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Lunario dei giorni di paura


Terza settimana
iliade


L'Iliade
L'Ira di Achille

L’ira canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade, tanti corpi di eroi ha dato in pasto ai cani e agli uccelli. Si compiva il piano di Zeus dal giorno in cui la contesa divise fra loro Agamennone, signore di popoli, e il divino Achille. Chi mai, fra gli dei, li provocò alla contesa? Il figlio di Zeus e di Latona: irato con Agamennone, seminò tra l’esercito una morbo mortale; morivano gli uomini perché il figlio di Atreo aveva offeso il sacerdote Crise, che era venuto alle veloci navi dei Danai per liberare sua figlia portando moltissimi doni; intorno allo scettro dorato aveva la bianca benda di Apollo, signore dell’arco, e supplicava tutti gli Achei ma soprattutto gli Atridi, condottieri di eserciti: «Figli di Atreo, e voi, Achei dalle belle armature, io spero che gli dei che in Olimpo hanno dimora vi concedano di distruggere la città di Priamo e di tornare felicemente a casa; ma liberate mia figlia, accettate il riscatto e abbiate rispetto di Apollo, il signore dei dardi, il figlio di Zeus».

Approvarono a una voce tutti gli Achei: il sacerdote fosse onorato, si accettassero gli splendidi doni. Ma la cosa non piacque al figlio di Atreo, Agamennone, che lo scacciò brutalmente con minacciose parole: «Che non ti colga più, vecchio, presso le concave navi, non indugiare ora e non ritornare più tardi; a nulla ti serviranno lo scettro e l’insegna del dio. Tua figlia, non te la darò: invecchierà prima ad Argo, nella mia casa, lontano dalla sua patria, lavorando al telaio e dividendo il letto con me. Vattene ora, e non irritarmi, se vuoi salva la vita». Disse, obbedì il vecchio atterrito. In silenzio si avviò lungo la riva del mare sonoro; ma poi, in un luogo appartato, fervidamente pregava Apollo, il dio sovrano, figlio di Latona dai bei capelli: «Ascoltami, dio dall’arco d’argento, che proteggi Crisa e la divina Cilla, che regni su Tenedo, o Sminteo, se ti è gradito il tempio che un giorno ho costruito per te, se per te un tempo ho bruciato grasse cosce di tori e di capre, esaudisci il mio desiderio: scontino i Danai queste mie lacrime con le tue frecce».

Così pregava e Febo Apollo lo udì. Dalle vette d’Olimpo, discese, con l’ira nel cuore; sulle spalle portava l’arco e la chiusa faretra; risuonavano i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla collera; veniva avanti, simile alla notte. Si fermò lontano dalle navi e scagliò una freccia: emise un suono sinistro l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i cani veloci, ma poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti e senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove giorni volarono per il campo le frecce del dio. Il decimo giorno Achille raccolse l’esercito in assemblea. Era, la dea dalle bianche braccia, gli ispirò questo consiglio: soffriva per gli Achei che vedeva morire. Quando furono tutti raccolti e riuniti, fra di loro si alzò a parlare Achille dai piedi veloci: «Figlio di Atreo, penso che ora davvero dovremo tornarcene indietro, se mai sfuggiremo alla morte, se guerra e peste insieme non piegheranno gli Achei. Interroghiamo un profeta, un sacerdote, uno che interpreta i sogni – il sogno è inviato da Zeus – che ci riveli perché Febo Apollo è tanto adirato – se lamenta un voto mancato o un’ecatombe – e se vuole accettare in cambio l’offerta di agnelli e di capre perfette, e allontanare da noi questo flagello». Così disse, e si mise a sedere.

