ap3g

Lunario dei Giorni di Memoria


Dodicesima settimana

rukeli


Anni d'infanzia

Jona Oberski

(...) 

La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non ave­ va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.

  La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero», ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava osservatorio, ma obitorio. Ma a me non  me  ne importava niente. Lei disse che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti erano tutti uguali e  dopo di  lui ne erano morti tanti altri che erano tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri.

  La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò. Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo fare mai  più  una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva  mandato  all'obitorio.  Le  dissi che adesso non ero più un bambino piccolo e avevo promesso di non fare  più  la  spia  e  perciò  non  le avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il  ragazzo che mi aveva  tirato fuori  di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei  mi  prese con sé. Da Jaap venne a  sapere  chi  erano stati  gli altri. La mamma  raccontò  ad  altre  mamme  quello che era accaduto. Loro domandarono se mi aveva disinfettato bene. Andarono  subito  tutte  a cercare i loro figli e li disinfettarono. Erano  molto  arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci venisse subito messa una serratura.

  II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque nel frattempo i corpi erano stati portati via.

  Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la maniglia. (...)




















rotusitala@gmail.com


 

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Jona Oberski

(...) 

La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non ave­ va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.

  La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero», ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava osservatorio, ma obitorio. Ma a me non  me  ne importava niente. Lei disse che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti erano tutti uguali e  dopo di  lui ne erano morti tanti altri che erano tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri.

  La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò. Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo fare mai  più  una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva  mandato  all'obitorio.  Le  dissi che adesso non ero più un bambino piccolo e avevo promesso di non fare  più  la  spia  e  perciò  non  le avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il  ragazzo che mi aveva  tirato fuori  di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei  mi  prese con sé. Da Jaap venne a  sapere  chi  erano stati  gli altri. La mamma  raccontò  ad  altre  mamme  quello che era accaduto. Loro domandarono se mi aveva disinfettato bene. Andarono  subito  tutte  a cercare i loro figli e li disinfettarono. Erano  molto  arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci venisse subito messa una serratura.

  II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque nel frattempo i corpi erano stati portati via.

  Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la maniglia. (...)




















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La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non ave­ va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.

  La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero», ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava osservatorio, ma obitorio. Ma a me non  me  ne importava niente. Lei disse che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti erano tutti uguali e  dopo di  lui ne erano morti tanti altri che erano tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri.

  La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò. Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo fare mai  più  una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva  mandato  all'obitorio.  Le  dissi che adesso non ero più un bambino piccolo e avevo promesso di non fare  più  la  spia  e  perciò  non  le avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il  ragazzo che mi aveva  tirato fuori  di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei  mi  prese con sé. Da Jaap venne a  sapere  chi  erano stati  gli altri. La mamma  raccontò  ad  altre  mamme  quello che era accaduto. Loro domandarono se mi aveva disinfettato bene. Andarono  subito  tutte  a cercare i loro figli e li disinfettarono. Erano  molto  arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci venisse subito messa una serratura.

  II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque nel frattempo i corpi erano stati portati via.

  Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la maniglia. (...)




















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(...) 

La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non ave­ va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.

  La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero», ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava osservatorio, ma obitorio. Ma a me non  me  ne importava niente. Lei disse che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti erano tutti uguali e  dopo di  lui ne erano morti tanti altri che erano tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri.

  La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò. Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo fare mai  più  una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva  mandato  all'obitorio.  Le  dissi che adesso non ero più un bambino piccolo e avevo promesso di non fare  più  la  spia  e  perciò  non  le avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il  ragazzo che mi aveva  tirato fuori  di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei  mi  prese con sé. Da Jaap venne a  sapere  chi  erano stati  gli altri. La mamma  raccontò  ad  altre  mamme  quello che era accaduto. Loro domandarono se mi aveva disinfettato bene. Andarono  subito  tutte  a cercare i loro figli e li disinfettarono. Erano  molto  arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci venisse subito messa una serratura.

  II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque nel frattempo i corpi erano stati portati via.

  Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la maniglia. (...)




















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Lunario dei Giorni di Memoria


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Anni d'infanzia

Jona Oberski

(...) 

La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non ave­ va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra i cadaveri.

  La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero», ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava osservatorio, ma obitorio. Ma a me non  me  ne importava niente. Lei disse che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti erano tutti uguali e  dopo di  lui ne erano morti tanti altri che erano tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri.

  La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò. Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo fare mai  più  una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva  mandato  all'obitorio.  Le  dissi che adesso non ero più un bambino piccolo e avevo promesso di non fare  più  la  spia  e  perciò  non  le avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il  ragazzo che mi aveva  tirato fuori  di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei  mi  prese con sé. Da Jaap venne a  sapere  chi  erano stati  gli altri. La mamma  raccontò  ad  altre  mamme  quello che era accaduto. Loro domandarono se mi aveva disinfettato bene. Andarono  subito  tutte  a cercare i loro figli e li disinfettarono. Erano  molto  arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci venisse subito messa una serratura.

  II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque nel frattempo i corpi erano stati portati via.

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Marek Edelmann – Il ghetto di Varsavia lotta

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