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Lunario dei giorni di paura


Quarantaquattresima settimana

ghosh2

 

Io sono leggenda

Richard Matheson


(...)

La donna giaceva immobile sul letto di Neville, addormentata. Erano passate le quattro del pomeriggio. Lui aveva fatto capolino in camera almeno venti volte per guardarla e vedere se fosse sveglia. In quel momento era seduto in cucina a bere caffè e ad allarmarsi. Ma se poi è infetta? si chiese dubbioso. L’allarme era iniziato qualche ora prima, mentre Ruth dormiva. Adesso non riusciva a togliersi di dosso quella paura. Per quanto ci ragionasse, non c’era niente da fare. D’accordo, era abbronzata dal sole, aveva camminato a lungo sotto la luce del giorno. Anche il cane aveva vissuto alla luce del giorno. Neville tamburellava incessantemente con le dita sul tavolo. La semplicità se ne era andata una volta per tutte: il sogno era sfumato in una complessità inquietante. Non c’era stato nessun abbraccio portentoso, non erano state pronunciate parole magiche. A parte il nome, non era riuscito a tirarle fuori altro. Portarla fino a casa era stata una lotta. Convincerla a entrare era stato anche peggio. Aveva pianto e lo aveva supplicato di non ucciderla. Qualunque cosa lui le dicesse, lei continuava a piangere e a supplicarlo. Si era raffigurato una scena degna di un film hollywoodiano: sguardi languidi, un ingresso in casa abbracciati l’un l’altra, dissolvenza. Invece era stato costretto a tirarla e ammansirla e discutere e rimproverarla mentre lei puntava i piedi. L’ingresso era stato tutt’altro che romantico. Aveva dovuto trascinarla dentro. Una volta in casa, la sua paura non era certo diminuita. Lui aveva cercato di comportarsi in modo da rassicurarla, ma lei si era rintanata in un angolo proprio come aveva fatto il cane. Non aveva mangiato né bevuto niente di quello che le aveva dato. Alla fine era stato costretto a portarla in camera da letto e chiuderla dentro. Ora dormiva. Emise un sospiro stanco e passò il dito sul manico della tazza. Tutti questi anni passati a sognare una persona che potesse farmi compagnia, pensò. Ora che ne incontro una, la prima cosa che faccio è perdere la sua fiducia, trattandola in modo rozzo e spietato. Eppure non c’era molto altro che potesse fare. Aveva accettato già da tempo l’ipotesi di essere l’unica persona rimasta. Non importava che avesse anche lei un aspetto normale. Ne aveva visti fin troppi in stato comatoso eppure con la stessa aria sana che aveva lei. Ma sani non erano, e lui lo sapeva. Il fatto che avesse camminato alla luce del sole non bastava a far inclinare l’ago della bilancia in favore di una fiduciosa accettazione. Dubitava da troppo tempo. La sua concezione della società era ormai ferrea. Gli era quasi impossibile credere che ci fossero altri come lui. E dopo che lo shock iniziale si era affievolito, le certezze assolute dei tanti anni passati da solo si erano riconfermate. Con il respiro fiacco si alzò e tornò in camera da letto. Lei era ancora nella stessa posizione. Forse, pensò, era di nuovo caduta in coma. Si fermò accanto al letto, a fissarla. Ruth. C’erano così tante cose di lei che voleva sapere. Eppure aveva quasi paura di scoprirle. Perché, se era come tutti gli altri, per lui si prospettava un’unica strada. Ed era meglio non sapere niente di chi si doveva uccidere. Mosse nervosamente le mani lungo i fianchi, i suoi occhi azzurri la guardarono senza emozione. Possibile che fosse solo un episodio casuale? Che si fosse risvegliata dal coma per un po’ e avesse cominciato a vagare? Sembrava plausibile. Eppure, a quanto ne sapeva, la luce del giorno era l’unica cosa a cui il germe non poteva resistere. Ma perché non bastava a convincerlo della sua normalità? Be’, c’era solo un modo per esserne certi. Si chinò e le mise una mano sulla spalla. «Svegliati» le disse. Lei non si mosse. Neville serrò le labbra e con le dita percorse la sua spalla morbida. Fu allora che vide la catenina d’oro intorno al collo. Avvicinandosi con le dita ruvide, la sollevò dal corpetto del vestito. Stava guardando la minuscola croce d’oro quando lei si svegliò e si