Somerset W. Maugham Il velo dipinto Adelphi «Quando
mi hanno telegrafato che Fane veniva con la moglie mi sono stupito. Ma poi ho
pensato che lei magari era un’infermiera, e questo genere di cose rientrava nei
suoi compiti. Mi aspettavo una di quelle donne arcigne che in ospedale fanno
fare ai malati una vita da cani. Quando sono entrato nel bungalow e ho visto
lei seduta a riposare mi ha preso un colpo. Sembrava così fragile, pallida e
stanca». «Non poteva pretendere che fossi molto in forma, dopo nove giorni per
strada». «Sembra fragile, pallida e stanca anche adesso, e se mi permette di
dirlo, disperatamente infelice». Kitty non poté evitare di arrossire, ma riuscì
a ridere con una parvenza di gaiezza. «Mi duole che non le piaccia la mia
espressione. La sola ragione per cui ho l’aria infelice è che dall’età di
dodici anni so che il mio naso è un po’ troppo lungo. Ma nutrire una pena
segreta è una posa molto efficace: lei non ha idea di quanti bravi giovanotti
hanno desiderato di consolarmi». Gli occhi azzurri e lucenti di Waddington si
posarono su di lei e Kitty capì che non credeva affatto alle sue parole. Poco
importava, purché fingesse di crederci. «Sapevo che non eravate sposati da
molto tempo e conclusi che lei e suo marito eravate innamorati pazzi. Non potevo
credere che Fane avesse voluto portarla con sé, ma forse lei aveva rifiutato
assolutamente di restarsene a casa». «È una spiegazione molto ragionevole»
disse Kitty con disinvoltura. «Sì, ma non è quella giusta». Lei aspettò che
continuasse, timorosa di quello che avrebbe detto, perché conosceva la sua
sagacia e sapeva che non esitava a dire quello che pensava; ma al tempo stesso
era desiderosa di sentirlo parlare di lei. «Non credo che lei sia innamorata di
suo marito. Penso che non lo ami affatto, e non sarei sorpreso se lo
detestasse. Ma sono sicurissimo che ne ha paura». Per un momento Kitty guardò
altrove. Non voleva lasciar vedere a Waddington quanto era toccata. «Ho il
sospetto che mio marito non le sia molto simpatico» disse, calma e ironica. «Lo
rispetto. Ha cervello e carattere, e questa, le assicuro, è una combinazione
molto insolita. Suppongo lei non sappia cosa sta facendo qui, perché non mi
pare che con lei sia molto espansivo. Se è possibile a un uomo mettere fine da
solo a questa orribile epidemia, lui lo farà. Medica i malati, ripulisce la
città, cerca di purificare l’acqua potabile. Non bada a dove va e a cosa fa.
Rischia la vita venti volte al giorno. Il colonnello Yü pende dalle sue labbra,
e lui lo ha convinto a mettere la truppa a sua disposizione. Ha infuso un po’
di coraggio perfino nel magistrato, e il vecchio sta cercando davvero di fare
qualcosa. E le suore del convento stravedono per lui. Lo considerano un eroe».
«Lei no?». «Dopotutto non è mica il suo lavoro, no? Lui fa il batteriologo. Non
aveva nessun obbligo di venire qui. Non mi dà l’impressione di essere mosso
dalla compassione per tutti questi cinesi morenti. Watson era diverso. Amava il
genere umano. Era un missionario, ma per lui non faceva differenza se uno era
cristiano, buddhista o confuciano, erano solo esseri umani. Suo marito non è
qui perché gli importi un accidente se centomila cinesi muoiono di colera; e
nemmeno è qui per amore della scienza. Perché è venuto?». (...) |