La peste scarlatta
Jack London
Adelphi
Il vecchio si asciugò le lacrime con le nocche luride e
riattaccò a narrare con voce tremolante, stridula, che una volta ritrovato il
ritmo del racconto riacquistò vigore. «Era l’estate del 2013 quando scoppiò la
Peste. Io avevo ventisette anni e lo ricordo bene. I radiotelegrammi...».
Labbro Leporino manifestò sonoramente il suo disgusto e il Nonno si affrettò a
fare ammenda. «A quei tempi parlavamo attraverso lo spazio, a migliaia di
chilometri di distanza. E ci giunse voce che una strana malattia era scoppiata
a New York. Allora in quella che era la città più imponente di tutta l’America
abitavano diciassette milioni di persone. La notizia non fece scalpore. La cosa
era circoscritta. C’erano stati solo pochi morti. Sembrava però che fossero
morti molto rapidamente, e uno dei primi segni era che il viso e tutto il corpo
diventavano rossi. Meno di ventiquattr’ore dopo si segnalava il primo caso a
Chicago. E quello stesso giorno venne reso noto che Londra, la più grande città
del mondo dopo Chicago, combatteva in segreto la peste da due settimane e aveva
censurato la notizia; aveva cioè impedito di comunicare al resto del mondo che
a Londra c’era la peste. «Sembrava una cosa grave, ma noi in California, come
in ogni altro posto, non ci allarmammo. Eravamo convinti che i batteriologi
avrebbero trovato il modo di sconfiggere questo nuovo germe, come avevano già
fatto in passato con altri germi. Destava invece qualche timore la stupefacente
rapidità del germe nel distruggere gli esseri umani e il fatto che una volta
penetrato in un corpo umano lo uccidesse senza scampo. Nessuno era mai guarito.
Con la vecchia epidemia di colera asiatico poteva capitarti di cenare con una
persona in buona salute e il mattino dopo, se ti alzavi presto, di vederla
sfilare sotto la finestra a bordo di un carro funebre. Ma questa nuova peste
era ancora più rapida... molto più rapida. La morte sopraggiungeva entro un’ora
dai primi sintomi. C’era chi resisteva alcune ore. Molti morivano nel giro di
dieci o quindici minuti dalla comparsa dei primi sintomi. «Il cuore accelerava
i battiti e la temperatura corporea saliva. Poi l’eruzione cutanea scarlatta si
diffondeva in un baleno sul viso e sul corpo. I più non si accorgevano nemmeno
dell’aumento di temperatura e dei battiti cardiaci e la prima cosa che notavano
era l’eruzione scarlatta. Di solito, al momento della comparsa dell’eruzione
avevano le convulsioni. Ma queste non duravano a lungo e non erano molto
violente. In chi superava quella fase, subentrava una grande calma e solo
allora la persona avvertiva un torpore che dai piedi risaliva velocemente il
corpo. Il torpore attaccava prima i calcagni, poi le gambe e i fianchi, e
quando arrivava all’altezza del cuore la persona moriva. Non piombava nel sonno
o nel delirio. La mente conservava la calma e la lucidità fino al momento in
cui il cuore intorpidito si arrestava. E un’altra stranezza era la rapidità
della decomposizione. Non facevano in tempo a morire che subito il corpo
sembrava andare in pezzi, sbriciolarsi, dissolversi sotto i tuoi occhi. Questa
fu una delle ragioni della rapidità con cui il contagio si diffuse. Tutti i
miliardi di germi di un cadavere venivano così liberati all’istante. «E questo
rendeva quasi impossibile combattere i germi ai batteriologi, che perivano nei
laboratori mentre studiavano il germe della Morte Scarlatta. Erano degli eroi.
