f45

Lunario dei giorni di scuola


Quarantacinquesima settimana

potokg


Il dono di Asher Lev

  Chaim Potok

Garzanti

(...) Ci fermammo davanti a una porta in un corridoio silenzioso.
Dallo spioncino vidi di sfuggita una donna giovane e bruna, di una bellezza folgorante, seduta dietro la cattedra, facce di bambine tutte in fila e un'alta parete di finestre bagnate di pioggia.
"E meglio che lei sappia", disse Rav Greenspan, "che l'insegnante non è ebrea. E' una delle migliori docenti della scuola. Tutti i nostri insegnanti sono o ladover o non ebrei. Da noi non insegnano ebrei non osservanti. Danno un cattivo esempio ai bambini. Venga, la stanno aspettando". Aprì la porta e io lo seguii nell'aula. La porta si chiuse con il sibilo smorzato del freno idraulico.
Tutte le teste nella classe si girarono a guardarmi. L'insegnante si alzò in piedi dietro la cattedra. Indossava una blusa avorio con le maniche lunghe e il collo alto e una gonna blu.
Come a un segnale, tutte le scolarette si alzarono in piedi.
"Signorina Sullivan", disse Rav Greenspan. "Questo è Asher Lev".
"E' per me un onore conoscerla", disse. Non mi porse la mano.
"Sedete pure", disse Rav Greenspan alla classe.
Con un leggerissimo scalpiccio, le bambine si affrettarono a sedersi. La signorina Sullivan si allontanò dalla cattedra e, andando a mettersi davanti alla parete di finestre, proiettò la sua silhouette contro la luce grigia del mattino piovoso. I suoi capelli neri, tirati indietro, erano raccolti in uno chignon. Rav Greenspan rimase in piedi davanti alle scolarette. "Buongiorno, ragazze. Voglio presentarvi il signor Asher Lev, che è un pittore molto famoso. Molti suoi quadri si trovano in musei americani ed europei. E' cresciuto in questo quartiere e ha frequentato questa yeshivah. Ha accettato di venire qui, questa mattina, a parlarci di arte e delle sue opere, e a rispondere alle domande che vorrete porgli."
Il signor Lev Rav Greenspan si allontanò dalla cattedra e andò a mettersi verso il fondo dell'aula, lungo la parete di fronte alle finestre. Si appoggiò alla parete e incrociò le braccia sul petto. Lì in piedi, in fondo all'aula, parve all'improvviso un'oscura presenza di vigile guardiano.
Ero solo di fronte alla classe.
Una classe di venticinque, tutte ragazze; la sezione maschile della yeshivah era nell'edificio adiacente. Sedevano in quattro file, ciascuna a un banco singolo. Nella quinta fila c'erano tre adulti, due dei quali donne; il terzo era un uomo anziano dalla barba grigia in completo, cravatta e cappello scuri. Ricordai di averlo visto in casa di mio zio Yitzchok durante la settimana di lutto, ma non sapevo chi fosse. Rocheleh era seduta in seconda fila. Nel pesante silenzio dell'aula, udii l'improvviso levarsi e smorzarsi di un clacson da un'auto che passava. Vidi che tutte mi guardavano, e io non sapevo cosa dire.
Faceva caldo nell'aula e avevo cominciato a sudare sotto il berretto da pescatore. Fuori, la pioggia continuava a cadere e gli angoli delle finestre erano appannati. Guardai le file di volti. Ragazzine con la coda di cavallo, le trecce, i riccioli corti, la riga da un lato, la ciocca lunga trattenuta da una molletta. Facce sottili, facce allungate, facce rettangolari, facce grassocce e occhialute, facce rotonde, facce cilindriche, facce triangolari, facce pallide, facce arrossate. C'era Rocheleh, in attesa. Una ragazzina aveva i capelli rossi e sedeva allungata sulla sedia, come se temesse di essere vista. Mi stava osservando con gli occhi azzurri spalancati. Occhi, occhi in attesa. Comincia come faresti con un disegno.
