frecciagialla

Lunario dei giorni di paura


Quinta settimana

georgiche


Publio Virgilio Marone

Le Georgiche

Opera in quattro libri composta in esametri, dedicata al rapporto con la natura, le Georgiche di Virgilio, uno dei massimi poeti della Roma antica, hanno la particolarità di narrare non una epidemia tra gli uomini, ma bensì tra gli animali: le cui conseguenze però, dal punto di vista dell’equilibrio ecologico, sono per l’uomo parimenti devastanti. Forse anche per questo il terzo libro, quello che affronta la pestilenza, non è avulso né dall’attonito stupore di matrice lucreziana, né dal sentimento della pìetas.

(…)

In questi luoghi orribile già nacque

Da l’äer guasto contagiosa peste,

Che incrudelì nel caldo autunno, e tutte

Infettò l’acque, e i pascoli corruppe,

E armenti, e gregge, e fin le belve uccise.

Nè conosciuto, o naturale il modo

Era in lor di morir: chè ove ignea sete,

Dentro le vene penetrando, attratte

E inaridite avea le membra, un nuovo

Quindi umor generavasi che pregno

D’acre veleno in putrida sciogliea

Liquida tabe le midolle e l’ossa.


Spesso appiè de l’altar, mentre a le corna

Le sacre s’avvolgean candide bende

Per offrirla a gli dei; l’ostia si vide

Fra le man de gli attoniti ministri

Moribonda cader; o se taluna

Il sacerdote ne uccidea col ferro,

Nè le viscere imposte ardean su l’ara,

Nè il consultato aruspice risposta

Trarne incerto potea: di sangue appena

Eran tinti i coltelli, e poche stille

D’atra tabe macchiavano il terreno.

Presi dal morbo rio su i paschi erbosi,  

E ne i presepii, e ne gli ovili a torme

Muoiono agnelli e buoi; mordace rabbia

Assale i cani, e vïolenta tosse

Agita e strozza soffocando i porci.


Langue il destrier già vincitore, e i fonti

Sdegna e l’erbe svogliato, e raspa e batte

Con piè frequente il suol, chine ha le orecchie,

E un interrotto, e ne i vicini a morte

Freddo sudor gronda dal corpo, ed aspra

Resiste al tatto l’indurita pelle.


Questi ne i primi dì precoci segni

Di morte si palesano, e se poi

Segue il morbo a inasprir, ardenti allora

Son gli occhi, e grave, e dal profondo petto

Tratto a stento il respir: teso è da i lunghi

Singulti il fianco palpitante, un nero

Sangue giù cola da le nari, e chiude

L’asciutte fauci l’ingrossata lingua.

Dapprincipio giovò l’arida gola

D’infuso vino ristorare, e parve

Questo lo scampo sol, ma poi del male

Fu il rimedio peggior; poichè, riprese

Quindi le forze, da feroce rabbia

Ardevano invasi, e nel morir (ah lungi

Da i buoni, a i soli rei serbate, o numi

Tanto furor) contro di se volgendo

I nudi denti, in sanguinosi brani

Lacerando mordevansi le membra.


 Ecco ahi! fumante di sudor sul campo,

Mentre il vomero trae, cade gemendo

L’esangue toro, ed a la spuma misto

Vomita il sangue: l’arator dolente

Vassene, e lagrimando il bue compagno,

Mesto lui pur de la fraterna morte,

Dal timone distacca, e a mezzo il solco

Confitto lascia e in abbandon l’aratro.


Non l’ombra più de gli alti boschi, o l’erba

De i molli prati or possono, nè l’onda,

Che scorre limpidissima qual ambra

Di sasso in sasso a zampillar su i campi,

L’egro armento allettar: ansa dimesso

Il cavo fianco, istupiditi e immoti

Stan gli occhi in fronte, e dal suo peso tratta

Chinasi al suol la languida cervice.


Ahi! questo dunque de i sudori sparsi,

Questo di tante a pro de l’uom fatiche

E’ dunque il frutto? E che giovò la terra

Con assiduo lavor svolgere, e il collo

Sotto il giogo incallir? Eppur fumosi

 Vini ad essi non nocquero, o mal sane

Ricercate vivande: usato cibo

Erano l’erbe semplici e le frondi,

Sola bevanda le scorrevoli acque

Di fonte o fiume, e i placidi lor sonni

Mai non ruppe, o turbò cura inquïeta.

 Fama è, che in tutti quei contorni allora

A i sagrificii di Giunone e i tori

Mancarono, e le solite giovenche,

E i cocchi a trarne con le offerte al tempio

Silvestri buoi si ritrovaro appena.

Quindi la terra a lavorar costretti

Fur quelle genti senz’aratro, e i solchi

Con zappe aprire, ed incastrarvi il seme

Co l’unghie, e il collo sopponendo al giogo

I carri a stento strascinar su i monti.


Non più a la greggia insidïando, il lupo

Notturno esplora il chiuso ovil, da cura

Più grave oppresso: e le fugaci damme

E i päurosi cervi in mezzo a i cani

Vanno ora errando, e a le capanne intorno.

Nè il rio contagio a lo squammoso armento

845Del mar perdona; in su l’estremo lido

Quasi naufraghi corpi i pesci esangui 

 Rigetta il fiotto, e dentro ai fiumi ignoti

Corron le foche a ricovrarsi: invano

Nel suo covil la vipera s’appiatta,

E l’irte squame attonito drizzando

Spira il serpente; velenosa è pure

L’aria a gli augelli, e a mezzo vol cadendo

Sotto le nubi lasciano la vita.

(…)




















rotusitala@gmail.com