girò verso il cuscino. Non è in coma: fu il suo unico pensiero. «Cosa stai f-facendo?» chiese con un filo di voce. Quando parlava era più difficile non fidarsi di lei. Il suono della voce umana era così strano alle sue orecchie da esercitare su di lui un potere che non aveva mai avuto prima. «Io… niente» rispose. Indietreggiò maldestramente e si appoggiò alla parete. La guardò per un istante ancora. Poi le chiese: «Da dove vieni?». Lei rimase distesa a guardarlo con aria inespressiva. «Ti ho chiesto da dove vieni» le disse. Di nuovo, lei non rispose. Si allontanò dalla parete con uno sguardo duro sul viso. «Ing… Inglewood» si affrettò a dire. Lui la guardò con freddezza per un attimo, poi si addossò di nuovo al muro. «Capisco» disse. «Vivevi… vivevi sola?» «Ero sposata.» «Dov’è tuo marito?» Le vide un movimento in gola. «È morto.» «Da quanto?» «La settimana scorsa.» «E cosa hai fatto dopo che è morto?» «Ho corso.» Si morse il labbro inferiore. «Sono scappata.» «Vuoi dire che sei rimasta in giro per tutto questo tempo?» «… Sì.» La guardò senza dire una parola. Poi si girò di scatto e i suoi passi pesanti rimbombarono sul pavimento mentre si dirigeva in cucina. Aperto lo sportello di un pensile, tirò giù una manciata di spicchi d’aglio. Li mise su un piatto, li fece a pezzetti, li ridusse in poltiglia. Una zaffata acre gli assalì le narici. Quando tornò in camera, lei si era tirata su, appoggiandosi su un gomito. Senza aspettare un minuto, le spinse il piatto quasi in faccia. Lei girò la testa con un flebile grido. «Cosa stai facendo?» gli chiese, dando un colpo di tosse. «Perché ti giri dall’altra parte?» «Ti prego…» «Perché ti giri dall’altra parte?» «Puzza!» La sua voce si ruppe in un singhiozzo. «Per favore! Mi fai venire la nausea!» Lui spinse il piatto ancora più vicino alla faccia. Accennando un conato di vomito, lei arretrò e si schiacciò contro il muro, le gambe tirate a sé sul letto. «Smettila! Per favore!» lo supplicò. Lui tirò via il piatto e vide il corpo contorcersi sotto gli spasmi dello stomaco. «Sei una di loro» le sussurrò astioso. Lei scattò a sedere e lo superò di corsa per entrare in bagno. Chiuse la porta sbattendola e lui la sentì vomitare ferocemente. Perplesso, posò il piatto sul comodino. Deglutì a fatica. Infetta. Quello era un segnale inequivocabile. Aveva appreso più di un anno prima che l’aglio causava una reazione allergica in ogni sistema contagiato dal bacillo vampiris. Quando il sistema veniva esposto all’aglio, i tessuti così stimolati sensibilizzavano le cellule, causando una reazione anomala a ogni ulteriore contatto con l’aglio. Ecco perché iniettarlo loro nelle vene era servito a poco. Dovevano essere esposti all’odore. Si abbandonò a sedere sul letto. E la donna aveva reagito nel modo sbagliato. Un istante di pausa, poi Robert Neville si accigliò. Se quello che aveva detto la donna era vero, doveva aver vagato per una settimana. Sarebbe stato naturale sentirsi sfinita e debole, e in quelle condizioni l’odore di una tale quantità d’aglio poteva averla fatta vomitare. Batté i pugni sul materasso. Non poteva esserne certo, dunque non ancora. E, obiettivamente, sapeva di non avere il diritto di arrivare a una conclusione partendo da prove inadeguate. Lo aveva imparato a sue spese, ne era convinto e ci credeva ciecamente. Era ancora seduto sul letto quando lei uscì dalla porta del bagno che aveva chiuso a chiave. Si fermò un istante nel corridoio a guardarlo, poi entrò in soggiorno. Lui si alzò e la seguì. Quando raggiunse il soggiorno, lei era seduta sul divano. «Sei contento?» gli chiese. «Lascia perdere» le rispose. «Sei tu quella che deve dimostrare qualcosa, non io.» Alzò gli occhi con aria rabbiosa, come se volesse parlare. Poi abbandonò il corpo sul divano e scosse il capo. Per un attimo, lui provò un guizzo di compassione. Aveva un’aria così impotente, con le mani esili posate in grembo. Sembrava non le importasse più di avere il vestito strappato. Neville guardò la lieve rotondità del suo seno. Aveva una corporatura molto snella, quasi senza curve. Per niente simile alle donne che un tempo gli occupavano la mente. Lascia