Comincia con un punto. Un altro punto. Una linea. Una verità chiara e immediata.
"Buongiorno", mi sentii dire, mi schiarii la gola e ripetei, "Buongiorno", e in qualche modo andai avanti. "Tanto tempo fa ho studiato in questa yeshivah e ringrazio Dio per avermi mantenuto in vita in modo da essere qui con voi oggi. Studiavo l'inglese, scrivevo dei temi e passavo molto tempo a guardare dalla finestra. Ma un artista deve dire la verità e la verità è che, più di ogni altra cosa, disegnavo sui quaderni e facevo arrabbiare i miei insegnanti". Un'onda di risate trattenute serpeggiò per la classe. "I miei compagni mi consideravano strambo. Non facevo granché d'altro. Disegni, disegni, disegni. Qualcuna di voi disegna, disegna, disegna tutto il tempo?". Tutte tacevano. "Ma tutte disegnano qualche volta".
Tutte fecero segno di sì con il capo.
"Che cosa disegnate"?
Immediatamente le mani si alzarono. Le interpellai tutte, una dopo l'altra. "Il Seder di Pesach".
"La succah, il luvov e il lethrog".
"Le danze con la Torah".
"I giochi con gli archi e le frecce per Lag Bò Omer".
"Case".
"Giardini".
"Moshe Rabbenu sul Monte Sinai".
"La tavola del Sabato".
"Noè nell'arca".
"Molto bene", dissi. "Mi pare che disegnate tutte. Ora ditemi una cosa. Perché disegnate?".
Di nuovo le mani schizzarono su. Rocheleh sedeva in silenzio accanto alle finestre e osservava. "Mi diverte" disse una ragazzina. "Mi piace", disse un'altra.
"Ce lo fa fare l'insegnante", disse una terza.
Risolini serpeggianti per l'aula, la signorina Sullivan sorrise.
Rav Greenspan rimase appoggiato alla parete sul fondo, con le braccia incrociate sul petto robusto. Le due donne e l'uomo nell'ultima fila ascoltavano impassibili. Rocheleh non aveva ancora alzato la mano. La pioggia scrosciava sul viale; pareva che fosse calata la notte. "Perché gli insegnanti ve lo fanno fare?", domandai.
"Ci aiuta a ricordare meglio le cose", disse una bambina in prima fila.
"Sì. Che altro?". Silenzio. "Non succede nient'altro quando disegnate? Pensateci un momento. Chiunque di voi". Esitante, dalla seconda fila, una ragazzina con le trecce: "Penso che a volte mi aiuta a esprimere i miei sentimenti".
"In che modo?".
"Quando sono arrabbiata adopero un sacco di rosso".
"Nessun'altra di voi disegna i suoi sentimenti?".
"Qualche volta se non mi piace qualcuno gli faccio una faccia brutta", disse una ragazzina non lontana da Rocheleh. Le due donne nell'ultima fila si scambiarono un'occhiata.
"E se disegni qualcuno che ti piace?", domandai.
"Cerco di farlo carino".
"A nessun'altra di voi capita di disegnare i suoi sentimenti?". Silenzio. Un rivolo di sudore mi scese come un insetto lungo la spina dorsale. Avrei voluto appoggiarmi alla lavagna dietro di me e grattarmi la schiena. Il silenzio si protrasse. Alcune bambine si mossero a disagio sulla sedia. Che altro? Pensa. Pensa. Due punti. Una linea. Forma. Spazio. Il piano bidimensionale. Colore. Un quadro. I dipinti alle pareti dello zio Yitzchok. Cèzanne, Renoir, Matisse, Bonnard, Chagall, Utrillo, Soutine.
"Tutti i disegni sono uguali?", domandai.
" No!", risuonò nell'aula. "In che cosa sono diversi?".
"Alcuni sono migliori degli altri", disse la ragazzina seduta di fronte a me. "Perché sono migliori?", le domandai.
"Sono migliori. Sono più reali".
"Sono più veri", disse una seconda ragazza.