Si alzò allora Calcante figlio di Testore, il più famoso fra gli indovini. Lui conosceva presente passato e futuro e con la sua arte profetica, dono di Apollo, aveva guidato fino a Ilio le navi dei Danai. A loro parlò con saggezza e disse: «Tu mi dai ordine, Achille amato da Zeus, di rivelare la causa dell’ira di Apollo, signore dell’arco; io te la dirò. Ma tu giura e prometti che sarai pronto a difendermi con le parole e coi fatti. Perché io credo che un uomo si adirerà, un uomo che su tutti gli Achei ha potere e al quale gli Achei obbediscono. Un re ha sempre la meglio quando si adira con chi gli è inferiore. E se pure al momento reprime la collera, mantiene il rancore nell’animo finché non l’ha soddisfatto. Dimmi dunque se salverai la mia vita». A lui rispose Achille dai piedi veloci: «Non aver timore e dì quello che sai. Nessuno – in nome di Apollo caro a Zeus col favore del quale tu, Calcante, riveli ai Danai i voleri divini – nessuno, finché avrò vita su questa terra, nessuno fra tutti gli Achei oserà alzare la mano su di te presso le concave navi, neppure Agamennone, se è a lui che alludi, lui che si vanta di essere il più forte di tutti gli Achei».

Allora il nobile profeta si fece coraggio e disse: «Non per un voto né per un’ecatombe è irato il dio, ma a causa del sacerdote che Agamennone ha offeso: non ne ha liberato la figlia, non ha accettato il riscatto; per questo il signore dell’arco ci infligge dolori e altri ancora ce ne darà. E non allontanerà dagli Achei il tremendo flagello prima che la fanciulla dagli occhi lucenti sia restituita al padre senza nessun riscatto e prima che sia condotta a Crisa una sacra ecatombe. Solo allora potremo placarlo». Disse e si mise a sedere. Si alzò allora, pieno di collera, il figlio di Atreo, il potente Agamennone: un nero furore gli riempiva l’animo, gli occhi mandavano lampi di fuoco; e subito, guardando Calcante con odio, disse: «Profeta di sciagure, mai mi predici qualcosa di buono; sempre il male ti piace svelare, di bene niente, non una parola, mai, che vada a compimento; anche adesso vai dicendo fra i Danai che il signore dell’arco ci infligge dolori perché non ho voluto accettare il favoloso riscatto della fanciulla Criseide. Ma io voglio tenerla in casa mia, mi è più cara di Clitennestra, mia sposa legittima, a lei non è inferiore né per aspetto, né per intelligenza e bravura. La renderò, tuttavia, se è la cosa migliore; voglio che l’armata si salvi, non che si perda. Ma preparatemi subito un dono: non è giusto che solo io fra gli Achei rimanga privo del premio, che, come tutti vedete, mi viene tolto».

Gli rispose allora il divino Achille dai piedi veloci: «Figlio di Atreo, fra tutti il più illustre e il più avido, come potranno, gli Achei generosi, assegnarti un dono? In nessun luogo vi sono più beni comuni: quelli delle città che abbiamo bruciate sono stati divisi. Non è giusto che si rimetta tutto insieme di nuovo. Tu, ora, rendi al dio la fanciulla: e noi Achei ti ripagheremo tre quattro volte tanto, se mai Zeus ci concederà di abbattere Troia dalle belle mura». Gli rispose il potente Agamennone: «No, per quanto valoroso tu sia, divino Achille, non celare il tuo pensiero, perché non potrai ingannarmi e non potrai persuadermi. Vuoi tenerti il tuo dono mentre io resto privo del mio, e pretendi da me che restituisca Criseide? Lo farò se gli Achei generosi mi daranno un dono, scelto secondo il mio gusto, che sia pari a quello perduto; e se non me lo daranno, andrò a prenderlo io, andrò e prenderò il tuo, o quello di Aiace o quello di Odisseo – si adirerà di certo colui dal quale mi recherò! Ma a queste cose potremo pensare anche dopo, adesso mettiamo in mare una nave nera, raduniamo i rematori, carichiamo un’ecatombe e facciamo salire Criseide, la bella; alla guida sia posto uno dei principi, perché plachi con sacrifici il dio onnipotente: Aiace, Idomeneo o il divino Odisseo, oppure tu, figlio di Peleo, che sei il più forte di tutti gli eroi». Lo guardò con odio e gli disse Achille dai piedi veloci: «Uomo impudente e avido di guadagno, quale mai degli Achei sarà pronto a obbedirti, a seguirti nelle marce o nelle aspre battaglie? Non sono venuto qui a combattere a causa dei Teucri, a me nulla hanno fatto; non mi hanno rubato né buoi né cavalli, non mi hanno distrutto il raccolto nella fertile Ftia, terra di eroi: monti pieni d’ombra sono fra noi, e il mare dai molti echi. Te abbiamo seguito, uomo senza vergogna, per tua soddisfazione, per l’onore di Menelao e per il tuo onore, bastardo, nei confronti dei Teucri. Non pensi a questo, non te ne curi; e minacci di togliermi il dono, quello per cui tanto ho penato, quello che mi hanno donato i figli dei Danai. Mai io ricevo un premio eguale al tuo, quando gli Achei distruggono una popolosa città dei Troiani; eppure sono le mie braccia a reggere il peso maggiore della guerra violenta; ma quando è il momento di spartire il bottino, a te tocca il dono più grande mentre io torno alle navi con il mio, piccolo e caro, dopo la fatica della battaglia. Ora però me ne vado a Ftia, perché è molto meglio tornare a casa sulle concave navi piuttosto che rimanere qui senza onore a raccogliere tesori e ricchezze per te».

