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Lunario dei giorni di scuola


Trentacinquesima settimana

immlunarioterza


Una storia di amore e di tenebra

Amoz Oz

Mondadori

Nello stabile sulla discesa di via Zaccaria c’erano quattro appartamenti. La casa della coppia Nachlieli si trovava al secondo piano, sul lato interno del condominio. Le sue finestre si affacciavano su un brutto cortile, in parte pavimentato e in parte terreno incolto, dove ogni inverno rigogliavano erbe di campo che con i primi caldi estivi diventavano una trappola di rovi. C’erano anche dei fili lassi per la biancheria, dei bidoni per la spazzatura, tracce di un falò, una vecchia cassetta, una tettoia di lamiera, resti di una capanna per la festa di Sukkot, e una siepe con una fioritura celeste di passiflora rampicante.
L’appartamento era composto da una cucina, un bagno, un corridoio d’ingresso, due stanze e otto o nove gatti. Durante il pomeriggio la prima stanza serviva da salotto per la maestra Isabela e per suo marito il cassiere Nachlieli, mentre l’altra, più piccola, era la cameretta da letto per i coniugi e la loro schiera di gatti. I due s’alzavano di buon’ora ogni mattina, relegavano tutta la mobilia in corridoio, e dal corridoio portavano nelle due stanze tre o quattro banchi di scuola e tre o quattro panchette destinate ognuna a due bambini.
Insomma, casa loro si trasformava ogni giorno, dalle otto del mattino sino alle dodici, in una domestica scuola privata denominata Patria del fanciullo.
Due aule e due insegnanti, aveva la Patria del fanciullo, il massimo che poteva ospitare, otto scolaretti in prima e sei in seconda. La maestra Isabela Nachlieli era la proprietaria della scuola e copriva i ruoli di direttrice, vivandiera, tesoriera, responsabile dei programmi di studio, sergente maggiore della disciplina, infermiera, bidella, sguattera, nostra insegnante per tutte le materie. La chiamavamo “Maestraisabela”, tutto attaccato.
Era una donna abbondante, sulla quarantina, ridanciana, chiassosa, con un neo peloso che sembrava uno scarafaggio smarrito sopra la bocca. Aveva un temperamento impetuoso, era emotiva e tuttavia decisa e prodiga di un calore un po’ grezzo. Con le sue semplici gonne ampie piene di tasche con sopra stampati dei grossi cerchi, Maestraisabela sembrava una sensale di matrimoni nei borghi ebraici di un tempo, donne che la sapevano lunga, robuste di braccia e dall’occhio acuto che ti scrutava per bene, dentro e fuori: a loro bastavano un unico sguardo intenso, tre o quattro domande furbescamente candide, per decifrarti da cima a fondo, conoscere i tuoi pregi e scendere fin dentro i tuoi segreti. Anche lei ti osservava e ti studiava attentamente come fossi stato una mappa, mentre le mani rosse, che parevano senza pelle, frugavano e ciancicavano senza posa dentro le tasche, sempre sul punto di tirare fuori da quegli abissi proprio ciò di cui avevi bisogno, vuoi un pettine o una boccetta con le gocce per il naso raffreddato o almeno un fazzoletto pulito per toglier via il moccio verde che hai appeso al naso, ormai orrendamente rappreso.
*
Maestraisabela era anche pastore di gatti: branchi di felini sciamavano dietro a lei sgusciandole fra le gambe ovunque fosse diretta, sempre appiccicati alle sue gonne, e così la intralciavano, la facevano inciampare senza scostarsi nemmeno, insomma per devozione e affetto finivano per esserle d’impiccio. I gatti si arrampicavano con le unghie sulla sua gonna, grigi e bianchi, a toppe, rossi, a strisce, neri, tigrati, si accucciavano sulle sue spalle larghe, si accoccolavano dentro la sua cesta di libri, ronfavano sulle sue scarpe, facevano la lotta miagolando disperatamente pur di starle in grembo. Durante la lezione erano presenti in classe sempre più gatti che allievi, tutti zitti per profondo rispetto, per non disturbare la lezione, tutti addomesticati come cani, tutti educati e a modo come collegiali di buona famiglia, sulla sua cattedra, in braccio a lei, in grembo, sulle nostre piccole gambe, sulle cartelle, sul davanzale della finestra e sulla scatola degli attrezzi da ginnastica, disegno e applicazioni tecniche.