Come ne moriva uno, un altro si faceva avanti per sostituirlo. Isolarono per
primi il germe a Londra. La notizia fu telegrafata ovunque. L’uomo che aveva
portato a termine l’impresa si chiamava Trask, ma nel giro di trenta ore era
morto. Poi tutti i laboratori si impegnarono nella ricerca di qualcosa che
uccidesse i germi della peste. Non si trovava un farmaco adatto. Il problema,
vedete, era trovare un farmaco, o siero, che uccidesse i germi presenti nel
corpo senza uccidere il corpo. Cercarono di combatterlo con altri germi, di
iniettare nel corpo di un malato germi nemici dei germi della peste...». «E
’sti cosi, ’sti germi, non si vedono,» obiettò Labbro Leporino «e tu, Nonno,
bla-bla-blateri come se fossero qualcosa, mentre non sono niente di niente.
Quello che non si vede non c’è, punto e basta. Combattere cose che non ci sono
con cose che non ci sono! Dovevano essere tutti bacati, a quei tempi. Per
questo ci hanno rimesso la cotenna. Sai che ti dico: tu a me certe balle non le
dai a bere». Il Nonno riattaccò con le lacrime, mentre Edwin prendeva
animatamente le sue difese. «Guarda che anche tu credi a un sacco di cose che
non si vedono, Labbro Leporino». Labbro Leporino scosse il capo. «Tu credi che
i morti vanno in giro. E quando mai ne hai visto uno?». «E invece sì. Li ho
visti l’inverno scorso, mentre andavo a caccia di lupi con mio padre». «Però
sputi sempre quando attraversi un corso d’acqua» lo provocò Edwin. «Lo faccio
per scacciare la sfortuna» si difese Labbro Leporino. «Tu credi nella sfortuna?».
«Eccome». «Eppure non l’hai mai vista» concluse Edwin trionfante. «Non sei
meglio del Nonno coi suoi germi. Tu credi in quello che non vedi. Continua,
Nonno». Labbro Leporino, annientato dalla sconfitta metafisica, rimase in
silenzio e il vecchio riprese a parlare. Spesso e volentieri, anche se non è il
caso di appesantire la narrazione con certi particolari, il racconto del Nonno
veniva interrotto dai battibecchi fra i ragazzi. E, sempre fra loro, mentre si
sforzavano di seguire il vecchio in quel suo mondo scomparso e a loro ignoto,
mantenevano a bassa voce un continuo scambio di spiegazioni e ipotesi. «La
Morte Scarlatta scoppiò a San Francisco. Il primo decesso si verificò un lunedì
mattina. Il giovedì le persone morivano già come mosche a Oakland e a San
Francisco. Morivano dappertutto: a letto, sul lavoro, camminando per strada. Il
martedì vidi morire qualcuno per la prima volta: Miss Colibran, una delle mie
studentesse, seduta proprio di fronte a me nell’aula. Mentre parlavo notai che
il viso improvvisamente era diventato scarlatto. Smisi di parlare senza
riuscire a staccarle gli occhi di dosso. I primi timori della peste si erano
già insinuati in tutti noi e capimmo che era arrivata. Le ragazze si
precipitarono urlando fuori della stanza. Così fecero anche i ragazzi, tranne
due. Le convulsioni di Miss Colibran erano assai lievi e durarono meno di un
minuto. Uno dei giovani le portò un bicchiere d’acqua. Lei ne bevve solo un
sorso prima di gridare: «“I piedi! Non li sento più”. «Dopo un minuto disse:
“Non ho i piedi. Mi sembra di non avere i piedi. E le ginocchia sono fredde.
Non sento quasi più le ginocchia”. «Era stesa in terra, un fascio di quaderni
sotto la testa. E noi non potevamo fare niente. Il freddo e il torpore
risalirono su per i fianchi fino al cuore e una volta raggiunto il cuore lei
era morta. Un quarto d’ora esatto – l’ho cronometrato – ed era morta, lì, nella
mia classe, morta. Ed era una ragazza robusta e bellissima, che scoppiava di
salute. E dal primo sintomo della peste alla sua morte era trascorso appena un
quarto d’ora. Questo per dimostrarvi la rapidità della Morte Scarlatta. (...)
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