Gli rispose Agamennone, signore di popoli: «Vattene, se lo desideri, non sarò io a pregarti di rimanere; altri ho con me che mi faranno onore, e soprattutto Zeus dalla mente accorta. Fra i re di stirpe divina tu mi sei il più odioso: ami le risse, lo scontro, la guerra; sei molto forte, ma questo è dono divino. Torna in patria con le tue navi e i tuoi uomini, regna sui tuoi Mirmidoni, di te non mi importa, la tua ira non mi turba. Anzi, ti dirò questo: poiché Febo Apollo mi toglie Criseide, la rimanderò indietro sulla mia nave, con i miei uomini. Ma verrò io stesso alla tua tenda e mi prenderò la bella Briseide, il tuo dono, perché tu sappia che sono più forte di te, e anche gli altri si guardino bene dal tenermi testa e parlarmi alla pari». Disse così. E il dolore colpì il figlio di Peleo; nel suo forte petto si divise il cuore: non sapeva se levare dal fianco la spada affilata, incitare gli altri alla rivolta e uccidere lui stesso l’Atride, o frenare l’impulso e calmare la collera. Mentre era così incerto nel cuore e nell’animo e stava già per estrarre dal fodero la grande spada, Atena scese dal cielo: la mandava Era dalle bianche braccia che amava entrambi gli eroi in modo eguale e aveva cura di entrambi. Si fermò alle sue spalle e lo afferrò per i capelli biondi – apparve a lui solo, nessuno degli altri la vide –; colto da sacro stupore Achille si volse e subito riconobbe Pallade Atena; gli occhi mandavano lampi terribili. Egli le rivolse la parola e le disse: «Perché sei venuta, figlia di Zeus signore dell’egida, per vedere l’arroganza di Agamennone figlio di Atreo? Ma io questo ti dico e credo che questo avverrà: per la sua insolenza tra breve egli perderà la vita».

Gli disse allora la dea dagli occhi azzurri: «Sono discesa dal cielo per placare il tuo furore, se vorrai ascoltarmi; mi ha mandato Era dalle bianche braccia che vi ama entrambi e di entrambi si cura. Orsù, tronca la lite, non estrarre la spada; prendilo a parole, piuttosto e insultalo quanto ti pare. Perché questo ti dico e questo avrà compimento: un giorno ti offriranno splendidi doni, te ne daranno tre volte tanti, per la violenza subita. Ma adesso devi frenarti e obbedirmi». Le rispose Achille dai piedi veloci: «Conviene rispettare il vostro ordine, dea, anche se l’animo è pieno d’ira; è la cosa migliore; se uno obbedisce agli dei, allora essi lo ascoltano». Disse, e sull’elsa d’argento trattenne la forte mano, spinse di nuovo nel fodero la grande spada e obbedì alle parole di Atena: essa intanto era tornata all’Olimpo, alle dimore di Zeus, signore dell’egida, dov’erano tutti gli altri dei. Allora di nuovo il figlio di Peleo si rivolse all’Atride con dure parole, senza frenare la collera: «Ubriaco, faccia di cane, cuore di cervo, che non osi combattere in armi con il tuo esercito, né prendere parte agli agguati insieme agli Achei valorosi: lo temi come la morte. Certo è molto più facile, nel vasto campo dei Danai, strappare i doni di guerra a chi osa contraddirti; re che divori il tuo popolo, che regni su gente da nulla: altrimenti, figlio di Atreo, avresti offeso per l’ultima volta. Ma ora io dico e pronuncio un gran giuramento. Per questo scettro, che non metterà più fronde né rami da quando ha lasciato il tronco tagliato sui monti, che non fiorirà più perché la scure gli ha tolto fogliame e corteccia all’intorno, ed ora lo portano in mano i figli dei Danai, coloro che fanno giustizia e vegliano sulle leggi in nome di Zeus: questo sarà davvero un gran giuramento. Verrà un giorno in cui i figli degli Achei, tutti, rimpiangeranno Achille; e allora tu soffrirai e non potrai aiutarli, quando molti di loro cadranno colpiti da Ettore, uccisore di uomini; e l’animo ti roderai per la rabbia di non aver onorato il più forte di tutti gli Achei». Così disse il figlio di Peleo e scagliò a terra lo scettro, ornato di borchie d’oro. Poi si sedette. Dall’altra parte l’Atride era in preda al furore.