"Vuoi dire che sembrano delle fotografie?".
"Proprio così", disse la seconda. "Siete tutte d'accordo che un disegno che assomiglia a una fotografia è migliore di uno che non gli assomiglia?" Tra tutte le teste che assentivano, vidi Rocheleh; era l'unica dell'aula a scuotere il capo. Ma non disse nulla. "Volete dire che un disegno così", estrassi un gessetto arancione dalla scatola che avevo comprato in cartoleria e, con gesti rapidi, disegnai sulla lavagna una rappresentazione infantile di un ariete: zampe sottili e goffe, corpo e testa sproporzionati, corna asimmetriche, "è meno vero e meno reale di un disegno così?". In un'unica linea ininterrotta, disegnai i contorni realistici di un ariete, poi con il gessetto ombreggiai il ventre dando l'illusione della tridimensionalità.
Le scolarette proruppero all'unisono in un "Sì".
"E che cosa ne dite di quest'altro ariete".
Disegnai un'astrazione lineare dell'ariete, senza ombreggiatura, sottolineando i contorni delle cosce posteriori per enfatizzarne la forza e abbellendo la maestosa, alta spirale delle corna. "Quale ariete è più vero?".
Silenzio. Vidi i loro giovani occhi spalancati passare da un disegno all'altro, quello infantile, quello realistico, quello astratto e vidi anche il sorrisino sul volto di Rocheleh.
"Non sono tre modi diversi di vedere lo stesso oggetto?", dissi.
"Il primo è il modo di vedere di un bambino. Il secondo è un modo di vedere realistico, come lo vedrebbe una macchina fotografica, per esempio. E il terzo", indicai il disegno astratto, " be', che cos'è il terzo?". "E' più strano", disse una ragazzina.
"Perché è strano?", domandai.
"Sembra strano", disse. "Non ho mai visto un ariete come quello".
"Certo. Allo zoo".
"Quante di voi hanno visto un ariete come questo?".
Quasi tutte le mani si alzarono. "Avete visto tutte questo tipo di ariete?", dissi ."Così piccolo? Di questo colore?".
Un mormorio di perplessità corse per la classe.
"Che cos'è questo?", domandai indicando il disegno. 
"Un disegno."
"Esattamente", dissi. "è un disegno. E assomiglia moltissimo a quello che un ariete appare ai nostri occhi. Ora, che differenza c'è tra questa visione esterna dell'ariete e il terzo disegno dell'ariete?".
Una ragazzina in quarta fila, lunghi capelli bruni, occhi scuri, labbra sottili alzò la mano. "Il terzo disegno è una visione interna dell'ariete" "Che cosa vuol dire interna?". Non rispose. "Chi ha fatto il disegno?" . "L'ha fatto lei", disse." È la sua visione interna".
"Sì. Come si chiama questo tipo di visione interna? C'è un termine importantissimo che conoscete tutte". Un silenzio carico di tensione e l'ansiosa ricerca della chiave che schiude il mistero. Aspettai un momento. "Qualcuno vuole provare?"
Scrutai tra le file di facce voltate in su. In fondo all'aula le due donne, l'uomo con la barba grigia e Rav Greenspan parevano tutti ipnotizzati, gli occhi fissi su di me, in trepidante attesa. Contro i vetri delle finestre si stagliava la silhouette della signorina Sullivan, occhi sgranati, un vago sorriso stampato sulle labbra. Un ariete.
Avevo visto un ariete allo zoo. Mentre passeggiavo con Devorah e i bambini? Fra tutti gli animali che avrei potuto disegnare, perché avevo scelto un ariete?
Rocheleh alzò la mano.
Poi la ragazzina coi capelli rossi e l'aria timorosa, seduta quasi sul fondo, alzò la mano e feci cenno a lei.
"E' un interpretazione", disse.
