freccia28

Lunario dei giorni di scuola


Ventottesima settimana

dubro2


Dubrovskij
Aleksandr Sergeevič Puškin


Il giovanotto cominciò a parlare in francese col viaggiatore.
«Dove andate?» gli domandò.
«Nella città vicina» rispose il francese; «di là andrò da un possidente, che mi ha assunto come maestro senz’avermi veduto. Credevo di poter essere a destinazione oggi stesso, ma il signor mastro pare che abbia stabilito diversamente. In questa terra è difficile procurarsi dei cavalli, signor ufficiale.»
«E da quale dei possidenti locali vi siete impiegato?» domandò l’ufficiale.
«Dal signor Trojekurov,» rispose il francese.
«Da Trojekurov? Chi è codesto Trojekurov?»
«Ma foi, monsieur, ne ho sentito dir poco bene. Raccontano ch’è un signore superbo e capriccioso, crudele nel modo di trattare la gente di casa sua, che nessuno può affiatarsi con lui, che tutti tremano a sentire il suo nome, che coi maestri (avec les outchitels) non fa complimenti e ne ha già frustati due a morte.»
«Scusate tanto: e voi avete il coraggio d’impiegarvi da un mostro simile?»
«Ma che fare, signor ufficiale? Egli mi offre un buon stipendio, tremila rubli all’anno, e il mantenimento. Può essere ch’io sia piú fortunato degli altri. Ho una vecchia madre: metà dello stipendio lo manderò a lei per il suo sostentamento; coi denari che restano in cinque anni posso accumulare un piccolo capitale sufficiente per la mia futura indipendenza; allora bonsoir, vado a Parigi e mi do alle imprese commerciali.»
«C’è qualcuno che vi conosca in casa di Trojekurov?» egli domandò.
«Nessuno» rispose il maestro; «egli mi ha fatto venire da Mosca per mezzo di uno dei suoi amici, che ha un cuoco mio connazionale, e lui mi ha raccomandato. Dovete sapere ch’io mi preparavo non a fare il maestro, ma il pasticciere; ma mi dissero che nella vostra terra la professione di maestro era incomparabilmente piú redditizia.» (...)
«Ascoltate,» interruppe egli il francese «che direste se, invece di questo futuro, vi offrissero diecimila rubli in contanti, alla condizione che tornaste immediatamente a Parigi?»

