? Oppure è quello del carattere sordo?» Wang Lung doveva allora rispondere umilmente: «Fate come vi piace, perché io seno troppo ignorante per conoscere il mio proprio nome.» Una volta, all’epoca del raccolto, fu particolarmente umiliato dallo scoppio di risa di uno scrivano con cui aveva avuto a che fare nella bottega del grano (uno sbarbatello poco più anziano dei suoi figli, come del resto tutti gli altri scrivani della bottega). Tornando tutto crucciato a casa, disse fra sé: “Ecco quel che ti capita, ignorante. Non uno di quegli sciocchi della città che possegga un palmo di terra; eppure si sentono in diritto di schernirmi perché non conosco il significato dei caratteri pennellati sulla carta.” Calmatosi, disse in cuor suo: “È tuttavia una vergogna il non saper leggere né scrivere. È ora che tolga il mio figlio maggiore dai campi, e che lo mandi a scuola. Imparerà; e quando mi recherò al mercato del grano, sarà lui che leggerà e scriverà per me. Sarà finita, allora, con questo ridacchiare alle mie spalle di contadino”. Convinto della bontà della sua decisione, non perdette tempo, e quello stesso giorno, chiamato a sé il figliolo maggiore, che aveva ormai dodici anni ed era un bel ragazzo diritto, un po’ simile a sua madre nelle larghe ossa facciali e nella grossezza delle mani e dei piedi, ma che somigliava invece al padre nella sveltezza dell’occhio, gli disse: «Lascia oggi stesso i campi, perché ho bisogno di qualcuno nella famiglia che sia istruito, e che sappia leggere i contratti, e firmarli col mio nome, onde io non debba vergognarmi in città.» Il volto del ragazzo s’imporporò di piacere. I suoi occhi brillarono. «Padre» disse «questo che voi mi ordinate di fare è stato il mio desiderio durante due anni; ma non avevo mai osato parlarvene.» Ma quando il ragazzo minore riseppe la cosa cominciò a piangere e a protestare – cosa che faceva spesso, essendo piuttosto piagnone di natura, e sempre pronto a recriminare che la parte degli altri era maggiore della sua. Così fece anche questa volta, piagnucolando di fronte al padre: «Ecco, e a me tocca invece lavorare nei campi, e non è giusto che mio fratello se ne stia comodamente seduto su di un banco a imparare qualcosa, mentre a me tocca lavorare come un servo – a me che sono vostro figlio come lo è lui.» A Wang Lung non piacevano i piagnistei, e di solito, quando il ragazzo frignava, avrebbe dato qualunque cosa per farlo tacere. Disse quindi in fretta: «Via, dunque: andate a scuola insieme, e se il Cielo, in una mala ora, prendesse uno di voi, rimarrà sempre l’altro con abbastanza istruzione per badare in mia vece agli affari.» Presa la decisione, mandò O-lan in città a far acquisto del panno necessario per due lunghe vesti per i figli. Egli in persona provvide invece all’acquisto di carta, di pennelli, e di due cubetti d’inchiostro. Inesperto, si vergognava di mostrare la sua ignoranza, e non volendola confessare, rimase lungamente in dubbio davanti a tutti gli oggetti esibitigli dal cartolaio. Finalmente, come tutto fu pronto, i ragazzi vennero mandati a una piccola scuola istituita presso la porta d’ingresso della città da un vecchio ex-candidato a un concorso di impiegato governativo. Essendo rimasto bocciato, aveva trasformato in aula scolastica la camera centrale della sua casa, disponendovi alcune panche e alcune tavole; e lì, per una piccola somma, da versarsi a ogni giorno festivo, accettava di insegnare i classici ai ragazzi, battendoli col suo ventaglio chiuso quando si mostravano svogliati, o quando non riuscivano a ripetergli appuntino le pagine su cui sgobbavano dall’alba fino al tramonto. Gli scolari non avevano tregua che nelle calde giornate d’estate o di primavera. Allora il vecchio s’addormentava sulla sedia dopo il pasto di mezzogiorno, e russava forte, ciondolando col capo nel sonno. I ragazzi ne approfittavano abbandonandosi a un fitto chiacchierio, giocherellando nei banchi, o disegnando buffe figure, che si mostravano a vicenda, ridacchiando, quando non si fermavano invece tutti quanti a guardare una mosca ronzante attorno al capo del vecchio, ansiosi di vederla posarsi sulla sua mascella aperta. Correvano allora scommesse fra chi sosteneva che la mosca sarebbe entrata nella caverna della bocca, e chi invece riteneva il contrario. Ma quando il vecchio maestro apriva di colpo gli occhi – e nessuno sapeva quando li avrebbe aperti, tanto rapido era il gesto, come se egli non avesse dormito – egli vedeva i ragazzi prima che essi se ne accorgessero; e allora erano gragnuole di colpi di ventaglio che piovevano sulle zucche della scolaresca. Udendo i gran colpi del ventaglio, e le urla dei ragazzi, i vicini dicevano: «Dopo tutto, è un gran bravo maestro.» E fu appunto questa la ragione per cui Wang Lung scelse la sua scuola per farvi istruire i propri ragazzi. Il primo giorno, accompagnandoli, li precedeva di qualche passo, non confacendosi alla sua dignità di padre camminare a fianco dei figli. Aveva preso con sé una pezzuola azzurra, e l’aveva riempita di uova fresche da offrire al vecchio maestro. Quando arrivarono, Wang Lung fu colpito dagli smisurati occhiali cerchiati d’ottone del vecchio maestro, dalla sua lunga veste nera sbottonata, e dal suo immenso ventaglio, da cui non si separava neanche durante l’inverno. S’inchinò davanti a lui, e disse: «Signor maestro, eccole i miei due insignificanti figlioli. Se qualcosa è possibile far entrare nei loro spessi crani di bronzo, è soltanto picchiandoli. La prego quindi, se vorrà favorirmi, di picchiarli bene, onde farli imparare.» I due ragazzi, mentre il padre faceva questo discorso, guardavano con tanto d’occhi gli altri ragazzi seduti nei banchi, ricambiati da essi con eguale espressione. Ritornando a casa solo, Wang Lung sentiva il cuore scoppiarglisi nel petto per l’orgoglio. Gli era parso infatti che fra tutti i ragazzi radunati nella scuola, non uno ve ne fosse in grado di reggere il confronto coi suoi due per robustezza e salute. Incontrandosi alla porta della città con un vicino che veniva dal villaggio, e richiesto di che cosa fosse venuto a fare in città, rispose: «Torno dalla scuola, dove ho accompagnato i miei figli.» L’altro fece una faccia sorpresa, e Wang Lung subito aggiunse con apparente noncuranza: «Capirete, non ne ho più bisogno nei campi, e ho pensato bene di far loro imparare una buona dose di caratteri». Ripreso il suo cammino, disse ancora fra sé: “Non mi sorprenderei mica se il più vecchio, con tutta questa istruzione, diventasse prefetto!” Da quel giorno i ragazzi non furono più semplicemente chiamati “il Maggiore” e “il Minore”, ma assunsero nuovi nomi scolastici. Dopo essersi informato del mestiere del padre, il maestro diede loro nomi di suo conio. Il primo ragazzo si chiamò Nung En, e il secondo Nung Wen; la prima parola comune ad entrambi i nomi stando a significare “colui la cui ricchezza viene dalla terra”.




















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