frecciagialla

Lunario dei giorni di paura


Ventiduesima settimana

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Joan London

L’età dell’oro

Edizioni e/o


(…) Sullivan stava migliorando. Cominciò a trascorrere un po’ di tempo fuori dal polmone d’acciaio. All’inizio cinque minuti, poi dieci, poi un giorno mezz’ora. Sedeva in veranda, imbragato fino al collo su una poltrona reclinabile accanto alla sedia a rotelle di Frank. Il sole splendeva. Se ne stavano lì, soddisfatti del mondo, come due anziani. «Almeno sto imparando a vivere» disse Sullivan. Parlò del giorno in cui era stato colpito dalla polio. Tutti avevano una storia da raccontare. La sua iniziava durante la famosa regata Head of the River. Aveva i brividi, ma pensava si trattasse di nervosismo. La sua barca era in lieve vantaggio, e all’improvviso gli mancarono le forze. Era stato come tirare il cordone di un campanello e non veder arrivare nessuno, spiegò. Arrivarono terzi. Alla fine della gara si sentiva accaldato e tremante e pensò che una nuotata gli avrebbe fatto bene. Non gli importava che fosse proibito: si buttò dritto nel fiume. Poi scoprì di non riuscire a muovere le gambe. Alzò le mani, e tutti pensarono che stesse scherzando. Quando lo issarono sul pontile faceva fatica a respirare. Il suo ricordo di quel giorno era incredibilmente vivido, quasi soffuso di una singolare bellezza. Era stato molto felice a scuola, e provava un profondo affetto per due o tre compagni. Era convinto che sarebbero rimasti amici per la vita. Lo adagiarono sul pontile e lo trasportarono a riva. Vide il sole che brillava attraverso le palpebre e ne avvertì il calore sul corpo; udì lo sciacquio dei ragazzi che lo trasportavano a guado. Il loro silenzio. E proprio in quel momento gli balenò in mente una poesia che avrebbe espresso tutto questo. Una poesia lunga, importante, dal titolo Il mio ultimo giorno sulla Terra. Tutto ciò che stava scrivendo ora ne faceva parte. Per contrasto, l’esordio della malattia di Frank era stato talmente impoetico da renderlo restio a parlarne, convinto che rispecchiasse quella che lui avvertiva come la fragorosa, dolorante e troppo intima tragicommedia della propria vita familiare. Aveva un mal di testa accecante, si era rifiutato di alzarsi. Ida gli aveva gridato che la stava facendo uscire in ritardo, col rischio di perdere il nuovo lavoro dalla modista. Meyer se n’era già andato da un pezzo, perché aveva il primo turno. Ida si precipitò fuori di casa, poi tornò indietro dalla fermata dell’autobus per controllargli un’ultima volta la fronte. Il rumore del suo ansimare frenetico invase la casetta minuscola mentre frugava nelle tasche dei vestiti di Meyer in cerca di monete, maledicendolo per non esserci mai quando aveva bisogno di lui. Lasciò la porta d’ingresso spalancata, corse alla cabina telefonica e chiamò il dottor Cohen. Poi Meyer ricomparve quasi per miracolo, e mentre lo portava verso l’ambulanza Frank si abbandonò tra le sue braccia come un neonato. Il viso abbronzato di suo padre aveva assunto un colorito grigiastro, quello di Ida era bianco come la farina. La gente in strada li guardava: gli Zanetti, gli altri vicini di casa, i passanti, una nebbia indistinta di volti visti da lontano, come in un sogno. (…)




















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