"Sì", dissi. "Esatto. E' un'interpretazione. Adesso ditemi una cosa. Quale grande interprete studiate? Non di disegni ma di parole".
Ci fu un altro silenzio.
"Lo portate con voi", dissi. "lo studiate ogni giorno. È il migliore, il più chiaro di tutti gli interpreti".
"Rashi!", gridarono una decina di voci. Una di queste era la voce di Rocheleh.
"Ditemi un'altra parola per interprete?"
"Commentatore", gridarono alcune voci .
"Rashi è l'unico commentatore?".
"No!".
"Chi sono gli altri?
"Ibn Ezra ".
"Ramban".
"Rashbam".
"Sono tutti uguali?", domandai.
"No!".
"Hanno tutte le stesse idee?".
"No!"
"Che cosa interpretano?"
"La Torah"
"Tutti interpretano la stessa cosa . Ma vedono parti di essa in modo diverso, vero?".
"Sì!"
"Perché li stampiamo nello stesso Chummash? Perché? Perché non ne stampiamo uno solo? Perché non stampiamo solo Rashi?
"Nel Chummash che usiamo in classe c'è solo Rashi", disse una ragazza, esitante. "Ma nel Chummash di mio fratello ci sono tutti gli altri".
"Anche nel Chummash della sinagoga ci sono gli altri", disse la ragazza coi capelli rossi dal fondo della classe.
"Perché stampiamo tutti i commentatori?", domandai di nuovo.
"E' più interessante", disse una ragazza.
"Come si fa a scegliere quale lasciar fuori?", domandò un'altra.
"Bisogna stampare tutti quelli buoni. Mio fratello dice che è entusiasmante averli tutti".
Sia ringraziato Iddio per tuo fratello, pensai. "Molto bene. Sì. L'arte nasce quando una persona che sa disegnare passa da questo", indicai il secondo disegno "a questo". Indicai il terzo. "Quando si interpreta, quando si guarda il mondo coi propri occhi. C'è arte quando l'oggetto che viene visto si mescola all'interiorità della persona che lo vede. Se ne risulta un modo nuovo e entusiasmante di vedere un vecchio oggetto, be', è interessante, non vi pare? Lì comincia l'arte seria. Ecco, adesso vi mostro cosa intendo".
Cancellai gli arieti. Per un istante osservai attentamente la signorina Sullivan: zigomi alti, naso diritto e sottile, viso ovale, occhi scuri, capelli scuri raccolti in uno chignon. "Questi sono i tre modi diversi in cui tre grandi artisti moderni avrebbero visto e disegnato la stessa persona. Il primo si chiama Matisse".
Scrissi il suo nome sulla lavagna. Sopra il nome, con una linea continua di gesso azzurro, disegnai il volto della signorina Sullivan.
Sgorgò, immediatamente riconoscibile, dal gesso sulla lavagna. Tutta la classe si agitò, mormorando di sorpresa nel riconoscerla.
"Il secondo artista si chiama Modigliani".
Scrissi il nome alla lavagna e con il gesso rosso disegnai il volto della signorina Sullivan, il collo lungo, dei zigomi esageratamente alti e gli occhi a mandorla, sottolineando nella cilindricità del collo il fascino e la raffinatezza che avvertivo nei suoi modi. "Il terzo artista è Picasso. Quanti di voi hanno sentito parlare di Picasso?". Le mani si alzarono. "Bene. Quasi quanti hanno sentito parlare di Asher Lev".
Rav Greenspan si unì alla risata generale.
Scrissi il nome dello Spagnolo alla lavagna e disegnai la signorina Sullivan con l'ocra, come un tempo lui aveva dipinto Gertrude Stein: solida, scolpita, iberica, una creatura di pietra più che di carne, ma con occhi che penetravano il futuro più lontano.
Da sopra la spalla vidi che la signorina Sullivan fissava il disegno a bocca aperta.
"E' stata lei a volermi qui, signorina Sullivan. Il potere dell'arte, signorina Sullivan. Sulle sue giovani, belle carni..." (...)




















rotusitala@gmail.com