perdere, si disse, ora non ha più importanza. Si sedette in poltrona e la osservò. Lei non ricambiò lo sguardo. «Ascoltami» le disse allora. «Ho tutti i motivi per sospettare che tu sia infetta. Soprattutto visto come hai reagito all’aglio.» Lei non rispose nulla. «Non hai niente da dire?» le chiese. Lei alzò gli occhi. «Pensi che sia una di loro» disse. «Penso che potresti esserlo.» «E che mi dici di questa?» gli chiese prendendo in mano il crocifisso che portava al collo. «Non significa niente» disse lui. «Sono sveglia» proseguì la donna. «Non sono in coma.» Lui non rispose. Era qualcosa a cui non poteva controbattere, anche se non placava i suoi dubbi. «Sono stato a Inglewood molte volte» disse lui alla fine. «Perché non hai sentito la mia auto?» «Inglewood è grande» rispose. La studiò con attenzione, tamburellando con le dita sul bracciolo della poltrona. «Vorrei… vorrei tanto crederti» le disse. «Davvero?» gli chiese lei. Fu assalita da un altro spasmo allo stomaco e dovette piegarsi trattenendo il fiato e stringendo i denti. Robert Neville rimase immobile a chiedersi come mai non provasse più compassione nei suoi confronti. Difficile, però, che i morti potessero suscitare emozioni. Le aveva consumate tutte e ormai si sentiva vuoto, senza sentimenti. Dopo un istante, lei alzò gli occhi. Aveva uno sguardo duro. «Sono sempre stata debole di stomaco» disse. «La settimana scorsa ho visto uccidere mio marito. Smembrato pezzo a pezzo. L’ho visto proprio davanti ai miei occhi. L’epidemia mi ha portato via due figli. E nell’ultima settimana non ho smesso di vagare. Mi nascondevo di notte, mangiavo solo qualche rimasuglio di cibo. La paura mi divorava, non riuscivo a dormire più di due ore di seguito. Poi sento qualcuno che mi chiama. Mi rincorri per un campo, mi colpisci, mi trascini in casa tua. Poi mi sento male perché mi piazzi davanti alla faccia un piatto di aglio puzzolente, e mi dici che sono infetta!» Le sue mani, in grembo, si muovevano a scatti. «Che cosa ti aspettavi?» aggiunse rabbiosa. Si abbandonò di nuovo all’indietro sullo schienale del divano e chiuse gli occhi. Con le mani tormentava nervosamente l’orlo del vestito. Per un attimo cercò di rimboccare il pezzo stracciato, ma ricadde giù e lei singhiozzò stizzita. Neville si allungò in avanti dalla poltrona. Ora cominciava a sentirsi in colpa, nonostante i dubbi e i sospetti. Era più forte di lui. Aveva dimenticato cosa si provava davanti a una donna in lacrime. Alzò lentamente una mano verso la barba e se la lisciò mentre la osservava, confuso. «Mi faresti…» iniziò. Deglutì. «Mi faresti prendere un campione del tuo sangue?» le chiese. «Potrei…» Lei si alzò di scatto e barcollò verso la porta. Lui fu in piedi all’istante. «Cosa stai facendo?» le chiese. Lei non rispose. Cominciò ad armeggiare goffamente con la serratura. «Non puoi uscire» le disse, sorpreso. «Tra poco loro saranno dappertutto, là fuori.» «Non voglio restare qui» disse tra i singhiozzi. «Che differenza fa se mi uccidono?» Le bloccò il braccio con le mani. Lei cercò di ritrarlo. «Lasciami stare!» gridò. «Non ti ho chiesto di portarmi qui. Sei stato tu a trascinarmi a casa tua. Perché non mi lasci in pace?» Lui le rimase accanto in imbarazzo, senza sapere cosa dire. «Non puoi uscire» le ripeté. La riportò al divano. Poi andò a prenderle un bicchiere con due dita di whisky al mobile bar. Chi se ne importa se è infetta o no, si disse, chi se ne importa. Le porse il bicchiere. Lei fece no con la testa. «Bevilo» le disse. «Ti aiuterà a calmarti.» Lei alzò lo sguardo con aria rabbiosa. «Così puoi mettermi altro aglio davanti alla faccia?» Neville scosse il capo. «Bevilo, avanti» ripeté. Dopo qualche istante, lei prese il bicchiere e diede un sorso. Il whisky la fece tossire. Posò il bicchiere sul bracciolo del divano e fu scossa da un respiro profondo. «Perché vuoi che resti?» gli chiese mesta. Lui la guardò senza avere una risposta chiara in mente. Poi rispose: «Anche se sei infetta, non posso lasciarti andare là fuori. Non sai cosa ti farebbero». Lei chiuse gli occhi. «Non mi importa» disse.

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