Si alzò allora Nestore, oratore dei Pili dalla voce dolce e sonora, le cui parole scorrevano dalle labbra più dolci del miele. Aveva già visto sparire due generazioni di uomini, nati e cresciuti insieme a lui nella divina Pilo, e sulla terza ora regnava. A loro parlò con saggezza e disse: «Ahimè, una grave sciagura colpisce gli Achei; sarebbero lieti Priamo e i figli di Priamo, e tutti gli altri Troiani godrebbero molto nel cuore, se sapessero che voi due siete in lotta, voi che primi siete fra i Danai, primi in assemblea, primi in battaglia. Ascoltatemi. Siete entrambi più giovani di me; di me che un tempo fui compagno di guerrieri più forti di voi: ed essi non mi disprezzavano. Uomini simili non li ho visti mai in nessun luogo, né li vedrò mai – Piritoo, Driante signore di popoli, Ceneo, Essadio, Polifemo divino, Teseo figlio di Egeo simile agli dei immortali –; erano gli uomini più forti di tutta la terra, erano i più forti e combatterono con i più forti, con i centauri dei monti, e ne fecero orrendo massacro. Per unirmi a loro, che mi chiamarono, venni da Pilo lontana; con loro ho combattuto: nessuno degli uomini d’oggi sarebbe capace di farlo; eppure essi ascoltavano i miei consigli, obbedivano alle mie parole. Ascoltatemi anche voi, è la cosa migliore; per quanto grande tu sia, Agamennone, non togliere a lui la fanciulla, lasciagli il dono che gli diedero i figli dei Danai; e tu, figlio di Peleo, non contendere con il tuo re, perché un re che porta lo scettro e a cui Zeus ha concesso la gloria ha una parte d’onore diversa dagli altri. Tu sei forte, hai per madre una dea, ma lui è più potente perché comanda su molti. Figlio di Atreo, placa il tuo furore; ti supplico, desisti dall’ira verso Achille, che per tutti gli Achei è difesa sicura in questa guerra crudele». E a lui di rimando il potente Agamennone: «Sì, tutto questo, vecchio, è ben detto; ma quest’uomo vuole essere sopra tutti gli altri, vuole dominare, comandare, dare ordini a tutti; penso che qualcuno non gli obbedirà; se gli dei immortali hanno fatto di lui un guerriero, gli hanno forse concesso anche di coprirmi di oltraggi?». Gli rispose a sua volta il divino Achille: «Sarei un vile, davvero, un uomo da nulla, se ti cedessi in tutto, qualunque cosa tu dica; agli altri comanda, non dare ordini a me, perché non credo che ti presterò più obbedienza. E ti dirò un’altra cosa e tu tienila a mente: non verrò alle mani con te, né con te né con altri, per la fanciulla che mi togliete dopo avermela data; ma gli altri doni che conservo sulla mia nera nave veloce, di quelli nulla potrai strapparmi contro la mia volontà; provaci, e allora lo sappiano anche costoro: subito il tuo nero sangue bagnerà la mia lancia».

