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Lunario dei giorni di paura


Trentatreesima settimana

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Il sogno del Villaggio dei Ding

Yan Lianke

Nottetempo ed.

 

(…) Al villaggio la situazione era tragica. In questo piccolo paese di nemmeno ottocento anime, di neanche duecento famiglie, in meno di due anni erano morte oltre quaranta persone. Facendo due conti, nell’anno appena passato al Villaggio dei Ding era morta una persona ogni dieci o quindici giorni, piú o meno tre persone al mese. Ma la stagione delle morti era appena cominciata: l’anno successivo i morti sarebbero stati numerosi come i cereali in autunno. Le tombe fitte come i covoni di grano in estate. Sarebbero morti adulti di cinquant’anni cosí come bambini di tre o quattro. Di norma, prima che la malattia si manifestasse, veniva la febbre per una decina di giorni, ecco perché la malattia era stata chiamata la “febbre”. La malattia avanzava a passi da gigante, già stringeva alla gola il Villaggio dei Ding. Le morti si susseguivano, i pianti risuonavano ininterrotti. I falegnami che fabbricavano le bare avevano già dovuto tre o quattro volte comprarsi asce e seghe nuove. La morte, come una notte senza stelle, avvolgeva inesorabile il Villaggio dei Ding e tutti i villaggi dei dintorni. Le notizie che ogni giorno percorrevano le strade del villaggio erano sempre ugualmente fosche: qualcuno aveva avuto un attacco di febbre, o qualcuno era morto durante la notte. Oppure era capitato che, dopo che in qualche famiglia era morto un uomo, la moglie decidesse di andarsene e risposarsi in un villaggio di montagna lontano lontano, lasciando per sempre la maledetta pianura dove infuriava la malattia. I giorni passavano in un tormento senza fine. Ogni giorno la morte vagava di porta in porta, svolazzando qua e là come una zanzara, fermandosi in qualche casa a introdurvi la malattia cosicché nell’arco di pochi mesi qualcuno sarebbe morto nel suo letto. I morti aumentavano: a ovest una famiglia piangeva un suo caro per un giorno intero prima di trovare il denaro necessario per acquistare una bara di legno nero per la sepoltura; a est un’altra famiglia sedeva a vegliare il cadavere, magari senza lacrime ma sospirando tristemente, e poi lo seppelliva. Gli alberi di paulonia del villaggio, che solitamente servivano a costruire le bare, erano stati tutti quanti abbattuti. Due dei tre falegnami erano esausti e soffrivano di mal di schiena, a furia di costruire bare tutto il santo giorno. E Wang, che ritagliava fiori di carta per i funerali, a forza di maneggiare forbici e coltello per confezionare corone mortuarie si era ritrovato le mani piene di vesciche; poi le vesciche erano scoppiate e si erano asciugate, lasciandogli una quantità di calli giallastri. All’ombra della morte gli uomini si erano impigriti. Con la morte in agguato dietro alle porte, chi aveva ancora voglia di coltivare i campi, di uscire di casa per andare a lavorare e a guadagnare soldi? Si restava chiusi in casa, porte e finestre sbarrate, per paura che la febbre trovasse uno spiraglio per intrufolarsi. A dire il vero, la si aspettava, la febbre. Si aspettava e si stava in guardia, giorno dopo giorno. Qualcuno diceva che il governo avrebbe mandato l’esercito con grandi camion a prelevare tutti i malati e li avrebbe portati nel deserto del Gansu per seppellirli vivi, come si faceva una volta, secondo la tradizione, durante le epidemie di peste. Tutti sapevano bene che era solo una diceria senza fondamento, eppure nel profondo del cuore ci credevano. E cosí, aspettando e vegliando in casa, porte e finestre sbarrate, il tempo passava e alla fine la malattia arrivava, portandosi via la gente. Man mano che i morti aumentavano, anche il villaggio cominciava a morire. La terra rimaneva incolta, nessuno la zappava. I campi erano secchi, nessuno li irrigava. In certe famiglie, quando moriva qualcuno, si continuava a mangiare, ma senza piú lavare ciotole e tegami. Un pasto dopo l’altro, cucinando nei tegami non lavati e mangiando nelle stesse ciotole e con gli stessi bastoncini non lavati. Un tale non si vedeva in giro per una quindicina di giorni, i compaesani lo credevano morto e nessuno si preoccupava di chiedere che fine avesse fatto. Credevano che fosse morto anche lui. Ma ecco che un giorno andavi al pozzo a prendere l’acqua e lo incontravi, era venuto a prendere l’acqua anche lui. Vi veniva un colpo a tutti e due, e restavate lí a guardarvi inebetiti. Poi gli chiedevi: “Santo cielo, sei ancora vivo?” E l’altro: “Ho avuto mal di testa per qualche giorno, pensavo di aver preso la febbre, invece no”. Scoppiavate in una risata liberatoria e vi sfioravate le spalle cedendovi il posto sul basamento del pozzo, tu che ti allontanavi con i tuoi secchi pieni in equilibrio sul bilanciere, lui che doveva ancora riempire i suoi di acqua. Questa era la situazione al Villaggio dei Ding. Questa era la vita e questa la malattia con il suo infinito tormento.

(…)




















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