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Kirila Petrovič aveva fatto venire da Mosca per il suo piccolo Saša un maestro francese, il quale appunto era arrivato a Pokrovskoje (...).
Questo maestro andò a genio a Kirila Petrovič per il suo aspetto piacevole e per i modi semplici. Egli presentò a Kirila Petrovič i suoi certificati e la lettera di uno dei parenti di Trojekurov, dal quale era stato quattro anni come precettore. Kirila Petrovič esaminò tutto questo e fu malcontento solo della giovinezza del suo francese, non perché stimasse questo amabile difetto incompatibile con la pazienza e con l’esperienza, cosí necessarie nella disgraziata professione di maestro, ma aveva i suoi dubbi, che si decise a spiegargli subito. Per questo egli fece chiamare presso di sé Maša (Kirila Petrovič non parlava francese ed ella gli serviva da interprete).
«Avvicinati, Maša: di’ tu a questo musie che va bene, lo accetto, ma a patto che non osi andar dietro alle mie ragazze, che se no, figlio d’un cane... Traduciglielo, Maša.»
Maša arrossí e, rivolgendosi al maestro, gli disse in francese che suo padre sperava nella modestia e nell’onesta condotta di lui.
Il francese le fece un inchino e rispose che sperava di meritare il rispetto, anche se gli avessero ricusato la benevolenza.
Maša tradusse la sua risposta parola per parola.
«Bene, bene,» disse Kirila Petrovič «lui non ha bisogno né di benevolenza, né di rispetto. Il suo compito è di star dietro a Saša e d’insegnargli la grammatica e la geografia... traduciglielo.»
Marja Kirilovna nella sua traduzione addolcí le volgari espressioni del padre, e Kirila Petrovič lasciò andare il suo francese nell’ala della casa dove gli era destinata una stanza.
Maša non fece nessuna attenzione al giovane francese. Educata com’era in mezzo ai pregiudizi aristocratici, un maestro per lei era una specie di servitore o di artigiano, e un servitore o un artigiano non le sembrava un uomo. Non si accorse neppure dell’impressione che aveva suscitata in monsieur Desforges, né del suo turbamento, né del suo tremore, né della voce mutata. Per alcuni giorni di seguito lo incontrò abbastanza spesso, senza degnarlo d’una grande attenzione. In modo inaspettato ella venne ad avere di lui un’idea affatto nuova.
Nel cortile di Kirila Petrovič erano allevati di solito alcuni orsacchiotti e formavano uno dei divertimenti principali del proprietario di Pokrovskoje. Nella loro prima giovinezza gli orsacchiotti erano accompagnati ogni giorno nel salotto, dove Kirila Petrovič si perdeva con essi per ore intere, mettendoli alle prese coi gatti e coi cagnolini. Cresciuti, erano messi a catena, nell’attesa d’una vera caccia. A volte li conducevano dinanzi alle finestre della casa padronale e spingevano verso di loro una botte da vino vuota, cosparsa di chiodi; l’orso l’annusava, poi la toccava pian pianino, si pungeva le zampe, arrabbiandosi la spingeva piú forte, e piú forte diventava il dolore. Esso entrava in un vero furore, si gettava con un grido sulla botte, finché alla povera bestia non toglievano l’oggetto della sua vana furia. Accadeva che a un carro attaccassero una pariglia d’orsi, vi facessero salire per amore o per forza gli ospiti, e li facessero galoppare dove Iddio li portava. Ma Kirila Petrovič considerava come lo scherzo migliore il seguente.
Si soleva rinchiudere un orso affamato in una stanza vuota, legandolo con una corda a un anello infisso nel muro. La corda aveva la lunghezza di quasi tutta la stanza, sicché soltanto l’angolo opposto poteva essere sicuro da un’aggressione della terribile bestia. Di solito conducevano il novizio verso la porta di questa stanza, come per caso lo spingevan dentro dall’orso, l’uscio
veniva chiuso, e la povera vittima era lasciata a quattr’occhi col peloso anacoreta. Il povero ospite, con una falda strappata, con una mano graffiata, presto trovava l’angolo sicuro, ma a volte era costretto a star tre ore intere stretto al muro, e a vedere come a due passi da lui la bestia infuriata saltava, s’alzava sulle zampe, gridava, voleva liberarsi e si sforzava di raggiungerlo. Tali erano i nobili divertimenti d’un signore russo! Qualche giorno dopo l’arrivo del maestro, Trojekurov si ricordò di lui e gli venne l’idea di offrirgli la stanza dell’orso. Per questo, chiamatolo una volta al mattino, lo guidò per dei corridoi scuri; a un tratto una porta laterale si aperse: due servitori vi spingono dentro il francese e la chiudono a chiave. Riavutosi, il francese vide l’orso legato; la bestia cominciò ad annusare fiutando il suo ospite, e a un tratto, levatosi sulle zampe posteriori, gli andò addosso. Il francese non si perse d’animo, non si mise a correre e aspettò l’aggressione. L’orso gli si avvicinò; Desforges trasse di tasca una piccola pistola, la mise dentro l’orecchio della bestia affamata e sparò. L’orso stramazzò. Tutti accorsero, la porta si aperse; Kirila Petrovič entrò, stupefatto dall’inatteso scioglimento della sua burla.
Kirila Petrovič voleva assolutamente una spiegazione di tutto l’accaduto. Chi aveva preavvertito Desforges dello scherzo preparato per lui, oppure perché aveva in tasca una pistola carica? Egli mandò a chiamare Maša.
Maša accorse e tradusse al francese le domande del padre.
«Io non avevo sentito parlare dell’orso,» rispose Desforges «ma porto sempre addosso delle pistole, perché non intendo tollerare un’offesa di cui, data la mia condizione, non potrei chiedere soddisfazione.»
Maša lo guardò con stupore e tradusse le sue parole a Kirila Petrovič. Kirila Petrovič non rispose nulla, ordinò che si portasse fuori l’orso e che gli si togliesse la pelle; poi, rivolgendosi ai suoi servi, disse:
«Che giovane coraggioso, non s’è spaventato, com’è vero Dio, non s’è spaventato.»
Ma questo caso produsse un’impressione ancora maggiore su Marja Kirilovna. La sua immaginazione fu colpita: aveva veduto l’orso morto e Desforges che gli stava sopra tranquillamente e tranquillamente discorreva con lei. Aveva veduto che il coraggio e l’orgoglio superbo non appartenevano esclusivamente ad una classe sola, e da allora in poi cominciò a dimostrare al giovane maestro un rispetto, che diventava sempre piú riguardoso. Fra loro si stabilirono certi rapporti. Maša aveva una bellissima voce e gran disposizione per la musica; Desforges si offerse di farle lezione. Dopo di che al lettore non è difficile ormai indovinare che Maša s’innamorò di lui, senza confessarselo ancora.
 




















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