Così, dopo aver combattuto a parole, si alzarono e sciolsero l’assemblea presso le navi dei Danai. Il figlio di Peleo andava verso le tende e le belle navi insieme al figlio di Menezio e ai suoi compagni; il figlio di Atreo invece mise in mare una nave veloce, scelse venti rematori, fece imbarcare l’ecatombe per il dio, lui stesso condusse la bella Criseide; alla guida si pose l’accorto Odisseo. E mentre solcavano le vie d’acqua, l’Atride ordinò agli uomini di purificarsi; compiuto il rito gettarono in mare i rifiuti e offrirono poi ad Apollo ecatombi di tori e capre perfette, sulle rive del mare profondo: tra le spire di fumo l’odore del grasso saliva al cielo. Di queste cose si occupavano dunque nel campo. Ma Agamennone non lasciò cadere la sfida che aveva lanciato ad Achille; e disse a Taltibio ed Euribate che erano suoi araldi e zelanti scudieri: «Andate alla tenda di Achille figlio di Peleo; prendete per mano la bella Briseide per portarla via; e se non vuole darvela, io stesso andrò a prenderla e non da solo: sarà molto più duro, per lui». Con queste parole, con questo duro comando li mandava; a malincuore si avviarono lungo la riva del mare profondo, finché giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni. Trovarono l’eroe seduto accanto alla tenda e alla nera nave: non provò gioia, vedendoli, Achille. Si fermarono e non dissero nulla, per rispetto e timore del re; ma egli comprese nell’animo suo e disse: «Vi saluto, araldi, messaggeri di Zeus e degli uomini, avvicinatevi; non voi siete colpevoli verso di me, ma Agamennone, che vi ha mandato per la fanciulla Briseide. Orsù, Patroclo, amato da Zeus, portala fuori e consegnala a loro, che la portino via; ma essi mi siano testimoni, davanti agli dei beati e agli uomini mortali, davanti al re inflessibile, se mai un giorno ci sarà bisogno di me per allontanare dagli altri il tremendo flagello: egli è folle davvero nella sua mente perversa, non pensa al passato e insieme al futuro, a come potranno salvarsi gli Achei combattendo presso le navi». Disse così, e Patroclo obbedì all’amico, condusse fuori dalla tenda la bella Briseide e la consegnò agli araldi che la portassero via; se ne andarono, lungo le navi dei Danai e li seguiva a malincuore la donna. Achille invece piangendo andò a sedersi in disparte, lontano dai suoi compagni, sulle rive del mare bianco di schiuma, lo sguardo rivolto alla distesa infinita, e con le mani tese rivolse una fervida preghiera a sua madre: «Poiché mi hai generato a breve vita, madre, vorrei che l’Olimpio Zeus, signore del tuono, mi concedesse, almeno, l’onore; e invece non c’è nessun onore per me; mi ha offeso il figlio di Atreo, il potente Agamennone; si è preso il mio dono, lui stesso me l’ha strappato e l’ha fatto suo». Così diceva piangendo; lo udì la nobile madre che negli abissi del mare sedeva accanto al vecchio padre: rapida emerse dal mare bianco di schiuma, come una nebbia, si sedette accanto a lui che piangeva, lo accarezzò con la mano e chiamandolo per nome gli disse: «Figlio mio, perché piangi? Quale dolore ha colpito il tuo cuore? Parla, non tenerlo per te, anch’io voglio saperlo». L’eroe dai piedi veloci le rispose piangendo: «Lo sai. Perché devo dire tutto a te che sai tutto? Quando giungemmo a Tebe, la sacra città di Eezione, la distruggemmo e portammo qui tutto il bottino. Fra di loro in parti uguali se lo divisero i figli dei Danai. Per il figlio di Atreo scelsero la bella Criseide. Ma Crise, sacerdote di Apollo signore dei dardi, venne alle navi veloci dei Danai armati di bronzo per liberare la figlia e portava moltissimi doni; intorno allo scettro dorato aveva la bianca benda di Apollo signore dell’arco e supplicava tutti gli Achei ma soprattutto gli Atridi condottieri di eserciti.

