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Lunario dei giorni di paura


Trentesima settimana

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Amitav Gosh

L'isola dei fucili

Neri Pozza

 

Riprese a camminare, guidandomi verso una viuzza appartata e silenziosa. «Dino, devi pensare che, al tempo in cui ci venne il tuo mercante, Venezia era una città in lutto e in decadenza. Il periodo d’oro della sua potenza commerciale era tramontato con la scoperta delle nuove rotte per le Americhe e per l’Oceano Indiano. E poi era l’epoca della Piccola età glaciale, quando tutto era in subbuglio, in cielo e in terra. Per Venezia la crisi raggiunse l’apice nel 1630. Sul versante opposto delle Alpi imperversava una guerra spaventosa, la Guerra dei trent’anni, così come una guerra dei trent’anni imperversa oggi sull’altra sponda del Mediterraneo. E a quel punto anche il clima si rivoltò contro l’umanità: si aprirono le cateratte, inondando le pianure dell’Italia settentrionale – nessuno aveva mai visto una pioggia simile, una pioggia che spazzò via le coltivazioni distruggendo i raccolti. Il prezzo del cibo andò alle stelle e la gente cominciò a morire di fame. E la fame si porta sempre dietro la malattia. «Nel 1629 i soldati tedeschi portarono la pestilenza a Milano, e nel giro di poche settimane morirono diecimila persone. Poi il morbo passò di città in città: da Mantova a Padova e poi a Venezia, dove a quanto pare fu introdotto da un diplomatico. «Per Venezia non era la prima volta. In passato c’erano state altre epidemie, da cui i veneziani avevano tratto insegnamento: erano stati pubblicati diversi trattati su come affrontare la peste, e fin dal Quattrocento esisteva una commissione sanitaria permanente. Si potrebbe anzi dire che i protocolli moderni per evitare il diffondersi del contagio siano stati inventati a Venezia. Perciò, quando nel 1630 scoppiò la grande pestilenza, i notabili della città reagirono con prontezza». Mi toccò un braccio, come per trattenermi dal saltare a conclusioni affrettate. «Dino, non pensare che i consiglieri comunali fossero dei creduloni. Molti di loro avevano studiato all’Università di Padova, che era un grande centro del razionalismo – ci aveva insegnato Galileo, e la sua dottrina sull’ordine della natura per loro era vangelo. Erano simili agli odierni burocrati dell’Unione Europea: amministratori istruiti e competenti che non si abbandonavano a voli di fantasia. La loro fede nel potere della ragione umana era sconfinata. «Si misero subito all’opera adottando una lunga serie di contromisure. Vennero imposti coprifuochi e quarantene: tutti coloro che sembravano aver contratto la malattia venivano trasferiti su una certa isola, mentre i pochi che guarivano venivano spostati su un’altra isola ancora. Tutti i luoghi pubblici furono chiusi e alla gente fu vietato uscire di casa; solo i soldati potevano muoversi liberamente. Le strade erano così deserte che fra le pietre del selciato cominciò a spuntare l’erba. Ufficiali giudiziari appositamente nominati giravano di casa in casa col volto celato da maschere a forma di becco, disinfestando con fumigazioni e cercando i segni del contagio. «Ma la pestilenza sembrava inarrestabile. Le persone morivano a migliaia, manovali e pescivendole, preti e nobildonne, e anche i probiviri più illustri non venivano risparmiati. In pochi mesi la città perse un quarto della sua popolazione. Le chiatte che portavano via i morti non bastavano, e così i canali si riempirono di cadaveri. All’Arsenale, dove ora si tengono mostre d’arte, i corpi venivano ammucchiati uno sull’altro, e non si trovavano uomini a sufficienza per cospargerli di liscivia. «Ma nel mezzo di quell’orrore c’era un minuscolo angolo della città, una calle chiamata Corte Nova, rimasto pressoché immune dal contagio. Una giovane che vi abitava aveva dipinto un quadro della Vergine Maria e l’aveva appeso all’ingresso della corte, dicendo che la peste non sarebbe passata oltre la Madonna, e stranamente, miracolosamente, gli abitanti di quella viuzza non si ammalavano. «La Vergine Maria era sempre stata molto venerata dai veneziani, e a quel punto la popolazione si rivolse a lei implorando la salvezza. Anche i notabili della città, quegli uomini esperti e razionali, riconobbero la propria assoluta impotenza, e deliberarono di costruire una grande chiesa dedicata alla Madonna. E quando, subito dopo, il morbo si svigorì, tutti dissero che quel miracolo era opera di Santa Maria della Salute». Fece una sosta e indicò davanti a noi la grande cupola grigia che s’innalzava sul Canal Grande. «Eccola, la chiesa di Santa Maria della Salute. Oggi è uno degli emblemi della città».

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