lunario23

Lunario dei giorni di scuola


Ventitreesima settimana

prosperig


Maestra di campagna

Carola Prosperi


Pioveva. Il villaggio, già sperduto in fondo alla valle, pareva diventato una pozzanghera sola, colle aie melmose, le viottole e i campi deserti, le case chiuse, poiché le donne stavano nelle stalle a filare e gli uomini al paese vicino, dove arrivava il vapore e dove c'erano due osterie. Non s'udiva che lo scrosciar lieve lieve di una pioggia lenta, monotona, eterna. Pochi minuti prima delle quattro, in una casetta più bassa delle altre, una vera bicocca all'estremità del paese, coi vetri rotti accomodati con carta ingommata e una scaletta di legno esterna tutta tarlata, la porta si aprì e ne uscirono cinque o sei ragazzi con gli scartafacci sotto il braccio. Mentre se ne andavano di qua e di là, curvi sotto l'acqua, col loro passo lento e pesante di contadini, la maestra stava a guardarli dritta e immobile sulla soglia. Era una ragazza anziana, vestita di nero, magra e scialba, col volto avvizzito e lungo, fisso in un'espressione di fredda e abituale malinconia. Davanti a tutto quel grigio plumbeo ella parve rabbrividire, nascose le mani sotto il grembiale, allungò il capo per guardare intorno: non c'era nessuno. Chiuse la porta della scuola, salì la scaletta di legno ed entrò nella sua abitazione, una vasta e squallida stanza che le serviva da camera e da cucina. Tutto tornò deserto per un pezzo. Solo una volta, poiché la pioggia cadeva con maggior violenza, una tendina giallognola si alzò e il viso della maestra apparve, per un momento, dietro ai vetri. Più tardi, verso le cinque, un essere umano spuntò finalmente in fondo alla strada, nella campagna desolata: un giovinetto alto ed elegante col bavero del soprabito rialzato e le mani inguantate. Egli evitava con cura le pozzanghere saltando da una parte all'altra della strada e si guardava inquieto le scarpe, affondandole nella mota con disgusto. Giunto presso la scaletta di legno trasse un sospirone di sollievo, chiuse l'ombrello, si scosse come un cane bagnato e salì, in due salti. 
- Sono io, Paola. Stai al buio?
- Sei tu, Ugo? 
La maestra di scuola - forma oscura e immobile accanto alla tavola - si alzò ed accese una piccola lampada a petrolio che illuminò fiocamente tutta la stanza, mentre Ugo brontolava contro il tempo e le seccature del viaggio e cercava intorno cogli occhi il punto più adatto del pavimento per appoggiarvi il bel pomo del suo ombrello aperto. (...)
- Che freddo!... Che umidità! - diceva di tanto in tanto e batteva i piedi. La sorella lo guardava. Era un bel ragazzo di sedici anni, snello e ben fatto, con un viso gioviale e vermiglio, la fronte alta e bianca, gli occhi chiari e limpidi, con un aspetto già virile ma pieno ancora di allegria fanciullesca. (...)
- E papà?... Come sta?
Ugo alzò le spalle . - Sempre lo stesso. 
Il padre, infermiccio, apatico, rassegnato, non aveva da chiederle nulla, epperò non le scriveva mai. 
- Vi divertite?
- Per conto mio, figurati!... Devo studiare... Le ragazze si divertono alla sera come possono. Viene il fidanzato di Renata, quello spilungone, con qualche amico... Augusta suona, Clementina si lamenta... La solita baraonda. Io mi rintano in camera mia. Ho poco da scherzare... Se non studio la mamma non mi dà pace.
- Sei un uomo tu! - disse con asprezza la sorella. - Devi lavorare. Non puoi aspettare la fortuna come quelle ragazze. E poi, lo sai... Siamo poveri!... Siamo poveri! 
- Eh, lo so!... - rispose il ragazzo un po' stupito di quella violenza. E aggiunse con una graziosa aria di impotenza: - Lavorerò. Stettero un poco in silenzio. Ella aveva preso in mano la calza e scalzettava rapidamente: di tanto in tanto un sorriso amaro le increspava le labbra senza riuscire a schiudergliele. Ugo si guardava attorno con uno strano stringimento di cuore. 