Approvarono a una voce gli Achei: fosse onorato il sacerdote, si accettassero gli splendidi doni; ma la cosa non piacque al figlio di Atreo, Agamennone, che lo cacciò brutalmente, con minacciose parole. Il vecchio andò via, pieno d’ira; ma Apollo che molto lo amava, ascoltò le sue suppliche e scagliò sugli Achei le sue frecce malefiche. Morivano gli uomini uno sull’altro mentre i dardi del dio volavano da ogni parte nel vasto campo dei Danai; a noi l’esperto indovino rivelò la volontà dell’Arciere. E io per primo invitavo a placarlo; ma il figlio di Atreo andò in collera, d’impeto si levò e proferì una minaccia che ormai si è compiuta: sulla nave veloce gli Achei dagli occhi splendenti conducono a Crisa la fanciulla e portano doni al dio sovrano; dalla mia tenda se ne sono andati gli araldi portando via la giovane figlia di Brise, che mi donarono i figli dei Danai. Ma tu, se puoi, soccorri tuo figlio; sali all’Olimpo e supplica Zeus, se mai un tempo hai potuto essergli utile con le parole o coi fatti. Nella reggia del padre spesso ti ho udito vantarti di aver difeso il figlio di Crono, signore delle nuvole oscure, da un oltraggio tremendo, tu, sola fra gli immortali, quando gli altri dei dell’Olimpo – Era Poseidone e Pallade Atena – volevano incatenarlo: tu sola andasti da lui, dea, e lo liberasti dai ceppi chiamando sul vasto Olimpo l’essere dalle cento braccia che gli dei chiamano Briareo e gli uomini invece Egeone – la sua forza è più grande di quella del padre –; superbo della sua gloria egli sedette accanto al figlio di Crono e allora gli dei beati presi dalla paura non lo legarono più. Ricordagli questo, ora, siedigli accanto e abbraccia le sue ginocchia, chiedigli di dare aiuto ai Troiani e di respingere invece gli Achei verso il mare contro le navi, facendone strage, perché godano tutti dell’azione del re e anche il figlio di Atreo, l’onnipotente Agamennone, comprenda la sua follia, lui che non ha onorato il più forte di tutti gli Achei».

A lui disse allora Teti, piangendo: «Figlio mio, perché ti ho cresciuto, io, madre infelice? Almeno tu stessi presso le navi senza lacrime, senza dolore, perché la tua vita è breve, non durerà a lungo. Sei votato a morte precoce e ora sei anche infelice fra tutti: per un triste destino ti ho messo al mondo, nella reggia di Peleo. Parlerò dunque a Zeus, signore dei fulmini, salirò io stessa sull’Olimpo bianco di neve, sperando che voglia ascoltarmi. Ma tu, ora, rimani presso le navi veloci, conserva l’ira verso gli Achei e non prendere parte alla guerra. Ieri Zeus se n’è andato verso l’Oceano, tra i nobili Etiopi, per un banchetto, e tutti gli dei lo hanno seguito; il dodicesimo giorno tornerà di nuovo all’Olimpo e allora andrò per te alla dimora dalla soglia di bronzo, lo supplicherò e penso che riuscirò a persuaderlo». Dopo aver parlato così se ne andò e lo lasciò lì con l’animo pieno d’ira per la fanciulla dalla snella figura che gli avevano strappato a forza e suo malgrado. Intanto Odisseo era giunto a Crisa portando la sacra ecatombe. Quando furono dentro al porto dalle acque profonde, ammainarono le vele e le deposero sulla nave nera, e dopo aver sciolto in fretta le funi misero l’albero sul cavalletto; poi, a forza di remi, spinsero la nave verso l’ormeggio. Gettarono le ancore e legarono i cavi di poppa; poi scesero sulla battigia, fecero sbarcare l’ecatombe offerta ad Apollo, signore dell’arco; anche Criseide scese dalla nave che solca il mare; l’accorto Odisseo la condusse verso l’altare, la mise tra le mani del padre e gli disse: «O Crise, Agamennone, signore di popoli, mi ha mandato per riportarti la figlia e offrire a Febo una sacra ecatombe in nome dei Danai, per placare il grande iddio che ora scaglia sugli Achei dolori e lacrime». Così disse e gliela diede e il padre la accolse con gioia; subito, intorno all’altare ben costruito collocarono la sacra ecatombe, si lavarono le mani e presero i grani d’orzo. In mezzo a loro Crise, tendendo le mani, fervidamente pregava: «Ascoltami, dio dall’arco d’argento, che proteggi Crisa e la divina Cilla e regni su Tenedo; hai udito la mia invocazione e mi hai reso onore mettendo in ginocchio l’esercito acheo. Esaudisci anche ora questo mio desiderio: allontana dai Danai il tremendo flagello». Così pregava e Febo Apollo lo udì.




















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