Ogni tanto Maestraisabela li sgridava o dava ordini. Agitando un solo dito, minacciava or l’uno or l’altro di strappargli un orecchio, staccare una coda se non faceva immediatamente il bravo! I gatti, dal canto loro, le ubbidivano sempre, subito, incondizionatamente e senza banfare: “Vergognati, Zorobabele!”, tuonava all’improvviso. E quel poveretto si alzava di scatto, sgusciava fuori dalla frotta riversa sulla stuoia ai piedi della cattedra e cominciava a camminare a testa mestamente bassa, la pancia che quasi toccava terra, la coda fra le gambe, le orecchie tirate indietro, diretto tutto solo verso l’angolo del castigo. Tutti gli occhi – quelli dei bambini così come quelli dei gatti – stavano puntati su di lui e assistevano alla ignominiosa disfatta. Il condannato si allontanava umilmente, quasi strisciando, verso un angolo della stanza, svergognato e mortificato, amaramente pentito ma fors’anche sperando ancora in un miracolo di grazia dell’ultimo momento, di quella grazia che giunge dopo la disperazione.
Dall’angolo del castigo il poveretto ci mandava uno sguardo strizzato, commovente, uno sguardo colpevole e implorante, di un tormento abissale come a dire: non valgo nulla.
“Lurida creatura che non sei altro!”, lo apostrofava Maestraisabela con una fiacchezza che era ormai sotto la soglia del disprezzo, ma alla fine lo perdonava con longanimità:
“Bene. E sia. Torna pure. Ricordati solo che se succede ancora una volta...”.
Questa frase non aveva bisogno di finirla, perché il beneficiario di quella grazia ormai ciondolava verso di lei con andatura contrita, con aria più devota che mai, come un corteggiatore che questa volta giura di affascinarla sino alla vertigine, malcelando la propria felicità, la coda dritta, le orecchie ben tese in avanti, saltellando verso di noi sui polpastrelli soffici, mite e ben consapevole del segreto racchiuso nella propria mitezza, capace di usarla in modo accattivante, i baffi lustri, il pelo luccicante e appena ritto, negli occhi un guizzo di ipocrisia felina, ammiccava giurando che da quel momento in poi al mondo non sarebbe esistito un gatto più bravo e buono di lui.
I gatti di Maestraisabela erano educati a una vita socialmente utile, perciò erano gatti da lavoro: aveva insegnato loro a portarle una matita o un gessetto e persino un paio di calze dall’armadio, a prendere da sotto il tavolo un cucchiaino caduto che invano provava a starsene nascosto lì sotto. A stare alla finestra e miagolare in un certo modo quando si vedeva arrivare un conoscente, in un altro se si avvicinava un estraneo (gran parte di questi prodigi non li vedemmo mai con i nostri occhi, tuttavia le credevamo. Le avremmo creduto anche qualora ci avesse raccontato che uno dei suoi gatti faceva le parole crociate).
Quanto a Nachlieli, il piccolo marito di Maestraisabela, non lo vedevamo quasi mai: il più delle volte quando arrivavamo noi lui era già al lavoro, e se anche era in casa stava in cucina a sbrigare in silenzio i suoi mestieri, durante le nostre ore di scuola. Qualora a lui e noi non fosse stato concesso dall’alto il permesso di andare in bagno ogni tanto, non avremmo mai scoperto che il signor Nachlieli altri non era se non Getzel, il giovane e pallido cassiere della cooperativa. Aveva quasi vent’anni meno di sua moglie: se fossero andati a spasso insieme per strada, avrebbero potuto facilmente essere scambiati per madre e figlio.
In effetti, qualche rara volta lui si trovò costretto, od osò, venire a chiamare la maestra per una questione urgente durante la lezione – poteva trattarsi delle polpette bruciate o del fatto che si era versato addosso qualcosa –: e non la chiamava Isabela, bensì mamma, così come presumibilmente la chiamavano anche i suoi gatti. Lei, dal canto suo, per quel marito tanto più giovane di lei usava nomi attinti dal regno degli uccelli, cinciallegra o passerotto o pettirosso o forse usignolo. Comunque mai Nachlieli.




















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