- Dove stai!... - e come se vedesse tutto ciò per la prima volta, mirò sbigottito la stanza squallida e vasta, la mobilia miserabile, le pareti nude, il letto in un angolo, dietro un paravento primitivo, il canapè colla fodera sdrucita, e un secchio pieno d'acqua, accanto al muro. E pensò alla loro casa in città piena di chiasso e di gente, dove i creditori picchiavano ad ogni momento e pure non riuscivano a rattristar loro la vita, perché ognuno pensava per sé e non faceva nulla per gli altri. Una baraonda sì, ma piena d'allegria. Egli sentì la sua fresca, ingenua anima offuscarsi. 
- Non potrei ripartire adesso? 
- Piove troppo... dormi nel mio letto. Io dormirò sul sofà. 
- Ma... 
- La strada è buia. 
- Ma qui fa freddo... 
- Oh appena... Sei tanto delicato? Che cosa faresti allora qui, d'inverno... (...)
Paola apparecchiava la tavola: stese una tovaglia grossolana, dispose due piatti rozzi, le posate, il bricco del latte, una bottiglia piena di caffè chiaro e dolciastro e il pane. Ugo mangiò con avidità, ella bevve appena del latte.
- Come mangi poco!... - stupì il ragazzo.
- Mi par d'aver lo stomaco chiuso da tanti anni!... - ella rispose, e s'alzò e andò al cassettone.
- Andiamo a dormire?... - sbadigliò Ugo di nuovo, infreddolito.
- Senti prima. Questa busta la darai alla mamma; quest'involto a Renata, quest'altro - ci son le calze - ad Augusta. Per Clementina non posso darti nulla. Non scrivo, ma la cosa che devo dir loro, la riferirai tu. 
Ugo sbadigliava: - Che sonno, che freddo, Paola!... 
- Dirai loro che non mi chiedano più niente. Non ho più niente ora. Puoi rovesciare la casa, non troveresti un centesimo, non un filo di roba. E per l'avvenire, dirai che non sarò più padrona né del mio tempo, né di ciò che guadagnerò. 
- Ah, va bene... Perché?
- Perché prendo marito. 
Ugo si scosse, gridò un: "eh?", e il suo viso si rischiarò di un riso fuggevole di stupore e di canzonatura.
- Tu prendi marito? 
E pareva che volesse dirle: - Eh via! Che storiella è questa?
Il cuore della povera zitella trasalì a quella ferita nuova e sentì ravvivato il bruciore di tutte le ferite antiche. Chi aveva stabilito, alla sua nascita, che il suo destino dovesse essere rinunzia, umiltà e sacrifizio? Aveva dovuto pagare il fio di essere nata virtuosa e savia, tra gente senza scrupoli, dispotica e temeraria, che apprezzava soltanto l'ozio e i piaceri della vita; e quando la casa, peggio di una barca che fa acqua da tutte le parti, era stata lì lì per sfasciarsi, ella sola si era rassegnata a partire. Che supplizio durante i lunghi anni dell'avversa fortuna!... Poi, un po' d'apparente agiatezza era tornata in casa, ma lei per consiglio di tutti era rimasta a lavorare. Giacché aveva il beneficio di poter guadagnare, guadagnasse!... E tutti i suoi erano sempre pronti a piombarle addosso come avvoltoi. Oh se avessero potuto spremerla di più, sfruttarla ancora, toglierle il sonno, contarle i bocconi, far denaro d'ogni suo minuto!...Era un andirivieni continuo, un richiedere concitato, delle esigenze senza fine, delle proteste senza tregua!... E le dicevano, senza volerla schernire: - Beata te che sei indipendente e non hai bisogno di nessuno!... Invece, ora, ella sentiva proprio bisogno di qualcuno che la difendesse dalla sua stessa debolezza, che dicesse di no per lei; sentiva più acuta la sorda e latente ribellione di tanti anni, l'amarezza dell'ingiustizia, il rancore della schiavitù, tutto ciò che voleva sfogarsi e le gonfiava il petto e la agitava come un male insopportabile. (...) 
Così Paola sposò un contadino e diventò matrigna di due contadinelle. Fu morta al mondo, come una monaca, senza le dolcezze del convento; come una sepolta, senza la pace della tomba. Fu rinnegata e dimenticata. Il fratello solo, nonostante le diverse vicende e fortune colle quali si era conquistato il suo posto nel mondo, la ricordava; ma era il suo un ricordo vago, come l’ombra di un’ombra.




















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